Alex Frosio, La Gazzetta dello Sport 9/12/2014, 9 dicembre 2014
CALCIO, VENDESI ITALIA
La Premier League è il campionato più «straniero» che esista. Su venti club, dodici sono di proprietà non britannica. Particolare non indifferente: undici di questi dodici proprietari hanno un patrimonio stimato di almeno un miliardo di euro. L’unica eccezione è rappresentata dalla famiglia Allam, gli egiziani che possiedono la maggioranza delle azioni dell’Hull City. Ma bilanciano la presenza di autentici magnati come Abramovich (Chelsea), Mittal (azionista di minoranza del Qpr), Kroenke e Usmanov (Arsenal), tutta gente che vale intorno ai dieci miliardi di patrimonio, se non di più. Per non parlare dello sceicco Mansour, re Mida del Manchester City. E poco importa se la famiglia Glazer, nel 2005, scalò il Manchester United grazie soprattutto ai prestiti delle banche impegnando proprio le azioni del club di Old Trafford: dal punto di vista finanziario gli americani sono sempre stati solidissimi, e da un annetto e mezzo hanno anche l’«aiuto» di George Soros, proprio l’uomo che fu vicino alla Roma e che si è accaparrato circa il 2% dello United. Le regole della Premier League, e del calcio inglese in generale, istituiscono bastioni piuttosto alti per chi ha intenzione di investire nel football: ne sa qualcosa Massimo Cellino, la cui proprietà del Leeds è tuttora congelata perché l’ex presidente del Cagliari non ha passato i test «etici» per una vecchia condanna fiscale in Italia. Chi vuole acquistare un club inglese, in sintesi, deve uscire allo scoperto: si deve sapere chi è, cosa fa, cosa ha fatto e cosa intende fare.
In Italia non sempre è tutto così chiaro, anzi. L’ultimo esempio è proprio di questi giorni. Domenica, prima della partita, Tommaso Ghirardi annuncia di aver ceduto il Parma a una cordata di russi-ciprioti rappresentata dall’avvocato Fabio Giordano. Gente che opera nel ramo petrolchimico. Ma il nome è top secret. «Mi auguro che siano dei reali investitori, questo sarebbe un bene per la società», ha detto Carlo Tavecchio, presidente della Figc. Ma solo a noi sembra paradossale che il padrone di casa lasci entrare ospiti senza sapere chi siano? Si è parlato addirittura del coinvolgimento di Suleiman Kerimov, patron dell’Anzhi: voce già smentita dal club russo. Sullo sfondo, invece, ha preso di nuovo corpo la figura di Rezart Taçi: il petroliere albanese stava per acquistare il club un mesetto fa, poi la trattativa era sfumata. In ogni caso, i nuovi padroni si accolleranno un’operazione da una cinquantina di milioni, 7 per rilevare il club e il resto, più o meno, per coprire i debiti. Se la trattativa andrà definitivamente in porto (oggi serve la garanzia della fideiussione, giovedì dovrebbero arrivare le firme sugli incartamenti per il passaggio di proprietà), il Parma diventerà il terzo club di Serie A in mani straniere, il settimo del calcio professionistico italiano. Prima dei russi-ciprioti, sono arrivati gli americani a Roma, cioè James Pallotta, e l’indonesiano all’Inter, cioè Erick Thohir. A ottobre, in B, è passato in mani americano-canadesi il Bologna: presidente l’avvocato Joe Tacopina, a capo di una cordata capeggiata dall’imprenditore Joey Saputo. Il Brescia, invece, sembra interessare a Khadir Sheik Abdul, uomo d’affari di origini pachistane. Più giù, in Lega Pro, altri tre club sono stranieri. Il Venezia dal 2011 appartiene al russo Yuri Korablin, già sindaco di Khimki dal 1991 al 2001 e fondatore del Football Club Khimki e del Khimki Basket. Il Pavia, da luglio, è cinese, attraverso il fondo Pingj Shanghai Investment. E poi c’è il Monza: dal 2003 è dell’anglo-brasiliano Anthony Emery Armstrong, l’uomo che si presentò a Monzello con una Ferrari noleggiata e che è recentemente stato coinvolto in una inchiesta della magistratura brasiliano, gettando nel caos il club brianzolo.
vicenza inglese Il problema è proprio questo. Senza regole di ingresso chiare, il rischio è sempre quello di accogliere semplici speculatori se non addirittura autentici avventurieri. Se è vero che il primo presidente del Milan fu un inglese, Alfred Edwards, in un secolo e mezzo di calcio l’Italia non è mai stata terreno fertile per gli stranieri. La prima proprietà estera vera e propria si registra a Vicenza, a fine anni Novanta: nel 1997, dopo aver conquistato la Coppa Italia, l’ex Lanerossi passa alla società britannica Enic (una finanziaria attiva nel campo petrolifero), e proprio in quella stagione si arrampicò fino alla semifinale di Coppa delle Coppe (persa contro il Chelsea di Zola). Poi il ritorno in B e l’addio degli inglesi. Altrove, tante voci e altrettanti bluff: lo stesso Taçi in passato è stato accostato al Milan e poi al Bologba, Lorenzo Sanz — già proprietario del Real Madrid — fu vicinissimo al club ducale nel 2005 in una vicenda controversa e poi al Bari nel 2008. Restando in Puglia, nel 2008 fu accolto da re Timothy Barton, sedicente miliardario di Dallas: ma in Texas non lo conosceva nessuno, e tutto finì nel nulla. Lo zio d’America, qui, non arriva mai. E nemmeno oligarchi o sceicchi, come quelli con cui si fece fotografare tempo fa Zamparini: spariti, e il Palermo è ancora suo.
La vecchia favola di «al lupo al lupo» è quanto mai valida. E finisce per rimetterci anche chi fa sul serio. Così persino su Pallotta si addensarono forti dubbi quando nella primavera del 2011, con altri imprenditori statunitensi tra cui Thomas DiBenedetto, prese il comando della Roma. C’è dietro la solita banca, dubitavano gli scettici. Gli investimenti li hanno in parte dissipati, ma siamo ancora lontani da un Abramovich o un Mansour che pompano soldi a palate. Lo stesso Thohir finora ha applicato una rigida realpolitik nella gestione dell’Inter, dopo gli anni gloriosi, ricchi, dispendiosi, un po’ pazzi e poco attenti ai bilanci di Massimo Moratti. Del resto, il «ricco» della famiglia Thohir, secondo le classifiche di Forbes, è Garibaldi, il fratello di Erick, numero 1.250 nella classifica dei miliardari del mondo. I primi posti della Premier sono davvero lontanissimi.