Fabrizio Forquet, Il Sole 24 Ore 7/12/2014, 7 dicembre 2014
LA STRAGE PULP DELLA CASTA
«Quanto al modo in cui prendemmo lo Stato, i kosovari si presentarono alla Camera dei deputati e, condotti dai commessi in precedenza comprati dal rag. Dominicis, entrarono facilmente nello studio dell’onorevole Fini, sorprendendolo mentre chino sulla scrivania leggeva qualcosa. Gli spiccarono il capo dal busto e, posata la testa su una poltrona, senza ulteriori disordini, chiesero di essere guidati, attraverso il passaggio segreto, fino a Palazzo Madama, dove gli uscieri del Senato, persuasi allo stesso modo dal buon Dominicis, gli aprirono la porticina e li lasciarono salire fino allo studio del Presidente, avvocato Schifani». È l’incipit strepitoso del fantasy politico con cui Giorgio Dell’Arti immagina la presa del potere da parte dei Nuovi Venuti, che liquidano in un surreale e un po’ pulp bagno di sangue la vecchia classe dirigente all’insegna di un nuovo ordine etico e politico.
I nomi – sottolinea l’autore – sono tutti di fantasia. Ma è una burla anche questa. I protagonisti sacrificali del potere italiano sono citati uno per uno. Non manca nessuno. Anche i consiglieri di Napolitano vengono enumerati uno per uno, con puntiglio, anche quelli meno noti alle cronache. E sono gli unici che si salvono quei consiglieri, insieme con Napolitano e la signora Clio, avvertiti tutti per tempo e fuggiti in Francia prima di cadere vittime dell’ordalia. «Il cavalier Berlusconi – invece – non ebbe la prontezza di rifugiarsi alle Bermude». I nostri purificatori dell’etica pubblica lo trovano così «all’ultimo piano del vecchio Gallia, ranicchiato sul letto della stanza 783, piastrellata di bianco e verde», e ovviamente «lo buttarono giù dalla finestra in pigiama com’era». I kosovari andarono quindi in cerca «dei berlusconiani e degli ex fascisti, li trovarono invero tutti, ammazzarono La Russa a sberle, infilarono uno spillone nella nuca di Bonaiuti, esagerarono, non bisognava strappare i denti a Gianni Letta. Matteoli, Alfano, Paolo Romani, Sacconi e gli altri furono messi al muro e fucilati, idem lo staff di Mediaset».
A chi dal Vaticano chiede ragione di tante violenze, la risposta dei Nuovi Venuti è nel ristabilimento di «alcuni principi senza i quali non può esserci alcuna morale». E il primo di quei principi è quello dell’amicizia tra i popoli che si fonda sul rispetto «del debitore verso il Creditore», «nemico dei popoli dovendo considerarsi quello che prende i soldi e non li restituisce». È innanzitutto per garantire il debito pubblico italiano, vissuto come senso di colpa, che questi golpisti prendono il potere, non senza il sostegno degli stati creditori. Non è un caso allora se i nuovi venuti dimostrano clemenza per chi era allora al governo, «il professor Monti e i suoi ministri», tutti risparmiati e chiusi nella tenuta di San Rossore. Ben altro trattamento per l’onorevole Casini: i kosovari «lo chiusero in un sacco, lo ficcarono nel portabagagli, poi lo portarono a Tor Tre Teste, non cessava di agitarsi e urlare, lì lo impalarono».
D’Alema, intercettato mentre porta a passeggio il cane, viene fatto annegare nel Tevere, Di Pietro è dilaniato da due trattori che lo tirano in direzioni opposte, Veltroni lapidato, Bersani accoltellato nella vasca da bagno. Non va meglio ai sindacalisti, impiccati. I magistrati vengono appesi per i piedi davanti alle Procure «lasciando che il sangue alla testa pian piano li soffocasse». I giornalisti «li sdraiammo e dopo avergli bloccato a terra braccia e gambe con dei morsetti d’acciaio gli facemmo passare sui polsi le biciclette dalle ruote a rasoio».
Macabro, ma che spasso. È un libro divertente, intelligente, questo di Giorgio Dell’Arti. Che conferma il suo gusto per una satira gioiosa e non petulante. Al lettore il piacere di rincorrere i rimandi, le metafore, le allegorie. Non conta coglierle tutte, conta il divertimento di un prolungato sberleffo che liquida meglio di qualunque saggio i tanti giacobini che di tanto in tanto, nel nostro Paese, si fanno profeti della morale.