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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

Come l’Italia uscì dal terrorismo

Notizie tratte da: Monica Galfré, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, Laterza 2014, pp. 270, 22 euro.

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• «Perdono e vendetta sono due reazioni naturali e comprensibili. Ma possono essere due manifestazioni della voglia di dimenticare. Ed è proprio dimenticare che non bisogna» (Carol Beebe Tarantelli, Io, vedova delle Br, vi dico, 1986).

• «Quasi 200 morti, migliaia di feriti e innumerevoli attentati»: è questo (inclusi i circa 40 militanti rimasti uccisi) il bilancio del terrorismo di sinistra in Italia, «un caso imparagonabile al resto d’Europa per durata, intensità e radicamento sociale».

• «Il ruolo riconosciuto all’uomo di fronte alla storia fu al centro del dibattito postemergenziale, negli anni in cui il tramonto delle ideologie precedette la fine della guerra fredda. La riaffermazione del valore della vita sembrava segnare il definitivo superamento della politica concepita come lotta mortale tra amico e nemico, giunta in eredità dal secolo breve e dalla guerra civile europea; e rappresentò il risvolto positivo del ritorno al privato nel quale si esaurirono l’impegno politico e i valori collettivi che avevano caratterizzato gli anni ’70. In questo senso l’uscita dall’emergenza, tra il 1980 e il 1987, offre un volto dimenticato del decennio di Craxi – scoperto di recente dalla storiografia – che si inserisce all’interno della riscossa neoliberale del periodo, di dimensioni assai più ampie».

• «La sconfitta del terrorismo e l’uscita dall’emergenza rappresentano anche un punto di intersezione tra due decenni che hanno costruito la propria identità l’uno in contrapposizione all’altro. Che li si consideri una fase decisiva della modernizzazione o l’inizio della fine della prima Repubblica, gli anni ’80 sono stati letti come il contrario – un tradimento o una rivalsa, a seconda dei punti di vista – di tutto quello che gli anni ’70 avevano rappresentato. Negli anni dell’edonismo craxiano, mentre la corruzione fu eretta a sistema, l’impegno politico e la partecipazione collettiva entrarono effettivamente in crisi, tra fine delle ideologie e riflusso nel privato; il benessere esibito e le immagini patinate della pubblicità sembrarono allora esorcizzare tutti gli spettri degli anni ’70, disperdendone però la carica ideale e mettendone in discussione anche le conquiste. Tuttavia, a dispetto dell’ottimismo trionfante, l’Italia degli anni ’80 – con i primi governi a guida laica del repubblicano Giovanni Spadolini e poi di Bettino Craxi – si trovò a dover gestire un’eredità ingombrante».

• «È mai possibile che io, giornalista democratico, uomo di sinistra, liberale, garantista, mi sorprenda a pensare “meno male” di fronte a quattro giovani fulminati?» (Eugenio Scalfari, commentando a caldo su la Repubblica l’irruzione degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo brigatista di via Fracchia a Genova il 28 marzo 1980, in cui erano rimasti uccisi quattro terroristi e gravemente ferito un carabiniere).

• Il blitz di via Fracchia a Genova, «un duro colpo inferto al terrorismo proprio nella città dove esso pareva inespugnabile», era stato reso possibile dalle rivelazioni del brigatista Patrizio Peci, il primo grande pentito, arrestato poche settimane prima, nel febbraio 1980.

• «L’anno decisivo per la sconfitta della lotta armata, l’inizio della sua fine, se così si può dire, fu senz’altro il 1980. Importanti risultati erano stati ottenuti già nell’autunno 1978, all’indomani del delitto Moro, quando Dalla Chiesa era stato richiamato alla guida del Nucleo antiterrorismo con poteri speciali. Ma i primi mesi del nuovo decennio segnarono una vera e propria svolta, perché l’arresto e il pentimento di Peci consentirono di penetrare all’interno del mondo brigatista».

• Nel febbraio 1980 fu varata la cosiddetta legge Cossiga, che si sarebbe rivelata fondamentale nella lotta al terrorismo: «oltre alle aggravanti per la finalità di terrorismo e all’amplificazione del reato associativo, che battevano la consueta strada dell’inasprimento sanzionatorio e della restrizione dei diritti e delle garanzie, si aggiunse la possibilità di consistenti sconti di pena per chi accettava di collaborare con la giustizia. Perfezionata con la legge del maggio 1982, la svolta premiale si fondava sul riconoscimento della natura sui generis dei reati eversivi: e cercava pertanto di spezzare il vincolo associativo delle organizzazioni trasformando la loro forza in debolezza».

• Nell’ottobre 1980 «la marcia dei 40.000 e la sconfitta dell’occupazione in corso alla Fiat, la cui premessa era stato il licenziamento di 61 operai sospettati di terrorismo, parvero segnare la fine del ciclo di lotte operaie iniziato con l’autunno caldo. L’invasione sovietica in Afghanistan e l’affermazione di Solidarność in Polonia – e polacco era Giovanni Paolo II succeduto a papa Luciani nel 1978 – confermavano su scala più ampia l’impressione di un passaggio d’epoca, che la fine della guerra fredda avrebbe sancito alla fine del decennio».

• «Il 1980 fu un anno difficile su cui gravò il peso di tragedie ed emergenze diverse. Ai 3000 morti e 10.000 feriti del terremoto in Irpinia deve essere aggiunta l’oscura vicenda dei fondi per la ricostruzione, che finì per irrobustire la camorra, nel contesto di una crescita esponenziale del fenomeno mafioso e della corruzione pubblica. Sul fronte eversivo, nonostante la flessione degli attentati, il 1980 fu il peggiore di tutti gli anni di piombo in termini di sacrificio di vite umane. Le vittime furono ben 125, su cui incisero sensibilmente gli 85 morti della strage alla stazione di Bologna, che segnò il drammatico riaffiorare dello stragismo, e gli 8 omicidi dell’eversione di matrice fascista (e per completare il quadro andrebbero aggiunti anche i morti di Ustica). Un terrorismo forse più debole e isolato ma più feroce, secondo una tendenza che avrebbe trovato conferma nei due anni successivi».

• Popolatissima era la galassia della sinistra eversiva: una stima ha contato 68 organizzazioni, «24 maggiori, 23 minori e 21 sigle di riviste o gruppi inquisiti, ma formalmente legali»; un’altra ha invece enumerato ben 125 sigle, compresi i diversi nomi usati da ciascuna organizzazione.

• «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri» (parole lette da Giorgio Bachelet al funerale del padre Vittorio, giurista e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura assassinato dalle Brigate Rosse il 12 febbraio 1980).

• «L’omicidio Bachelet segnò l’inizio di un attacco mirato alla magistratura, su cui proprio nel 1980 sembrò convergere gran parte del mondo eversivo, non escluso quello fascista, se si pensa che a giugno i Nar uccisero Mario Amato, il quale stava indagando sul terrorismo nero della capitale. (…) La sequenza più allarmante di tutto l’anno si ebbe a metà marzo, quando nel giro di soli quattro giorni furono assassinati tre magistrati: il 16 fu colpito dalle Br Nicola Giacumbi, procuratore capo della Repubblica di Salerno, il 18 a Roma – sempre dalle Br – Girolamo Minervini, consigliere della Corte di Cassazione appena divenuto direttore degli Istituti di prevenzione e pena al ministero di Grazia e Giustizia, il 19 a Milano Prima linea uccise Guido Galli, giudice istruttore e docente di criminologia. L’onda di emozione che in quei giorni travolse il paese sembrò avvicinare il rischio di una rottura costituzionale: una parte della stessa magistratura chiese al presidente della Repubblica Pertini di dichiarare l’emergenza con l’impiego dell’esercito per il controllo delle città, e per un momento si temettero persino le dimissioni in massa dei giudici».

