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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

E POI MI SONO VISTO IN UN O SPECCHIO E HO PENSATO: CHI E QUEL PAGLIACCIO?


[Morgan, Marco Castoldi]

MLANO. «Elimino gli Spritz for Five però lascio X Factor per sempre, arrivederci... Non c’entro più nulla con le derive che ha preso questa trasmissione, vi ringrazio è stato bello» si congeda Morgan nella puntata del 13 novembre.
Per poi tornare in quella successiva, «a volte ritornano» si limita a dire.
Incostante, capriccioso, ingestibile? Marco Castoldi, 42 anni, musicista, popstar, personaggio tv suo malgrado, ha scritto un libro: II libro di Morgan – Io, la musica, l’amore, gli stronzi e Dio (Einaudi Stile Libero). Un libro sorprendente dove tra Carmelo Bene, Depeche Mode, Duran Duran, Chomsky e Beethoven, Marco bambino chiede in regalo il sintetizzatore al posto del montone; dove Marco trentenne, lasciato da Asia Argento, torna in Italia e si propone come dj della filodiffusione natalizia di Monza; ma anche dove Marco sedicenne si trova di fronte al suicidio del padre. Un romanzo di formazione doloroso e allegro. E dunque, per tutti coloro che si chiedono chi sia davvero Morgan – rivoluzionario, folle, idealista? – questa è la risposta.
Il suo annunciare che se ne va per poi tornare, non è forse una continua messa in scena della fine, una sfida all’epilogo irreversibile?
«No».
Perché se ne va allora?
«Essendo interessato alle dinamiche artistiche, alle ragioni estetiche, alla ricerca, mi cadono le braccia quando non le vedo rispettate. Non ho il distacco necessario, quando si dice “sii superiore”, ecco, io non lo sono. Non sono superiore alla passione».
E perché poi torna?
«La mia priorità è il rapporto coi ragazzi. Non meritano il mio abbandono, sono gli anelli deboli della catena, andandomene danneggerei loro. Distruggerei il loro sogno, quando io sono uno che il suo lo ha realizzato. Oggi faccio quello che voglio, senza costrizioni, senza schematismo. La mia è un’esistenza d’invenzione continua».
Nel libro dice: se vuoi diventare una star, devi essere pronto a morire, che significa?
«La vita di palco, la vita di personaggio noto, implica la lontananza dalla vita quotidiana: programmazione domestica, rapporto giorno notte, ordine. Se uno è disposto a rinunciare alla propria vita, può diventare una star. Del resto si sa: le stelle sono morte da milioni di anni».
Lei ha rinunciato alla sua vita?
«Spesso mi dimentico di mangiare, di cambiarmi i vestiti, di uscire di casa».
Eppure dal libro viene fuori un Morgan combattuto tra l’essere una star e il desiderio di tornare una persona normale. Parla addirittura di vergogna, vergogna di cosa?
«Quando un uomo di spettacolo esce da quell’ambiente e si trova in un mondo di persone normalizzate, diventa – a buona ragione – molto critico. Per esempio, io un giorno mi sono visto nello specchio della banca. Sopra le proposte di finanziamenti c’era questo tizio in pelliccia coi capelli arancioni. Mi sono chiesto: chi è quel pagliaccio?».
Conseguenza?
«Ho pensato: se voglio entrare nella banca non devo essere così, devo scegliere».
Ha scelto?
«Ho smesso di tingermi i capelli di arancione».
Cosa c’entra questo Morgan ragionevole, autocritico, con quello raccontato dai giornali?
«Niente. Il primo è una loro costruzione: il personaggio instabile, ingestibile. In realtà io sono il meno divo di tutti, non mi accendo quando si accende la luce rossa. Sono sempre uguale. Il mio compito in tv è (è stato? Sarà?) dire: “non fate i soldatini, siate autonomi, imparate a dissentire”. Bisogna sapere quanto vale un essere umano, bisogna sapere quanto vale un artista».
Lei lo sa?
«Nell’arte non ci sono azioni di dominio e di controllo».
Chi è Morgan dunque?
«Loro spesso vogliono costruire un personaggio tragico, un mostro. Io non sono tragico. Sono una persona ottimista, vitale, gentile. Se un giorno mi troveranno morto e diranno si è suicidato, sarà una menzogna, ve lo dico già da ora. Da piccolo al suicidio ho assistito da vicino, molto da vicino, e non mi è piaciuto per niente. Io amo la vita».
E il dolore?
«Bisogna saperlo gestire, non lasciarlo lì. Mia mamma quando era arrabbiata dipingeva fiori sul muro, e non è mica Leonardo da Vinci. O muori o vivi. E quando vivi, devi vivere a pieno».
Nessuna fascinazione per la morte, la perdizione, persino per Satana come vorrebbero far credere alcuni giornali?
«I satanisti sono dei cretini come l’idoletto che adorano. Satana sa dire solo che tutto è brutto, tu tenti di controbattere – è una sedia, può essere utile – e lui risponde che no, è brutto, brutto, brutto. Come un bambino impazzito. Questo è il diavolo».
Lei ha conosciuto Marilyn Manson, giusto?
«Marilyn Manson è un brav’uomo. Semplice, tranquillo. Il suo problema è essere una diva che scende le scale, una Wanda Osiris ma con l’allure satanico alla buona».
Una costruzione quindi?
«Lui si chiama Brian e io ragionavo: scusate, sua madre come lo chiama?. “Brian” mi dicevano. E non si volta quando la madre lo chiama? “No, quando lo chiama la madre si volta”, mi rispondevano. Allora anch’io lo chiamavo Brian». E lui si voltava?
«No».
Nel libro parla del tempo in cui i Bluvertigo non venivano riconosciuti da nessuno, poi racconta di questi anni, della gente che la ferma per strada: ueee Morgan! Grandissimo! Meglio prima o adesso?
«Rimpiango gli anni dell’invisibilità».
Nessuna paura di sparire?
«Leggo interviste di cantanti che dicono: devo fare il nuovo disco. Ogni anno. Come se ci fosse bisogno della loro musica. Fanno sempre la stessa canzone. Il 90 per cento dei cantanti italiani fa sempre la stessa canzone».
Lei invece ritarda la fine, teorizza la bellezza dell’opera incompiuta, fa passare anni fra un disco e un altro, perché?
«La fine non m’interessa, m’interessa più quello che succede mentre».
Cosa è successo tra il suo ultimo disco e questo in uscita?
«Tante cose. Centinaia di pezzi composti, studio, musica, figlie».
Che padre è?
«Non rispondo».
Cosa fa con le sue figlie?
«Gioco. Si può giocare con le parole, col corpo, con gli stracci. I giocattoli arrivano alla fine. E molti sono solo pezzi di plastica».

Teresa Ciabatti