Paolo Siepi, ItaliaOggi 9/12/2014, 9 dicembre 2014
PERISCOPIO
Berlusconi, per il peggio e il meno peggio, mi accompagna dal mio primo giorno in Italia, senza lasciarmi mai una tregua. Mi sono incocciato su di lui quasi ogni giorno. Imprevedibile, fuori norma, ridicolo, patetico, egli, da solo, ha giustificato la presenza di un centinaio di corrispondenti dal mondo intero a Roma, proprio mentre la potenza dell’Italia stava declinando. Philippe Ridet, corrispondente da Roma di Le Monde in, L’Italie, Rome et moi. Flammarion.
Mi è sempre piaciuto, e ancora mi piace, il cattolicesimo sociale. Che è cosa diversa dalla sinistra Dc, a volte più settaria dei comunisti. Bruno Vespa. Sette.
Forse vale anche per la politica quello che una volta si diceva a proposito della religione, e cioè che quando la gente smette di credere in Dio di solito comincia a credere in cose molto peggiori. E così, dalla crisi delle ideologie, siamo arrivati al dominio della tuttologia, con il serio rischio di passare direttamente da una democrazia oligarchica alla dittatura dei cialtroni. Francesco Cundari. Il Foglio.
Il quartiere alla periferia di Roma dove ci trasferimmo non era ancora finito, ma c’era la parrocchia. Fondamentale. Magari te rubbava l’anima, ma ti restituiva una formazione oggi impensabile. Luigi Proietti. Il Fatto.
Il video dura otto minuti, Renato Brunetta dice che è il ritorno in «campissimo» di Silvio Berlusconi con la «propostissima» della flat tax, e per la prima volta in vent’anni, proprio nel giorno in cui la ri-Forza Italia ri-torna al «meno tasse per tutti», le immagini del Cavaliere non le ha girate il vecchio pretoriano Roberto Gasparotti, cioè quello della calza per far apparire più liscia la faccia del Cav e della discesa in campo, un po’ cameraman, un po’ truccatore, un po’ buttafuori, ma un nuovo service di telecamere promosso da Deborah Bergamini e Mariarosaria Rossi. E infatti Gasparotti è stato congedato, e il suo pensionamento coatto si è consumato con la massima soddisfazione della corte di Palazzo Grazioli (una volta Gasparotti li fece alzare tutti d’imperio dalle prime file di una manifestazione pubblica per sostituirli con dei ragazzi più giovani: «Ve ne dovete annà in fondo alla sala»). Stefano Merlo. Il Foglio.
Io penso che la flessione continua di spettatori nelle sale cinematografiche sia dovuta al fatto che il cinema è diventato foriero di sofferenze per lo spettatore. Fino a quando il cinema lo divertiva, il pubblico ci andava. Nel momento in cui devi andare al cinema per soffrire, non ci vai più. Maurizio Nicchetti, regista. Sette.
La scuola non è tutto, non dovrebbe insegnare tutto, né tanto meno creare una nuova antropologia. C’è la società (almeno si spera ci sia). Non tutta la cultura può e deve entrare nella scuola. A scuola si può prescrivere di studiare, non in che cosa credere o non credere. Per esempio, molti musicisti e musicologi sono contro l’insegnamento della musica come materia scolastica obbligatoria, perché ritengono questo una minaccia alla vera passione e alla libera scelta. A scuola eviterei anche la letteratura contemporanea. Qualche libro sì, ma pochi. Niente obbligo. Molte cose vanno scoperte per conto proprio, quando se ne ha bisogno. Alfonso Berardinelli. Il Foglio.
Sulla metropolitana di Milano stamattina mi riscopro a fare un vecchio gioco. Non è esattamente un gioco in realtà, ma quasi un esercizio di contemplazione. Nella fila di passeggeri che mi sta davanti ne scelgo uno. Più spesso è una persona anziana. Ciò che cerco di rintracciare sotto ai lineamenti è il lavoro del tempo sulla faccia. «La smorfia che porta sul viso / un uomo a confezionarla ci impiega una vita / e non sempre riesce a terminarla / da quanto questa smorfia è complicata», diceva una canzone di Giorgio Gaber. Ecco, il mio esercizio sta nel percorrere con discrezione le rughe sui volti degli sconosciuti, cercando di immaginare come erano a vent’anni, e come si siano modificati, segnati dallo scorrere del tempo. Perché se i lineamenti ci vengono dati, l’espressione del volto è opera nostra. E parla, parla di noi, indiscretamente. Questa signora davanti a me per esempio: i capelli platinati, gli occhi vistosamente truccati, le spalle ben diritte, fiere. Una donna che è stata certamente bella, e ancora, si direbbe, combatte, battagliera. Solo una piega amara ai due lati della bocca infrange l’aspetto di una vittoriosa guerriera. Piccole, le due rughe, come la traccia di un sorriso obbligato, di una maschera di buona educazione ostinatamente ogni mattina indossata. Marina Corradi. Avvenire. it.
Vergine Immacolata, basterebbe pochissimo per ridare calore ossia cristianesimo alle nostre fredde città. Siccome basterebbe fare pochissimo nessuno farà niente. Per amor tuo, io che pure sono uomo accidioso con un’amica e un passante albanese di buona volontà ho ripulito e reso nuovamente ben visibile la tua edicola di Strada Farini, immagine davanti alla quale passavano ogni giorno, infischiandosene del degrado, almeno mille sedicenti cattolici, magari di quelli che ora si lamentano perché i presidi proibiscono i presepi nelle scuole. Basterebbe che domani sera i mille sedicenti cattolici che in ogni città certamente esistono riempissero di lumini tutte le edicole, le maestà, i capitelli, le nicchie, le santelle, i tabernacoli d’Italia. Non lo faranno, salvo miracoli sempre possibili e sempre attesi. Non lo faranno, così l’anno prossimo ci saranno ancor meno presepi. Non lo faranno, questi cuculi della Chiesa cattolica a cui dell’Immacolata importa innanzitutto il ponte. Io, a Dio piacendo, lo farò. Camillo Langone. Il Foglio.
In un bar nel 1948, moltissimo tempo fa, quando Bogotà era ancora una città con mattinate gelide, tramvai lenti, campane dal suono grave, carri funebri trainati da cavalli da tiro guidati da cocchieri in livrea e cilindro, io, che avevo 16 anni ed ero figlio di un direttore di giornale, feci la conoscenza con il ventenne Gabriel Garcìa Marquez. Plinio Apuleyo Mendoza, Quegli anni con Gabo. Un Garcìa Màrquez sconosciuto. Anordest.
Niente lupi, niente lupi/ Solo gatti, gatti, gatti / Niente più pensieri cupi / Ma ridiamo come matti». Una filastrocca inventata da Giuliano Zincone per i suoi figli quando erano piccoli e che i suoi figli, diventati adulti, hanno recitato davanti alla sua bara nel corso del suo funerale. Vittorio Zincone. Sette.
Lascio giacca e pantaloni al mio sarto di fiducia perché, in caso di resurrezione, debitamente allargati io possa indossarli. Roberto Gervaso. Il Messaggero.
Paolo Siepi, ItaliaOggi 9/12/2014