• «L’omicidio più paradigmatico del periodo» fu quello del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, compiuto il 28 maggio 1980. Ad ammazzarlo fu la Brigata XXVIII marzo, «formata da ex autonomi provenienti da famiglie in vista della borghesia intellettuale milanese: un terrorismo seconda maniera dai tratti esistenziali, ben diverso da quello brigatista. Arrestato nel settembre 1980, il leader Marco Barbone accettò subito di collaborare con la giustizia e il suo contributo, insieme a quello di Peci e di pochi altri, si rivelò decisivo per smantellare la rete delle organizzazioni armate. Il suo caso assurse a simbolo della giustizia emergenziale: a fronte dell’implacabile meccanismo delle aggravanti, gli 8 anni comminati a Barbone – che con la concessione nel 1983 della libertà provvisoria ne scontò solo 3 – alzarono un polverone di polemiche sugli effetti perversi della legislazione speciale».

• «La parola guerra, divenuta di uso comune a partire da via Fracchia, evocava anche gli scenari propriamente bellici di un passato nazionale non così remoto. Quella contro il terrorismo era una guerra di cui le istituzioni e i partiti della maggioranza, in particolare quello comunista e la Dc, cercavano una legittimazione dipingendola come una “Nuova Resistenza”. (…) Il richiamo alla Resistenza suonava come la difesa in extremis della Repubblica da parte della generazione dei padri contro quella dei figli. Del resto tutta l’eredità della “guerra civile europea” del periodo 1914-1945, alimentata dalle divisioni della guerra fredda, non aveva mai smesso di esercitare il suo peso sulla dialettica politica italiana: nella sinistra rivoluzionaria e poi nella lotta armata degli anni ’70, che avevano parlato di Resistenza tradita, il rapporto con quel passato si era fatto paradossalmente più diretto. Nel caso dell’emergenza antiterrorismo l’uso pubblico della storia tradiva lo smarrimento profondo suscitato da un fenomeno ancora misterioso, la cui decifrazione rischiava di essere ulteriormente rallentata dall’overdose di riferimenti storici».

• «La sovraesposizione della magistratura rifletteva la funzione di supplenza che la politica e la giustizia hanno sempre esercitato l’una nei confronti dell’altra, ulteriormente complicata nel caso dell’emergenza terrorismo dal ruolo di primo piano giocato dall’Arma dei Carabinieri, al di là dell’indubbio protagonismo di Dalla Chiesa. (…) L’introduzione degli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, alla fine del 1979, dette la misura del ruolo trainante giocato da Dalla Chiesa e dalla magistratura inquirente nei confronti della politica».

• «Cercavano i terroristi tra i nipoti di Carlo Marx, ne trovano uno tra i figli di Donat Cattin» (caustico commento attribuito al dirigente Pci Giancarlo Pajetta nella primavera 1980, quando si scoprì che uno dei massimi dirigenti di Prima linea, il fantomatico «comandante Alberto», era nientemeno che Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, vicesegretario unico della Dc e più volte ministro).

• «La vicenda che aveva colpito la famiglia Donat Cattin sembrava riassumere tutto il dramma nazionale del terrorismo in una resa dei conti tra padri e figli». E non fu neppure l’unico caso: «già poco dopo l’omicidio di Aldo Moro, il “parricidio” per eccellenza, una relazione dei servizi segreti poneva il problema dello scivolamento extraparlamentare “se non proprio alle Br” dei figli di altri due illustri esponenti della Dc, Zaccagnini e Taviani. Inoltre, in varie audizioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, emergeva il caso del giudice Filippo Grisolia, il cui figlio sembrava fosse rimasto implicato nelle Br, senza tuttavia che ciò impedisse la nomina del padre al Csm».

• «Tutto l’episodio suggeriva in generale di ricollocare il terrorismo all’interno della storia repubblicana, in contrasto con le ipotesi più rassicuranti che tendevano a spostarne altrove l’origine. Il terrorista appariva un figlio degenere, ma pur sempre un figlio; e, in questo senso, il dramma della famiglia Donat Cattin contribuì a cercare altre strade oltre a quella offerta dalla repressione. La legge sui pentiti del 1982 (che perfezionò le norme già introdotte nel 1980) fu uno dei prodotti di questa esigenza, non tanto perché fu creata a misura di Marco Donat Cattin, ma perché fu il frutto di un modo in parte nuovo di guardare al problema».

• «Fu tra la fine del 1980 e gli inizi del 1981, quando lo scontro frontale tra terrorismo e Stato giunse al culmine, che si posero le basi per il suo superamento. Il 12 dicembre, con il rapimento del giudice Giovanni D’Urso, responsabile dell’Ufficio detenuti dell’Amministrazione penitenziaria, le Br lanciarono un attacco che legò lotta armata e carcere in una sequenza stringente. Il 28 dicembre scoppiò la rivolta nel penitenziario di massima sicurezza di Trani, che fu stroncata dal Gruppo di intervento speciale (Gis) dei carabinieri; e il 31, in risposta a questa dura repressione, le Br uccisero il generale Galvaligi».

• A partire dal caso D’Urso «la guerra si spostò in carcere, dove fu combattuta la lunga battaglia finale. Tra quelle mura impenetrabili – affermarono i sequestratori del giudice – si stabilivano i “rapporti di forza tra rivoluzione e controrivoluzione”. (…) Ma quello che Moretti definì “il capolavoro politico delle Br” era destinato a “restare un pezzo unico”, e già nell’estate del 1981 le Br si divisero tra il Partito guerriglia di Senzani e il Partito comunista combattente. D’altra parte nel dicembre 1980, dopo soli due mesi dal crollo della invincibile colonna genovese, causa ed effetto dell’irrefrenabile moltiplicarsi di pentiti, furono arrestati i brigatisti Vincenzo Guagliardo e Nadia Ponti, oltre a Donat Cattin a Parigi. Nell’aprile successivo la cattura di Moretti e Fenzi confermò la crisi irreversibile dell’organizzazione e di tutta la lotta armata».

• «Se la trattativa poté in qualche modo procedere e se D’Urso a differenza di Moro ebbe salva la vita, fu anche perché le logiche di schieramento si mostrarono più permeabili di due anni prima. La vita dell’ostaggio parve acquisire anche un peso autonomo, in primo luogo attraverso l’ascolto che trovarono le ragioni dei familiari. Non è un caso che parenti di illustri vittime del terrorismo, come Stella Tobagi, Eleonora Moro e Andrea Casalegno, costituissero un comitato per la salvezza di D’Urso; e grazie alla spregiudicatezza dei radicali, che per questo furono duramente attaccati, la figlia del magistrato rapito, Lorena, poté approfittare di Tribuna politica per lanciare un appello nel quale si dette esplicita lettura del comunicato delle Br censurato dalla stampa».

