Pierangelo Sapegno, La Stampa 6/12/2014, 6 dicembre 2014
SCAMBIO NELLA CULLA, LE MAMME CHIEDONO 12 MILIONI DI RISARCIMENTO
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Sophie dice che è «rimasta schiacciata dai sensi di colpa. Perché non ho difeso mia figlia».
Lo dice a testa china, come se la vita si fosse sempre fermata in quel momento, nel soffocato sferragliare dei ricordi.
Gliela scambiarono dentro alle culle, Mathilde. E quando lo scoprì, lei tenne la sua. Tenne quella del destino, perché ormai l’amava come una mamma vera.
L’altro giorno ha chiesto 12 milioni di risarcimento al Tribunale di Grasse per quell’errore di un’infermiera alcolista e depressa, sfuggito e poi negato da due medici e due pediatri della Clinica di Cannes. Ma quanto vale e che cos’è, l’amore di una madre? La mamma della bambina scambiata all’ospedale di Mazara del Vallo il primo gennaio 1998 nelle culle 7 e 8, proprio come nel film di Ficarra e Picone, scelse di riprendere la sua e finì in depressione. Il marito disse che «non si rassegnava più», che stava chiusa nella sua stanza, da dove uscivano solo deboli e chiocci rumori, guardandosi e riguardando tutti i filmati del battesimo, tutti i sorrisi e i saluti della figlia che aveva lasciato andare.
C’è una grandezza, nell’amore di una madre, più forte della sua natura. Neppure ora riusciamo a capirlo, a scorgerne i labili confini e la sua profondità, neppure adesso che Sophie Serrano e gli altri genitori di Mathilde e Manon hanno chiesto tutti quei soldi per le loro bambine, finite nella stessa incubatrice senza braccialetto.
Forse è giusto così. Il destino non può barattare la vita. Sono passati vent’anni da quando iniziò questa storia. L’anno è il 1994, 4 luglio, clinica di Cannes. Nascono Mathilde e Manon. Hanno piccoli problemi di itterizia e vengono messe in una incubatrice per 7 giorni. Quando le dimettono, a Sophie consegnano Manon, con sorrisi e complimenti. La piccola è un po’ più scura, perché i suoi veri genitori sono della Reunion, nell’arcipelago indiano, ma quando lo fanno notare ai medici, questi dicono che è normale: «Sono stati i raggi delle cure, è dovuto alle lampade, succede spesso». Il marito non ne è troppo convinto, ma vanno a casa.
Il paese dove abitano, a Thorenc, su per i bricchi sopra Nizza, sembra un posto delle favole, rinserrato sotto le rocce e i boschi di pini, con pittoresche case coloniche. Ogni tanto a lui continuano a venire dei dubbi e fa domande alla moglie e non smette di lamentarsi. Dieci anni dopo lei decide di farle fare l’esame del Dna per tranquillizzarlo.
Lo choc è terribile: non è figlia di nessuno dei due. Sophie cerca gli altri genitori, infine li trova e li conosce. E conosce anche la sua vera figlia. L’hanno chiamata Mathilde. «E’ stata un’emozione bellissima, eravamo tutt’e due felici». Ma poi sono cominciati i problemi. Lei ormai amava Manon e Manon era disperata all’idea di cambiare i genitori. «E anche Mathilde aveva già una mamma, e non avrei potuto portarla via». Così, Mathilde e Manon sono rimaste con i loro genitori “sbagliati”.
Solo che un altro calvario, dice lei, è cominciato da allora. Oggi, dieci anni dopo, questa salita è passata per il tribunale. Sophie dice: «Quello che è capitato a noi, può capitare a chiunque altro. Non auguro a nessuno di vivere un’esperienza del genere. Noi dobbiamo trovare un modo per liberarci dai sensi di colpa, per non essere stati in grado di difendere i nostri figli, di non esserci impuntati quando ci siamo accorti del problema, di aver abbandonato il nostro sangue». Nel frattempo, però, la clinica ha chiuso i battenti e i presunti responsabili (due pediatri, due ostetriche e due infermiere) non intendono pagare, come hanno già dichiarato.
A Mazara, per la stessa storia, il risarcimento offerto è di gran lunga più basso: ottocentomila euro. Ma la storia è uguale solo per lo scambio. Nessuno ci aveva mai pensato, due famiglie tranquille, un padre muratore e un altro pescatore, entrambi benestanti, fino al giorno in cui una mamma andò all’asilo a ritirare sua figlia e la maestra gliene consegnò un’altra.
