Silvia Fumarola, la Repubblica 6/12/2014, 6 dicembre 2014
IL RACCONTO DI ALESSANDRO “DALLE RIUNIONI DI FAMIGLIA CON PAPÀ ALLE MIE FESTE SENZA ECCESSI” NATALE IN CASA GASSMANN
[Intervista] –
PER tutte le famiglie, felici o infelici a loro modo — come insegna Tolstoj — il Natale resta un banco di prova. Alessandro Gassmann ne parla con gli occhi del bambino che è stato, e oggi con lo sguardo del padre di un ragazzo di sedici anni «a cui cerco di spiegare che non si può ridurre tutto a un momento di vendita e compravendita, ma oggi i ragazzi hanno talmente tanti stimoli, la testa piena di informazioni…». Famiglia allargata e sparsa qua e là che si riuniva sotto l’albero, per il piccolo Alessandro, Natale era un momento di «normalità», ma, spiega con pudore, «non di piena felicità». Però dei Natali di una volta, che profumavano di abete e vaniglia, conserva ancora un trenino elettrico bellissimo, svizzero.
«Il trenino è sempre stata la mia grande passione», spiega sorridendo, «la locomotrice era veramente un capolavoro e credo sia ancora funzionante: è il più bel regalo che abbia ricevuto nella mia infanzia. Le lascio immaginare i regali che riceve mio figlio: i ragazzi fanno foto, filmini, usano il telefonino come filtro attraverso cui guardare il mondo.
Capisco anche che possa essere una difesa perché la realtà è spaventosa ma Leo è uno dei pochi ragazzi che ha un limite di uso per il telefono. Qualche regola ci vuole, fare i genitori vuol dire dare le regole: lo amo, ma non sono amico di mio figlio».
Radici borghesi, severo e tenero, come suo padre con lui, una carriera costruita tra teatro e cinema (a gennaio uscirà Il nome del figlio, il nuovo film di Francesca Archibugi, di cui è protagonista con Micaela Ramazzotti, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo e Valeria Golino), Alessandro ha le sue regole natalizie: «Niente tombola, cucino io, e, soprattutto, faccio le telefonate di auguri, quelle classiche: non rispondo a chi manda auguri cumulativi via sms. Sono una cafonata».
Se il Natale da bambino era affollato di parenti, quello da adulto è ristretto: «Siamo io Leo e mia moglie Sabrina. Stiamo benissimo noi tre. Nessuno dei miei genitori era “italiano” in senso natalizio» — racconta l’attore — «il Natale classico era organizzato da mia zia Mary, la sorella di papà, che abitava vicino a noi. A casa sua si riuniva tutta la famiglia Gassmann: era l’unica occasione in cui sembravamo una famiglia regolare. Eravamo una trentina, forse una quarantina di persone ». Un rito.
«Sia io, che mia madre Juliette Mayniel che mio padre rifuggivamo da questo tipo di tradizioni, anche se la sera della vigilia stavamo tutti lì, insieme. Forse per questo Natale mi ha sempre messo malinconia, mi dà il senso del tempo che scorre, è il periodo dei buoni propositi che poi, chissà perché, non si avverano quasi mai. Questo è un Natale di guerra, speriamo che dall’ultimo cittadino al primo politico, abbiano voglia di rimboccarsi le maniche, perché c’è tanto da fare».
Per Gassmann questo è stato un anno importante: fino alla fine del 2014 sarà testimonial di Amnesty international. «Posso dirlo? Ci sarà in vendita un panettone di solidarietà buonissimo, è per una giusta causa», e dal 2015 lo aspetta il ruolo di Goodwill Ambassador dell’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
«Gliel’ho spiegato subito: vengo a fare le missioni ma non voglio fare la parte dell’attore o del benestante che va tra i poveri, la mia prima missione sarà in Kurdistan: andrò a cercare sotto le tende gli artisti che non possono professare la propria arte, scrittori giornalisti cantanti, cercherò di dargli visibilità. Penso che sia un impegno che mi cambierà profondamente, faccio un mestiere che spesso ha a che fare con la parte ludica della vita, con l’immagine. A febbraio compio 50 anni, sono un uomo fortunato e vorrei mettere la mia esperienza al servizio degli altri». Natale di guerra e di pace, riflessioni che ricorrono, tra i ricordi e la voglia di andare oltre la tradizione: «Finché sono stato bambino », spiega Gassmann, «l’albero lo facevo in casa controvoglia. Oggi continuo a farlo, mio figlio ha sedici anni, è alto e grande, mi viene a prendere con la Vespa, è distratto da mille cose, tutta questa emozione non la vive. Continuo a pensare che Natale sia una festa importante, mi piace meno che diventi un momento di vendita e compravendita. Per chi crede veramente è la festa religiosa, e lo rispetto. Chi è non credente come me forse è più libero. La tradizione mi piace, almeno in cucina: non so cosa sia il capitone, ma siamo grandi consumatori di pandoro, confesso che continuo a comprarlo anche nei periodi non natalizi».
Se da piccolo c’era comunque lo stupore e l’attesa, oggi il Natale è, ancora di più, un momento in cui fare bilanci. «I miei sogni sono cambiati perché è cambiato il mondo, perché stiamo lasciando ai nostri ragazzi un Paese che è molto peggio di quello che abbiamo conosciuto noi o i nostri padri. E la mia generazione ha contribuito a questo disfacimento, siamo colpevoli come elettori, sono colpevoli i politici. L’orizzonte è molto più corto: l’Italia ha il 42 per cento di disoccupati tra i giovani, non era mai successo se non nell’immediato dopoguerra. Tra vent’anni avrò 70 anni e Leo 36: come sarà l’Italia? Pensi che io volevo fare l’ingegnere agrario, mentre mio figlio vuole iscriversi a Filosofia, lui è più bravo di me a scuola, è “studione” come dico io. Ma se penso alla mole di informazioni — sono sempre connessi — che ricevono i ragazzi oggi, mi vengono i brividi. Papà mi obbligava a leggere quattro pagine del giornale, tutti i giorni, loro sono informati su tutto, hanno mille stimoli, vedono immagini terrificanti. Io voglio che veda con i suoi occhi quello che succede: le periferie sono a dieci minuti da casa mia in Vespa. È bene sapere come vivono migliaia di persone: mi diranno che sono radical chic ma ho portato mio figlio per fargli capire cosa sta succedendo. Ci tengo che lo sappia: nessuno è esente da quello che sta accadendo. Lo so, mi arrabbio su certe cose, ma che posso farci? Sono fatto così».
Un intreccio di rigore e ironia, come dimostra nel nuovo film della Archibugi Il nome del figlio , remake della commedia francese Cena tra amici . «Ma Francesca ha messo nel film un peso specifico maggiore, questa storia fatta di incontri e scontri farà riflettere sui rapporti tra noi italiani. La commedia mi piace molto quando è ben scritta, se ne stanno facendo troppe e troppo uguali, il pubblico è cambiato. Tranne Verdone, Benigni, che sono fuoriclasse, o il compianto Troisi, il cinema ha subito molti danni perché molti attori comici si sono messi a fare anche i registi. Non tutti ci riescono bene, invece è diventata un’abitudine. Posso capire il successo dei Soliti idioti pur non apprezzandolo — cito loro che mi stanno pure simpatici, se li guardo dieci minuti mi fanno anche ridere — ma se il cinema diventa quello, si limita molto il campo. Il cinema non può diventare l’evoluzione di sketch che vanno in Rete, il cinema è un’altra cosa».
Silvia Fumarola, la Repubblica 6/12/2014