• «Tra i prezzi pagati alla crisi del potere e della politica, uno dei più inquietanti si misurava senz’altro nell’atteggiamento sintetizzato dalla formula “né con lo Stato né con le Br” che dal 1977, quando era stata coniata da Lotta continua, aveva assunto sfumature diverse. Il legame tra eversione e credibilità dello Stato non era una questione nuova: e il consenso conquistato dal giustizialismo delle origini aveva cominciato a erodersi solo quando gli obiettivi della lotta armata erano divenuti via via incomprensibili ai più, in un’ottica puramente autoreferenziale. All’inizio degli anni ’80 questo alone eversivo, se così lo si può chiamare, sembrava essersi ormai del tutto dissolto, insieme al crollo della conflittualità sociale ma anche alla diffusione di una sorta di qualunquismo e di indifferenza nei confronti della cosa pubblica di portata generale che, in quanto tale, impensieriva le forze politiche e in particolare il Pci. Forse erano ormai pochissime le persone disponibili a imbracciare le armi contro lo Stato, ma ancor meno quelle disposte a rischiare qualcosa per estirpare il terrorismo dal cuore del paese. Il sacrificio di Guido Rossa, ucciso per aver denunciato un operaio come lui sorpreso a distribuire volantini delle Br, era il simbolo di una reazione popolare al terrorismo meno scontata di quanto affermasse il Pci, che se ne considerava il legittimo depositario».

• Nel 1977, in piena emergenza terrorismo, si ideò il carcere speciale. «Ispirandosi alle carceri di rigore previste dal Regolamento del 1931, furono creati inizialmente cinque istituti di massima sicurezza, più altri sei nel corso del 1978-79, dove si procedette a trasferire 1000 detenuti, sovversivi, militanti della lotta armata e di organizzazioni neofasciste, mafiosi, ma anche evasori e protagonisti delle tante rivolte degli ultimi anni, la cui regia era stata spesso dei politici. Si trattava dei penitenziari di Cuneo, Fossombrone, Trani, Favignana, diramazione Fornelli dell’Asinara, Novara, Termini Imerese, Badu ’e Carros a Nuoro, divenuto dopo il 1981 il vertice dell’architettura repressiva, diramazione Agrippa di Pianosa, Palmi e il femminile di Messina. Il cosiddetto “circuito dei camosci” si rivelò decisivo per la sconfitta del fenomeno armato e la sua attivazione fu personalmente curata da Dalla Chiesa, “coordinatore dei servizi di sicurezza esterna degli istituti di prevenzione e di pena”, già responsabile del primo Nucleo antiterrorismo costituito nel 1974 e di nuovo capo dell’Antiterrorismo dopo l’omicidio Moro. Anche per l’afflusso continuo dal carcere ordinario (alla fine del decennio i detenuti erano già 3500) l’isolamento con l’esterno non fu mai totale e vi si affermò “uno stato di conflittualità permanente”: laddove intorno al 1981 erano ristretti 800 dei 3000 politici, continuo fu il ritrovamento di armi, esplosivo, coltelli».

• Nelle carceri si verificarono anche fenomeni di “contagio”, come quello dei cosiddetti brigatizzati: «era il caso di quei detenuti comuni che non avevano niente da perdere, provenienti dal sottoproletariato più disperato o condannati a pene pesantissime, che nella causa brigatista trovarono una legittimazione e la prospettiva di un programma di rivolte e di evasioni; ed è ovvio che proprio loro divenissero gli esecutori più affidabili delle ritorsioni brigatiste. D’altra parte nell’atteggiamento dei brigatisti, che in carcere assunsero un’identità forte in contrapposizione a tutti gli altri politici, si poteva osservare il fenomeno complementare, cioè l’assunzione delle regole tribali del carcere».

• Secondo una ricerca statistica pubblicata nel 1984 dalla cooperativa carceraria di Rebibbia Syntax error, «i detenuti politici – arrestati in più dell’80% dei casi tra il 1978 e il 1983 – si confermavano delle figure del tutto inedite nella storia del pianeta carcere. Nati prevalentemente nella parte centrale degli anni ’50, in schiacciante maggioranza maschi (la componente femminile, pari al 20,91%, era anch’essa una novità, perché nella detenzione comune le donne rappresentavano solo il 5%), avevano una istruzione superiore alla media del carcere e di tutto il paese: il 31,52% aveva frequentato l’università e l’11,52% aveva conseguito la laurea; gli operai costituivano il 38,75%, gli impiegati e gli insegnanti il 34,17%. (…) Sensibile – e assai significativa da molti punti di vista – era la crescita dei giovani al di sotto dei 25 anni nella popolazione carceraria, dal 20% del 1960 al 40% del 1981».

• In Italia, un documento della Cia dell’aprile 1982 «calcolava un milione di simpatizzanti delle Br (e ne contava ancora 600.000 nel 1983)».

• «Le ormai numerose testimonianze sul carcere degli anni di piombo confermano che il periodo più difficile fu proprio il biennio 1981-1982, tra l’applicazione dell’art. 90 dell’Ordinamento carcerario del 1975, che prevedeva un regime di particolare durezza in situazioni eccezionali, l’applicazione della legge sui pentiti varata nel maggio 1982 e l’uscita del manifesto della dissociazione nell’estate dello stesso anno. “Così arrivarono i primi pentiti ed ebbe inizio la derattizzazione, la caccia ai pentiti e quindi i compagni diventano un po’ tutti dei giudici, gente che studia il comportamento di uno, dell’altro. È la paranoia: chi poteva tradire, chi non poteva tradire e la conseguenza è una serie di omicidi”. Fu quindi il periodo delle aggressioni, degli omicidi e anche dei suicidi».

• «Consentito sulla carta da gravi ed eccezionali motivi e per un periodo limitato di tempo, il ricorso all’art. 90 era stato sempre evitato perché la sua legittimità era stata contestata già durante la discussione della legge. Vi si prevedevano restrizioni massime nella gestione dei colloqui (solo attraverso i vetri) e della socialità fino alla loro abolizione, sospensione temporanea e censura della corrispondenza anche se indirizzata ai propri avvocati, con blocco totale di quella tra carcerati, divieto di ricezione dei pacchi, di circolazione e possesso dei libri. La durezza di questo regime che, oltre ogni limite legale, fu prorogato di scadenza in scadenza fino al novembre 1984, fu una risposta estrema a “tensioni, inquietudini e sofferenze difficilmente controllabili o addirittura incontrollabili”, quando nel carcere entravano droga e armi e si verificavano violenze di ogni tipo, rivolte, sequestri, omicidi, “spesso di una ferocia raccapricciante”, come ammise la stessa amministrazione carceraria».

• «Il mondo del carcere, e non solo di quello speciale, era una realtà assai disomogenea. Nella geografia delle carceri il maschile più temuto era senz’altro Nuoro, per le donne Voghera, ribattezzato “Vogherhorror”, simbolo del carcere moderno “disumanizzante”. (…) Pur con molte eccezioni, quello dei pentiti poteva invece divenire quasi un “carcere all’incontrario”, come a Lodi e Bergamo, “carceri per signori” – celle aperte, cyclette, ping pong – dove erano stati persino trovati nei cessi preservativi e piantine di hashish; e ad Alessandria, si diceva, Donat Cattin era riuscito a mettere incinta Giusy Viriglio, dopo di che il direttore era stato trasferito. Valerio Morucci ha raccontato che nel giugno 1981, alle Vallette, i militanti di Prima linea – dissociati ante litteram – “giocavano a pallone, se la ridevano della galera... riuscivano pure a scopare”».