«Questa non è la mia», disse. E la maestra: «Le somiglia come una goccia d’acqua, l’ha visto?». Il Dna certificò che aveva ragione l’insegnante, e il primario Antonino Adamo spiegò che «era stata tutta colpa di un’inversione di tutine».
Le bambine furono restituite ai genitori naturali che avevano 2 anni e 8 mesi, «ma da allora è cominciato un tormento che dura da anni e non cessa mai», anche se la nonna insisteva: «queste bambine devono cambiare mamma e papà, perché il sangue deve restare col proprio sangue».
E’ davvero questa la verità? Il papà muratore raccontò che la piccola era disorientata, era passata da una famiglia con fratelli a un’altra da figlia unica, e restava in silenzio, senza capire, mentre la mamma si disperava nella sua stanza, con i filmati del battesimo.
E quando a Roma, all’ospedale Pertini, scambiarono persino gli embrioni, dando a una mamma già in grembo un altro figlio, lei non ebbe dubbi: «Questo è solo mio». Tutto questo dolore, tutta questa forza, è difficile da spiegare.
Forse è vero che è un amore senza prezzo, un bisogno che ci rende tutti prigionieri. Come diceva Montale, abbiamo sceso, «dandoti il braccio», almeno un milione di scale, e ora che non c’è è vuoto a ogni gradino, e abbiamo scese un milione di scale con lei, «perché le sole vere pupille erano le tue».
Pierangelo Sapegno
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“IL MIO INCUBO SENZA FINE SONO MADRE DI DUE FIGLIE MA NON LO SONO DI NESSUNA” –
«Tutti i momenti della mia vita, oggi, continuo a rivedere quello che è successo. E’ come un incubo che non mi lascia mai sola. Mi sveglio pensando a quegli attimi e vado a letto che li ho ancora in testa». Non lo dice, ma dev’essere come se vivesse una vita parallela. E’ il destino delle sliding doors. Per Sophie Serrano, occhi neri come bacche, era impossibile lasciare la propria figlia ad altri genitori, senza neanche saperlo. E amare un’altra bambina come se fosse la sua figlia del sangue. Manon e Mathilde sono figlie del cuore, ma una sola la può stringere e amare, riamata. Anche quando se ne accorse, non riusciva a crederci: «Continuavo a pensare che non potesse capitare una cosa così a me...». Solo che alla fine questa storia «non finirà neanche adesso», dice. Per questo lei e gli altri genitori vogliono tutti quei soldi, 12 milioni di euro, perchè in fondo tutto questo non ha prezzo, perché «il senso di colpa ci sta seppellendo. E non basta ripeterci che non abbiamo nessuna colpa».
Quando tutto cominciò, lei era così tranquilla che quasi ci rideva sopra. Manon era più scura di loro, sembrava una mulatta, e suo marito non si dava pace. «Gli dicevo, guarda, saranno le mie origini spagnole, avrò avuto qualche antenato moro senza saperlo. Lui faceva il muso». Un giorno allora, lei si decide: «Porto la bimba a fare il dna e mi dovrai chiedere scusa». Uno choc: Manon non è figlia di nessuno dei due. Fanno ricerche e scoprono che la vera figlia vive con altri genitori. Hanno 10 anni tutt’e due: come tornare indietro a riaprire le porte del destino? «Mi chiedevo: potrò mai essere qualcuno per mia figlia? Ma chi e che cosa?». Manon sta soffrendo, ha paura che lei possa non essere più sua madre. «E anche io stavo male. La prima impressione è stata quella di perdere la mia bambina. Avevo scoperto che non ero la madre. Sono finita in depressione. Mia figlia è rimasta traumatizzata. Ho cercato di tranquillizzarla, le ho detto che non l’avrei mai lasciata, ho continuato a ripeterle che l’amavo, che quando si diventa madre una volta lo si resta per sempre, che questo dna non avrebbe cambiato niente e che io non avrei potuto vivere senza di lei».
Poi incontra la figlia biologica. «Un’emozione bellissima. Eravamo felici. Ma è subito iniziato il difficile. Non potevo essere sua mamma, ne aveva già una. Vorrei essere qualcosa per lei. Ma che cosa? Stesso discorso per l’altra mia figlia. Mi sento impotente». Ormai, è come se quelle porte si fossero chiuse per sempre. Così sono passati dieci anni, a chiedersi se stava vivendo la sua vera vita, e se le sue figlie la vivessero. Che cosa le è stato tolto? E che cosa le è stato dato? Oggi, dice Sophie, «non sono rimasta che con me stessa. Sono l’unica persona che mi ascolta».
pie. sap., La Stampa 6/12/2014