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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

LA SPECULAZIONE FINANZIARIA FATTA CON GLI EDITORIALI

Il supplemento Life and Arts del Financial Times è uno delle isole del tesoro della stampa globale, ma sabato ha pubblicato un articolo di commento che riunisce in un solo colpo i quattro difetti capitali della ‘cultura del commento’: impressionismo, riassuntismo, catastrofismo, battutismo.
Quegli stessi errori che suggeriscono a molti di lasciar perdere gli opinionisti e preferire loro i data-journalists. Ma quando il tavolo da gioco si chiama Financial Times, e l’audience è una selezionata classe di lettori globali influenti, in cui a meno di tre gradi di separazione si copre l’intero spettro del potere economico occidentale, un pezzo superficiale come quello che Simon Kuper ha dedicato al cosiddetto ‘declino italiano’ fa pensar male e sospettare peggio. L’abstract del pezzo è: ‘sono stato invitato per un paio di volte in Italia negli ultimi due mesi e vi racconto in tre colonne la differenza tra crisi e declino. Lo faccio senza citare una mezza cifra, o un dato numerico di qualsiasi tipo, intervistando persone che ho per varie ragioni intercettato lungo il cammino (quasi tutti a diversi gradi ‘opinionisti’, osservatori, a loro volta – e di ottima qualità, peraltro), senza ascoltare la testimonianza di nessun protagonista – positivo o negativo – della ‘crisi’. Il modello anglosassone della ‘letter from Rome’, o ‘from Milan’, che in un’epoca di verifiche incrociate e disponibilità di informazioni assoluta forse dovrebbe un po’ essere rivisto.

La tesi di fondo è che l’Italia è due o tre passi dentro il delirio tremendo della disperazione economica e sociale, e in questo commento fatto da un commentatore raccogliendo commenti da altri ‘commentatori’: John Foot, Giuliano da Empoli, Marianna Albini, Tommaso Pellizzari, Gianni Riotta, John Kings della filiale italiana della Hopkins University.
(Attenzione: io stesso mi ritengo un commentatore quando si parla di public affairs, e tutti i nomi citati appartengono a persone che stimo e che a mio parere dovrebbero infuriarsi per essere stati assorbiti in un flusso di idee così poco approfondite su un tema grave).
Le scene si svolgono lungo il passeggio di Reggio Emilia, in una piazza di Bologna, nella sede milanese di Eataly. I nodi del discorso sono una sequenza di cliché ben noti a tutti noi che viviamo full-time o part-time in Italia: la gerontocrazia, la guerriglia anagrafica, la disoccupazione giovanile, la fuga dei cervelli, la vocazione turistica-enogastronomica come ultima spiaggia inevitabile (ma in fondo disprezzata) per il mantenimento dei livelli di benessere e ‘dolce vita’. Il titolo è infatti ‘How Italy lost la Dolce Vita’ – tanto per non risparmiarsene neppure uno, di luogo comune.

Ora. Mi rendo conto che nemmeno in questa infuriata reazione – la mia – c’è un briciolo di computazione, di percentuale, di analisi nel merito: il punto su cui voglio attrarre attenzione è sul metodo. So che il nostro paese è immerso in una specie di terapia intensiva al contrario, oltre che in un mare di melma. Ma è un ecosistema troppo complesso e stratificato e raffinato per subire una condanna con rito abbreviato e dopo tre visite all’ombra delle foglie che ingialliscono, con l’aggravante di una fragranza ‘colonial’ che in un mondo così interconnesso e dipendente suona addirittura ridicola. Ma in qualità di animo curioso, di autore letterario e collaboratore di giornali, di curatore, mi domando perché sia così difficile incontrare le stesse persone che incontro io tutte le settimane: artisti e architetti, imprenditori che guidano aziende di biotecnologie o di design, operatori culturali infaticabili, menti e corpi che si muovono tra qui e l’estero senza lamentarsi, artigiani e intellettuali e dirigenti e architetti e funzionari civilissimi che non ‘sognano le vacanze al mare’, o non passano i giorni a dare la colpa alle generazioni precedenti (che hanno enormi colpe), e molto altro ancora. Quando poi, nel mezzo dell’articolo, per indicare che da noi non c’è più differenza fra destra e sinistra si cita uno speculatore finanziario (anonimo) ‘così di destra da aver sempre appoggiato l’apartheid in Sudafrica’ che alle ultime elezioni europee ha votato ‘per Matteo Renzi’, viene da pensare che questo genere di interventi giornalistici sono forse meno improvvisati di come sembrano, e più chirurgici, e più organizzati.

Io leggo giornalismo di qualità da quando ho 15 anni. È stato il mio talismano per resistere alle teorie cospirative. Sono vaccinato a vita contro qualsiasi tentativo di attrazione per il complotto. Ma a volte, leggendo pezzi come quello di Simon Kuper, mi viene da chiedere: perché? Come? Quando? Quanto ? Quale può essere l’effetto di discorsi del genere, ribattuti e ripetuti stancamente o pigramente per mesi e anni, su chi deve ‘scommettere sul fallimento di un paese?’ Quale può essere, più in pratica, l’effetto su chi vorrebbe o potrebbe investire in quello stesso paese? Cui prodest questa mole devastante di impressionismo, se non a quella (limitata ma significativa) fetta di impressionismo che gioca un ruolo nelle pur ponderatissime decisioni macro-finanziarie? Poi mi riprendo. Magari è solo il dispiacere, una ferita che ferisce e basta (d’altronde non è una relazione biunivoca: gli intellettuali anglosassoni non si danno pena per le descrizioni degli inviati italiani). Poi però mi viene in mente che avrebbe fatto meglio a usarle anche lui, le famose varie ‘w’, e marcare ancora una volta – come fa spesso il Financial Times – la differenza tra cultura dell’informazione e cultura della chiacchiera a fine-pasto. E’ in questa differenza che hanno ancora senso i ‘media’: un terreno preciso, alchemico, nel quale si fanno cose con le parole, e viene separato il grano dal loglio, e lo ‘standard’ dal ‘poor’. E se incontri qualcuno che da un podio accreditato confonde i confini di questo passaggio – per ideologia, superficialità, o interesse annusato nell’aria – ribellarsi è giusto.