• «La strategia tesa a isolare i detenuti politici aveva il suo “punto debole” nei familiari, divenuti più o meno consapevolmente trait d’union tra i rivoluzionari ancora in libertà e quelli prigionieri. Si diceva che all’Asinara l’esplosivo era entrato nelle bottiglie di shampoo e che a Nuoro il plastico era stato nascosto nelle salsicce».

• «Nel 1981 il sequestro divenne lo strumento privilegiato dalle Br, da gennaio con il rapimento D’Urso a dicembre con quello del generale James Lee Dozier, comandante della Nato nell’Europa meridionale. Tra il primo, considerato l’apoteosi delle Br, e il secondo, che determinò la loro fine, furono realizzati altri quattro sequestri, che nel mese di luglio arrivarono persino a sovrapporsi: il Fronte carceri di Senzani rapì in aprile Ciro Cirillo, il presidente democristiano del Comitato per la ricostruzione post-terremoto della Campania, uccidendo due uomini della scorta, e in luglio sequestrò Roberto Peci, fratello di Patrizio; a maggio fu la volta del direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, Giuseppe Taliercio, su iniziativa della colonna veneta guidata da Savasta, mentre la Alasia a giugno sequestrò il dirigente dell’Alfa Romeo di Arese Renzo Sandrucci. Assai difformi negli obiettivi e negli esiti – Cirillo e Sandrucci furono rilasciati, Taliercio e Peci uccisi – i “sequestri del luglio” non possono essere considerati un momento di forza e di efficienza delle Br, né l’effetto di quella tendenza alla trattativa che Scalfari rimproverò alle istituzioni in un vibrante fondo della Repubblica. In essi si manifestava piuttosto il processo di dissoluzione della più importante organizzazione armata, e vi si mescolavano gli orrori tipici di un esercito in ritirata».

• «A esprimere meglio di ogni altro la drammaticità di questa fase fu il rapimento e l’omicidio di Roberto Peci. Quello che fu definito già allora il primo sequestro mediatico gridava tutta la brutalità delle ritorsioni cui il pentitismo poteva dare luogo. Ma proprio il fatto che l’esecuzione fosse stata filmata e diffusa segnò “un punto di svolta” per una parte degli stessi militanti ormai in carcere, che in un primo momento si rifiutarono di credere all’autenticità della ripresa e pensarono a “una provocazione” messa in giro per screditare le Br: come se l’oggettivizzazione delle immagini avesse di colpo svelato tutta l’assurdità e la disumanità di quell’omicidio. (…) La vicenda di Roberto Peci contribuì a erodere ulteriormente la tenuta del vincolo associativo, in una sorta di eterogenesi dei fini. La solitudine di Roberto di fronte ai suoi carcerieri sembrava rappresentare la negazione e al tempo stesso il trionfo delle ragioni dell’individuo sull’ideologia».

• «Nella primavera del 1981 era stato dato il via ai primi grandi processi con la presenza di pentiti e dissociati – a maggio si svolsero a Torino sia quello alle Br che a Prima linea con più di 70 imputati ciascuno – e l’atteggiamento nei confronti degli infami era stato subito chiaro: l’unico rapporto possibile con loro era “l’annientamento”. “Sui traditori non viene fatta nessuna pressione per nessuna autocritica. Per essi l’unico consiglio è il suicidio”, asserì Vincenzo Guagliardo al processo di Torino, dove comparve e rilasciò dichiarazioni anche Patrizio Peci».

• All’indomani della liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, tenuto prigioniero dalle Br dal dicembre 1981 al 28 gennaio 1982, si scatenarono grandi e aspre polemiche «sulle torture inflitte ai sequestratori di Dozier comandati da Antonio Savasta (i quali, non a caso, decisero di collaborare subito dopo l’arresto), anche se i diretti responsabili, condannati nel 1982, furono poi assolti nel 1984. (…) A fornire racconti pieni di dettagli raccapriccianti erano stati quotidiani e periodici dei più diversi orientamenti, la Repubblica, Lotta continua, il manifesto, l’Espresso, l’Unità, Paese Sera, ma anche Nuova Polizia e Riforma dello Stato, avvocati di parte e magistrati noti, insieme ad alcuni poliziotti e appartenenti al Siulp, cioè al sindacato della polizia. Tutti avevano parlato di torture praticate da uomini incappucciati, in luoghi dove i detenuti erano stati illegalmente e segretamente trascinati per alimentare in loro la sensazione di pericolo; e avevano descritto pratiche di vario tipo, che assomigliavano a quelle utilizzate dai regimi autoritari in Sudamerica: false fucilazioni e roulette russa, introduzione forzata di acqua e sale in bocca, pestaggi di ogni genere, sevizie e violenze sulle parti intime anche con l’uso di scariche elettriche». Tali pratiche saranno inoltre parzialmente confermate, nel corso di un’intervista rilasciata a Luca Villoresi per la Repubblica, da uno degli agenti che avevano partecipato all’operazione Dozier.

• «L’art. 225 bis del codice di procedura penale, introdotto nel 1978, autorizzava l’interrogatorio dell’arrestato da parte della polizia anche senza la presenza del difensore, annullando le modifiche introdotte alla fine degli anni ’60».

• «Il generale Dalla Chiesa ha raccontato di aver vinto la resistenza di Peci e Barbone proponendo loro la collaborazione in termini di una resa al capo militare, al generale nemico. Con i primi pentiti comune fu la promessa di una legge ad hoc, ma anche di denaro, di condizioni carcerarie migliori e di espatrio in luoghi confortevoli. Generalmente si facevano presenti i vantaggi che il terrorista ne avrebbe tratto, insinuando talvolta il dubbio che altri militanti avessero già tradito e insistendo anche sul pericolo che i familiari avrebbero potuto correre. (…) Prima di Peci la lotta al terrorismo era all’“anno zero” – affermò Dalla Chiesa – e il suo pentimento fu decisivo anche da un punto di vista psicologico, perché infranse il “mito dell’imprendibilità e del silenzio” di cui avevano goduto le Br fino ad allora». La legge sui pentiti fu definitivamente approvata nella primavera 1982 (legge 29 maggio 1982 n. 304).

• «“Cadavere ambulante”, “zombie”, “carogna”, “verme immondo”, “pidocchio infame”: nel maggio 1983 gli imputati del processo contro la colonna torinese apostrofarono così Patrizio Peci. Gli insulti non avevano il solo scopo di minacciare il traditore, e con lui chi volesse imitarlo, ma intendevano anche screditare i tradimenti negando loro qualsiasi valore politico. Gli “infami” erano colpevoli di immoralità e basta: per aver tradito la causa rivoluzionaria e per aver venduto i compagni».

• «Il pentitismo era però evidentemente legato a una crisi politica della lotta armata, che si rifletteva nel numero esponenziale degli arresti, oltre 1181 solo nel 1982, e nel calo vistoso degli attentati, il 30% in meno dal 1981 al 1982. Gli stessi elenchi dei terroristi che usufruirono della legge del 1982 erano in questo senso eloquenti, perché nell’agosto 1982 registravano più di 300 adesioni. Nel giornalino dei pentiti e dei dissociati del carcere di Alessandria si scriveva che su 383 imputati di Prima linea 136 (il 35,6%) erano dissociati “fattivi”, 53 latitanti e 41 dissociati; e circolava voce che a Parigi, con il tacito consenso delle autorità francesi, si trovassero altri 200 dissociati dell’organizzazione».

• A inizio anni Ottanta, i dati a disposizione della Commissione Giustizia «parlavano di “masse imponenti” di coinvolti: 3200 detenuti per reati eversivi, tra cui 2000 studenti e laureati e 120 delegati sindacali, ma circa 10.000 partecipanti a vario titolo alla lotta armata, “quasi un’intera generazione”».

• «I cosiddetti maxiprocessi riguardanti intere organizzazioni, con le aule bunker e i gabbioni gremiti, da una parte i pentiti, dall’altra gli irriducibili, furono il più tipico luogo di applicazione della giustizia emergenziale. Maxiprocesso per eccellenza dell’eversione di sinistra fu il processo monstre Rosso-Tobagi, che ebbe grande risonanza mediatica, con la Tv e i giornalisti di tutte le testate. (…) Colpirono le dimensioni, oltre 160 imputati e 100 avvocati, due istruttorie riunite, una riguardante la rivista Rosso dell’autonomia operaia di Negri, l’altra i gruppi a essa vicini, le Formazioni comuniste combattenti, i Reparti comunisti d’attacco e la Brigata XXVIII marzo di Barbone: in sostanza i cinque anni più densi dell’eversione di sinistra a Milano».

• «Tra i partiti, furono il Psi e soprattutto il Partito radicale a giocare un ruolo attivo nella critica al pentitismo servendosene, con le dovute differenze, anche nello scontro politico. È innegabile che i radicali accrebbero molto la propria visibilità con una battaglia di cui, più di Toni Negri, fu emblema nel 1983 Enzo Tortora, accusato da tre pentiti di essere un camorrista. Eletto deputato europeo nel 1984 per il Partito radicale, il presentatore televisivo ha sempre parlato della sua odissea giudiziaria come di un viaggio “a cento all’ora, verso il Medioevo” in grado di cancellare non solo la Costituzione, ma tutti i progressi giuridici del mondo moderno».

• «Delinquente... per pentito dire» si definì nel 1984 Enzo Tortora, finito in carcere in base alle false accuse di alcuni sedicenti pentiti.

• «Senza dubbio il nodo del percorso autocritico di pentiti e dissociati ruotò attorno alla messa in discussione della legittimità dell’omicidio politico, considerato il culmine dell’accettazione della violenza come strumento di lotta. Nel caso del terrorismo il dare la morte e la sua liceità hanno posto problemi morali e storici tanto più ineludibili per il fatto che la violenza fu esercitata per scelta, come già per i partigiani, ma in un contesto – a differenza di questi – che non era bellico in senso proprio. (…) A partire dalla crisi innescata dai pentimenti di Peci e di Sandalo, la riflessione su questo punto cruciale non fu né breve né agevole. Prendendo avvio da argomentazioni politiche più che sentimentali, si sviluppò molto gradualmente e senza troppo cedere agli argomenti di facile presa – il pentimento e il perdono – che una parte della Chiesa e del mondo cattolico erano pronti ad offrire».

• «Fin dai primi anni ’70 la lotta armata trovò un terreno fertile nel clima esasperato dallo stragismo neofascista, con le pesanti collusioni dello Stato, e negli alti tassi di conflittualità sociale e di violenza politica, sia di destra che di sinistra. Il progressivo passaggio dalla violenza sulle cose alla violenza sulle persone si alimentò della tendenza alla personalizzazione dei conflitti da tempo diffusa nell’estremismo di sinistra e di destra; ma gli omicidi politici aggiunsero a questa, in modo apparentemente contraddittorio, una capacità di astrazione dalla realtà tale da cancellare gli uomini ancor “prima di ucciderli”. Personalizzazione e astrazione estreme convivevano cioè nella concezione della “decimazione”, dell’“invalidamento”, intesi “come colpire l’uomo per quello che rappresenta non per quello che esso è”. L’omicidio politico entrò in crisi quando si capì che il potere rispondeva a meccanismi più complicati di quelli ipotizzati dal terrorismo: e che quindi la lotta armata non era solo feroce ma anche gratuita».

• «Negli ambienti della sinistra extraparlamentare il valore della vita non era considerato in nessun modo un principio in grado di indirizzare scelte e decisioni politiche: furono spregiativamente bollati come “umanitari” Gad Lerner e Andrea Marcenaro, i due giornalisti di Lotta continua che realizzarono l’intervista ad Andrea Casalegno – figlio del vicedirettore della Stampa in fin di vita dopo un attentato delle Br – scatenando un acceso dibattito proprio sul rapporto tra politica e rispetto dell’uomo».

• «Fu senz’altro un lungo e accidentato viaggio quello che traghettò molti ex dalla violenza e dall’omicidio politici al riconoscimento del valore irripetibile della vita. Ma per poter capire il dolore degli altri e non scoprirlo poi troppo dissimile dal proprio – e svegliarsi così dall’“anestesia morale progressiva” della lotta armata – si dovette prima passare dalla porta stretta del dolore vissuto in prima persona. A partire dal 1979 l’escalation del terrorismo, alcuni omicidi “sbagliati” e la morte di compagni vicini portarono alla condanna della lotta armata attraverso un processo graduale e ricco di contraddizioni. Dal riconoscimento di buoni motivi per uccidere un uomo all’impossibilità di trovarne, dagli omicidi sbagliati all’omicidio come sbaglio in sé. Per arrivare a capire che le morti degli anni di piombo erano state inutili. Tutte».

• «Al termine dei primi grandi processi che si poterono avvalere della presenza dei pentiti, giunsero anche le prime richieste pubbliche di perdono. Ad avere la più ampia eco furono senz’altro le dichiarazioni di Marco Barbone e di Marco Donat Cattin, entrambe pronunciate poco prima che i giudici si riunissero in camera di consiglio, con l’evidente tentativo di rafforzare la richiesta delle attenuanti previste dalla legge sui pentiti. Barbone parlò dell’immagine nella quale si era “concretizzata” la sua angoscia: Tobagi con la moglie e con i figli, intravisti durante l’ultimo appostamento; e alluse al ruolo che avevano avuto due religiosi sul suo cambiamento, presentato così come una forma di conversione. Donat Cattin, visibilmente turbato, fu più breve e forse più credibile: “Ho davanti agli occhi i volti delle persone a cui ho tolto la vita, penso al dolore dei loro parenti, a tutto il male che ho commesso”. Pur diversi nel tono e nei contenuti, suonarono ugualmente stonati».

• Nel corso degli anni «non furono pochi i casi di incontro e confronto con gli ex terroristi, voluti dalle vittime alla umanissima ricerca di un perché. Ma le aspettative in essi riposte andarono quasi sempre deluse: e la distanza invece di ridursi si approfondì, risolvendosi spesso in un sentimento di pietà verso i colpevoli che finì solo per aggiungere dolore al dolore. Quando il padre di Tobagi volle incontrare gli assassini del figlio e si trovò di fronte un ragazzo “disperato anche lui”, riuscì a dirgli solo: “Sei giovane, cerca di rifarti una vita”. In quello straordinario documento che è il diario di Sergio Lenci, sopravvissuto a un attentato di Prima linea con un proiettile nella nuca, i colloqui con una delle sue attentatrici non placano ma accrescono il suo smarrimento. La pietà sincera provata da Lenci nei confronti della donna, dei suoi bambini costretti a vivere in carcere con lei, non gli impedisce di nutrire dubbi sull’autenticità del percorso di dissociazione compiuto dalla ex terrorista, esasperando il sentimento di estraniazione».

• «Gli ex militanti, in quanto colpevoli, hanno sempre manifestato un profondo disagio a parlare in concreto degli omicidi; e con il ricorso a un linguaggio “tecnico” e all’“oggettività” dei racconti, si sono pronunciati con affermazioni generali, restituendone un’immagine asettica: una morte senza sangue, dolore, lacerazione, lutto, che anche sul piano storiografico non ha aiutato a scandagliare verità più intime, rafforzando il mito del terrorista come “uomo di marmo”, freddo e spietato. Per Susanna Ronconi “il meccanismo” che aveva “consentito di uccidere” era la cancellazione degli individui che si verifica in tutte le guerre: una spiegazione che assomiglia a quella di molti altri ex terroristi, ma che non si cura di rilevare che mancava loro la giustificazione difensiva e l’anonimato morale garantito dalla divisa».

• Nell’omicidio politico «avevano finito per culminare – in contrasto solo apparente tra loro – sia il processo di astrazione che quello di personalizzazione dello scontro politico. Perché si sparava a una funzione, ma si uccideva una persona».

• «Il richiamo dei militanti alla Resistenza e alla tradizione antifascista tradiva il carattere difensivo che la lotta armata non smise mai di attribuirsi, se pur nella sua declinazione più aggressiva secondo cui la miglior difesa è l’offesa. L’idea di una continuità tra Stato fascista e Stato repubblicano fornì una sorta di legittimazione che, se esercitò una presa modesta all’esterno, svolse una funzione importante nelle coscienze dei militanti, vista l’illegalità della loro scelta. La violenza e la morte si rivelarono comunque un salto nel buio, nel senso che suscitarono sentimenti sconosciuti e scossero le coscienze nel profondo, con l’effetto di selezionare gruppi sempre più determinati».

• A segnare uno spartiacque fu «la tragica sequenza del gennaio 1979: il 24 le Br uccisero Guido Rossa, operaio comunista e delegato Cgil all’Italsider di Genova-Cornigliano, che aveva denunciato un altro operaio e brigatista irregolare, Francesco Berardi, sorpreso a distribuire volantini delle Br; cinque giorni dopo, il 29, Prima linea tese a Milano un agguato mortale a Emilio Alessandrini, un giovane ma già conosciuto esponente della magistratura progressista. (…) Pur nella loro diversità, tutti e due gli omicidi prendevano di mira i rappresentanti di una sinistra che si era fatta Stato, nell’ambito di un attacco al riformismo e alla logica del compromesso storico. (…) I due omicidi sollevarono un’onda di sgomento in tutto il paese e i funerali – quello di Alessandrini si svolse nel Duomo di Milano – furono gremiti di gente. “Ci vollero altri anni, e molti altri morti, e soprattutto l’assassinio di un operaio comunista e di un giudice amato dalle sinistre, perché quasi tutti aprissero gli occhi”, ha scritto Giampaolo Pansa nel 1980. Compresi gli ambienti extraparlamentari critici del riformismo e sempre un po’ ambigui nei confronti dell’eversione. Ucciso il giudice Alessandrini. Dai fascisti? No, da Prima linea, titolò Lotta continua. Di fatto, per le qualità morali, politiche e professionali delle due vittime, gli omicidi di Rossa e Alessandrini cominciarono a fare terra bruciata attorno alla lotta armata».

• In seguito alle esecuzioni di Rossa e Alessandrini, a vacillare fu una parte degli stessi militanti, naturalmente «per ragioni prevalentemente politiche e strategiche, non certo umanitarie. (…) Ne emergeva il vuoto programmatico e strategico su cui poggiavano gli omicidi politici, che divenivano così una voragine in grado di inghiottirsi tutto. “Tra un morto e l’obiettivo finale – ha scritto un brigatista motivando nel 1981 la sua dissociazione – si apriva l’abisso”. Ma non c’erano ancora, come non ci saranno a lungo, la condanna della violenza e il rifiuto dell’omicidio politico in sé. Come già negli anni passati, il valore della vita faticava a imporsi e persisteva la distinzione tra violenze politicamente giustificate e altre che non lo erano».

• «Non è raro che l’arresto sia paradossalmente raccontato da molti come una liberazione dalla cappa oppressiva dell’ideologia e della militanza. (…) In particolare i pentiti, interessati per ovvi motivi ad amplificare la rottura con il prima, descrivono la propria cattura in termini quasi catartici, rispetto a una politica vissuta come delega in bianco della propria umanità a un corpo collettivo. Viscardi parlò esplicitamente di “liberazione” da Prima linea, divenuta “una delirante macchina da guerra impazzita”. Mario Ferrandi, espatriato a Londra nel ’79 e lì arrestato nell’80, ha raccontato il suo pentimento come la possibilità di “sfuggire a queste chiavi di lettura allucinanti” e tornare a vivere “la propria vita attraverso la logica ordinaria, per cui un omicidio è un omicidio, non è un’operazione politica, un furto è un furto non... un esproprio... un compagno feroce è... un uomo feroce, non è un’avanguardia con una coscienza più elevata, è un... uno stronzo!”. Un senso di liberazione che appare simile a quello di un uomo dal percorso politico ed esistenziale assai diverso come il brigatista della prima ora Alfredo Buonavita, arrestato nel 1974 e presto allontanatosi dalla lotta armata: “eh, ah, finalmente!, cazzo, mi compro Alter invece dell’Espresso e mi leggo Alter, mi leggo Topolino... Oppure leggermi i romanzi... A me piacciono moltissimo, tutta la letteratura russa, e invece di leggere tutte queste cose, che non ne potevo più”».

• «Nelle testimonianze l’anno più terribile appare sicuramente il 1981, per i due omicidi di Roberto Peci e di Giorgio Soldati che, più di tutti gli altri, portarono molti a un livello di saturazione. (…) Con questi omicidi il fenomeno armato parve toccare il fondo della ferocia e dell’abiezione agli occhi degli stessi militanti. Eppure fu proprio in quell’abisso che molti trovarono la forza per reagire, svegliandosi dall’anestesia morale nella quale erano progressivamente piombati».

• «Un passaggio decisivo del processo di dissociazione è costituito dai concepimenti fortunosi e poi dalle nascite che caratterizzarono il processo di primo grado al troncone toscano di Prima linea, svoltosi a Firenze tra l’autunno 1982 e la primavera successiva. Nella maternità e nella paternità le testimonianze individuano il veicolo di una rilettura critica della propria esperienza, come se la responsabilità di generare una nuova vita implicasse una responsabilità nei confronti di tutte le vite, della vita in generale. Il pensiero dei propri bambini indusse a riflettere sulla scelta di aver privato alcuni di essi dei loro padri, e quindi sulla legittimità stessa del dare la morte. La difficoltà a parlare del passato con i propri figli, denunciata da molti ex terroristi, sembra nascere proprio dall’inconciliabilità tra quella che era sentita come una scelta di vita e quella che si era rivelata solo una scelta di morte».

• «Le gravidanze e i parti delle detenute politiche non costituiscono un fenomeno circoscritto a questo periodo, ma dei quindici che sono stati contati la maggioranza è concentrata tra il 1983 e il 1985, nella “fase di insistenza sulla maternità”, mentre fino ad allora l’81,8% dei detenuti politici non aveva figli».

• L’ordinamento carcerario «permetteva ai detenuti di sposarsi ma non di consumare il matrimonio, anche se non tutti i penitenziari erano uguali in fatto di regole e disciplina. Appariva tuttavia in crescita il numero dei detenuti politici, tra irriducibili, pentiti e dissociati, che per facilitare gli incontri decidevano di sancire la propria unione di fronte alla legge (e poi anche a Dio). Ai matrimoni che sancivano legami consolidati come quelli di Gallinari e la Braghetti nel 1981, Segio e la Ronconi, Bruno Laronga e Silveria Russo, Renato Bevione e Carmela De Stefano, Maurice Bignami e Maria Teresa Conti, Felice Maresca e Chiara Vozza, si aggiunsero presto i coronamenti di sogni d’amore sbocciati dietro le sbarre. Tutti i rapporti affettivi, sotto la lente deformante della solitudine e del vuoto pneumatico della prigionia, furono per reazione idealizzati».

• L’ordinamento carcerario consentiva alla madre di tenere con sé il figlio fino al compimento dei 3 anni, ma «in molti penitenziari e soprattutto negli speciali le strutture erano inadeguate, il che avrebbe obbligato i bambini a restrizioni troppo pesanti; nella prassi si cercava quindi di chiudere un occhio su alcuni divieti, come quello che non consentiva di ammettere ai colloqui i bambini inferiori ai 4 anni. (…) Don Luigi, cappellano di San Vittore, raccontò alla Repubblica di una detenuta politica che aveva deciso di far vivere in carcere con sé la sua bambina di non ancora 3 anni. “Già dal primo giorno stava sempre sola nel cortile, non giocava, non parlava. Girava soltanto continuamente lungo il muro, lungo il perimetro, come una bestiolina in gabbia. Se qualcuno tentava di avvicinarla, lei, aggressiva, le gridava ‘torna subito dentro’. Portata nella stanza della madre, voleva stare alla finestra e l’unico gioco che faceva era rimanere affacciata e agitare le mani come fossero uccellini che volavano in libertà mentre ripeteva: ‘Mamma, guarda come scappano...’. Dopo tre giorni la madre detenuta rinunciò a sua figlia”».

• «Insieme al desiderio di procreazione, a segnare il processo di superamento dell’esperienza armata fu la riconciliazione con le famiglie d’origine a cominciare dai genitori e, in senso lato, con l’idea stessa della famiglia. “Un dato comune alla mia generazione era stato lo sforzo per affrancarsi dai genitori... Improvvisamente (e non ero la sola certamente), mi ritrovai con la mamma da vedere, da aspettare, l’unica sulla quale poter veramente contare... A 31 anni... mi sembrò terrificante, ma consolatorio. La rivalutai, riamai”. (…) Famiglie modeste, operaie o contadine di recente immigrazione, di tradizione antifascista, comuniste, socialiste o cattoliche, ma anche conservatrici e di destra, famiglie della borghesia intellettuale: di fronte al destino comune del carcere tutte manifestarono la tendenza a ricomporsi. Con l’effetto anche di rendere i detenuti completamente dipendenti dai familiari».

• «Proiettando la lunga ombra degli anni ’70 al centro dell’“ottimismo” craxiano, il 1984 parve a molti un anno di svolta. Per Violante fu l’“anno terminale del decennio forse più complesso della nostra Repubblica”, che tuttavia non era stato “solo di piombo”: lo confermavano i due terzi dei militanti rossi e il 60% di quelli neri dissociati – un fenomeno unico nel panorama dei paesi interessati dal terrorismo – che autorizzavano a parlare di sconfitta politica oltre che militare. I richiami espliciti al libro di Orwell risuonavano un po’ ovunque quale monito a privilegiare il valore dell’individuo rispetto all’ideologia. Il 1984 è del resto l’anno nel quale la storiografia indica la fine della stagione dei terrorismi, in coincidenza con profonde trasformazioni del quadro nazionale e internazionale: sullo sfondo del processo che di lì a pochi anni chiuderà la guerra fredda, l’inizio del “secondo miracolo economico italiano”, l’affermazione del pentapartito, con la leadership di Craxi e il lento e irreversibile declino del Pci».

• «L’idea di una soluzione politica riprese fiato via via che la sconfitta del terrorismo apparve evidente, ma era un terreno sul quale continuava a regnare una grande confusione. Gli stessi termini che ricorrevano sui media, alcuni dei quali mutuati dalla tradizione cattolica – pentimento, perdono, riconciliazione, ma anche amnistia, dissociazione, pacificazione nazionale – mescolavano mezzi e fini, individui e collettività in un intreccio di piani diversi».

• «Nel complesso il mondo giudiziario appariva il più riottoso a fare marcia indietro sulla via dell’emergenza, con motivazioni diverse e non sempre capziose. Per il fatto di essere divenuti l’emblema stesso della lotta al terrorismo, i magistrati erano degli interlocutori imprescindibili del dibattito in corso, ma finivano per vincolarlo alle esigenze di una battaglia che non consideravano conclusa. Il ruolo della magistratura era uscito indubbiamente accresciuto dalla lotta al terrorismo, con effetti e implicazioni che esplosero clamorosamente un anno dopo».

• Secondo il sociologo Sabino Acquaviva, a metà degli anni Ottanta «i militanti effettivi non erano ormai più di 50, 200 i fiancheggiatori, 1000 simpatizzanti, contro un gruppo di fuoco che tra il 1978 e il 1980 era arrivato ai 5000 e oltre 300.000 simpatizzanti».

• «Il tanto dibattere di dissociazione e di soluzione politica non tardò a scatenare un’aspra polemica sul “perdonismo”, così definito dalla stampa, che raggiunse il suo culmine tra l’estate 1984 e i primi mesi del 1985. Il termine alludeva senza giri di parole al ruolo crescente giocato dalla Chiesa e dal composito mondo cattolico, che sembrava sconfinare in territori rivendicati dallo Stato come esclusivi, ben oltre lo spirito del nuovo Concordato del 1984. (…) “La Chiesa ha un sacramento di perdono, che è la confessione e l’assoluzione. Lo pratichi, se ne avrà l’occasione; ma lo pratichi nei suoi confessionali, perché il perdono della Chiesa non fa testo per la collettività dei cittadini”, scrisse nell’estate 1984 Eugenio Scalfari sulla Repubblica, che si confermò come uno dei più intransigenti presidi della laicità, oltre che della fermezza».

• «L’attenzione dei cattolici per il carcere fu sicuramente rinnovata da gesti di valore simbolico straordinario, come l’incontro a Rebibbia tra Giovanni Paolo II e il suo attentatore Ali Agca alla fine del dicembre 1983. In quell’occasione il papa, proclamando nella scarcerazione l’annuncio di Cristo, poté guardare negli occhi anche alcuni leader degli anni di piombo e al suo cospetto Morucci si inginocchiò: saldando strettamente “resa e conversione”, padre Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio, commentò che l’ex brigatista stava “cercando la sua conversione”».

• «Ad accendere nell’estate 1984 la polemica sul rapporto tra Chiesa e terroristi, furono due episodi – tra i tanti – che non a caso sfuggivano a ogni schema, a conferma del sostanziale pluralismo della realtà cattolica. Protagonisti furono il gesuita Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, e gli imputati del processo a Prima linea-Cocorì che, insieme ad altri detenuti a San Vittore, decisero di consegnare le armi in loro possesso alla Curia milanese, riconoscendole un ruolo importante nel difficile processo di riconciliazione. (…) Poco dopo, per una indiscrezione, fu reso noto dai giornali che nel Natale precedente gli ex militanti di Prima linea Enrico Galmozzi e Giulia Borelli avevano chiesto a Martini, in visita a San Vittore, di battezzare il loro figlio in arrivo, concepito nel corso del processo fiorentino: e così ad aprile i gemelli della coppia avevano ricevuto il sacramento in una cerimonia privata».

• «L’episodio milanese non rimase isolato. Martini stesso officiò il matrimonio religioso di altri due militanti, Silveria Russo e Bruno Laronga, sostenendo che il dialogo nel carcere aveva bisogno di echi anche all’esterno; e qualche anno dopo alla Badia Fiesolana padre Ernesto Balducci battezzò la figlia di due ex terroristi concepita in provetta. Ugualmente significativo in quei giorni dell’estate 1984 fu l’appello di Carcere e comunità diramato da Radio Vaticana perché i clandestini consegnassero le armi, che non fu fatto cadere perché in una parrocchia di Bergamo furono subito lasciate delle armi. Ma non si tratta che dei casi più noti. Martini divenne per molti ex militanti di Prima linea un “punto di riferimento spirituale” al di là di ogni connotazione confessionale. Essi stessi ammisero che nei detenuti c’era anche un superficiale entusiasmo verso chiunque si interessasse a loro».

• L’atteggiamento dell’arcivescovo di Milano non era comunque semplicistico: «Spesso non ci rendiamo conto che la parabola del figliol prodigo – aveva detto Martini al Sinodo dei vescovi del 1983 su “Penitenza e riconciliazione nella missione della Chiesa” – è anche la parabola di una riconciliazione fallita. Cioè mentre il padre e la famiglia abbracciano il primo figlio, il secondo se la prende. E la parabola finisce senza dire se il secondo ha accettato di rientrare nel banchetto».

• «Al di là delle buone intenzioni, sulla questione del perdono il mondo cattolico finiva per alimentare un cortocircuito sia tra piano individuale e piano collettivo che tra perdono di Dio e perdono degli uomini. (…) Ragioni politiche e ragioni pastorali non potevano e non dovevano coincidere».

• «Il 2 giugno 1986, nella solenne celebrazione a Montecitorio per il quarantennale della Repubblica, il presidente Francesco Cossiga parlò di vittoria sul terrorismo, sconfitto non solo dalla polizia e dalla giustizia, ma anche dalla coscienza popolare, che aveva sventato ogni deriva autoritaria».

• «Il potere giudiziario conobbe con gli anni ’80 un generale rafforzamento, di cui era spia il ruolo crescente esercitato dal Csm a difesa dell’autonomia della magistratura e in quanto organo istituzionale di collegamento con la politica. In Italia il ruolo del giudice si era fatto più incisivo a partire dagli anni ’60, quando la magistratura aveva cominciato a frammentarsi da un punto di vista politico e venne meno la sua organicità al potere; e si era ulteriormente accresciuto con i nuovi compiti imposti negli anni ’70 e ’80 da sfide eversive di diversa natura, dalla lotta armata allo stragismo neofascista, dalla mafia alla P2. Il 1981, con l’indagine su Licio Gelli, è considerata “data emblematica” del definitivo passaggio dalla complementarità alla conflittualità tra i poteri dello Stato; e simbolo di una corruzione giunta a livelli tali da alterare il funzionamento dello stesso potere giudiziario, di cui era esempio il tentativo di inquinamento dell’inchiesta sulla P2 da parte del procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci».

• «Il filo conduttore dei rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario nell’Italia unita è stato sempre il dibattito sull’indipendenza della magistratura, un principio sancito dalla Costituzione del 1948, ma assai elastico e tale da giustificare crociate quasi incompatibili tra loro: considerato la conditio sine qua non per la tutela dello Stato di diritto da una parte, e dall’altra l’origine dello “strapotere dei giudici”, del loro progressivo arroccamento corporativo, nell’insofferenza a ogni tipo di critica e nello sconfinamento della loro funzione».

• «L’indebolimento del potere politico e il rafforzamento dell’ordine giudiziario erano legati da un rapporto circolare che si era riattivato con le priorità imposte dalla lotta al terrorismo: e che andò palesandosi in tutte le sue implicazioni quando si cominciò a porre il superamento dell’emergenza in termini concreti. Anche l’approvazione della legge sulla dissociazione fu concepita come uno strumento per tornare alla normalità, nell’ambito di un tentativo più ampio – e sostanzialmente fallito – di far rientrare il ruolo della magistratura entro i confini stabiliti dalla Costituzione, uscendo dalla logica dell’attacco frontale e interessato di alcune forze politiche».

• Ancora nei dibattiti degli anni Ottanta, quello dell’eversione era «un fenomeno che continuava ad apparire misterioso, ma era difficile negare che ne fosse protagonista la generazione figlia del boom economico, la prima dell’era atomica, quando la messa in discussione della legittimità della guerra tra gli Stati aveva portato la guerra dentro gli Stati. La prima (e forse l’ultima) a veder crescere incomparabilmente la qualità della propria vita, ad aumentare i propri diritti ma non i propri doveri – il livello di istruzione, tra tutti –, a vivere gli ultimi illusori fuochi dell’età dell’oro, prima del suo definitivo tramonto. Vittima di un abbaglio, che le fece scambiare la fine per un inizio».

• «Nel 2011, dopo trent’anni di galera, fu scarcerato Vincenzo Guagliardo, killer di Guido Rossa. Il brigatista – dichiarò il giudice – “ha svolto progressiva e matura autocritica del proprio passato deviante” e, “dopo una lunghissima fase di travaglio interiore”, “ha aderito all’opzione di pieno recupero sociale”. I terroristi ancora dentro erano 69, di cui 9 di destra e 15 anarchici, compresi però quelli dei delitti D’Antona e Biagi. Della vecchia leva 11 potevano uscire di giorno, come Mario Moretti, mentre la Balzerani era in procinto di tornare completamente libera. Erano praticamente fuori quasi tutti, compreso Giovanni Senzani, autore di efferati delitti. Nel corso degli anni hanno abbandonato la lotta armata senza abiure, finendo in una sorta di terra di nessuno. Nel gennaio 2013 il funerale di Prospero Gallinari – forse il più irriducibile dei brigatisti, ritenuto a lungo e a torto l’esecutore materiale dell’omicidio Moro – parve calare definitivamente il sipario su quella stagione».