Federico Rampini, la Repubblica 6/12/2014, 6 dicembre 2014
USA, BOOM DI NUOVI POSTI MAI COSI TANTI DAL 1999 E I MERCATI FESTEGGIANO
NEW YORK.
Proprio mentre i venti dell’economia globale soffiano in senso contrario, l’America accelera la creazione di posti di lavoro. Malgrado il dollaro forte, la caduta della domanda in Cina, la depressione europea, il mercato del lavoro Usa ha generato 321.000 posti netti aggiuntivi nel solo mese di novembre. E’ una vera escalation, il ritmo delle assunzioni passa ad una velocità superiore dopo essere stato in media di 220.000 posti mensili per l’ultimo anno. Per ritrovare un mercato del lavoro così dinamico bisogna risalire al 1999: un anno che sembra appartenere ad un’altra era geologica, e non solo perché chiudeva il millennio scorso. Il 1999 era l’apice dell’ultima Età dell’Oro: chiudeva il secondo mandato di Bill Clinton durante il quale si era raggiunto il pieno impiego; l’euforìa dominava sui mercati grazie anche alla New Economy, come venne battezzata la prima rivoluzione di Internet.
Tra le buone notizie di ieri ce ne sono altre. E’ stato rivisto al rialzo anche il dato di ottobre e settembre, che ora risulta incrementato di altri 44.000 posti. E soprattutto c’è stato a novembre un aumento delle retribuzioni dello 0,4%. Modesto, certo, ma pur sempre il doppio delle previsioni e il quadruplo rispetto ad ottobre. Questo segnala forse l’ingresso in una fase nuova. La ripresa americana è ormai ben oltre il suo quinto anno consecutivo, e tuttavia è stata una ripresa anomala, per certi aspetti “malata”. Dapprima fu chiamata la jobless recovery (ripresa senza posti di lavoro) perché la rianimazione dell’occupazione era stata molto lenta, i primi anni sembrava impossibile riassorbire gli 8 milioni di licenziamenti della recessione. Poi il ritmo delle assunzioni accelerò ma si parlò di una raiseless recovery (ripresa senza aumenti di stipendio).
Quest’ultimo dato era preoccupante perché si è accentuato in questi cinque anni di crescita una stortura che già aveva caratterizzato il modello di sviluppo americano pre-2007 e cioè l’allargamento delle diseguaglianze. Ora però anche gli stipendi cominciano a rialzare la testa, e se questa tendenza dovesse confermarsi nel 2015, verrebbe meno la preoccupazione fondamentale della Federal Reserve: la stagnazione del potere d’acquisto delle famiglie.
Un dato come quello di ieri accentua la divaricazione tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, con implicazioni cruciali per le politiche monetarie delle banche centrali. L’America si conferma l’unica locomotiva della crescita globale in una fase in cui gli altri due big – Cina ed Europa – sono rispettivamente in rallentamento e in depressione. A questo punto la Federal Reserve sarà incoraggiata a tirarne le conseguenze. Già si è conclusa quella terapia d’emergenza durata cinque anni e andata sotto il nome di “quantitative easing” cioè gli acquisti di bond che hanno generato liquidità, svalutato il dollaro, ri-finanziato la crescita. Oltre alla fine del “quantitative easing”, ora diventa più legittimo aspettarsi entro pochi mesi anche un rialzo dei tassi direttivi, inchiodati dalla banca centrale a quota zero da cinque anni. Questa svolta accade proprio mentre altre banche centrali fanno il cammino inverso: imitano la Fed (Giappone), riducono i tassi (Cina). L’ultima è la Bce, che continua ad annunciare una sua versione del “quantitative easing” in futuro, ora si dice a gennaio. L’impatto sulle valute dovrebbe essere un prolungamento della rivalutazione del dollaro. Tanto più che il dinamismo dell’economia americana ne aumenta la capacità di attrazione verso gli investitori del resto del mondo. Il dollaro forte ha anche il vantaggio di accentuare lo sconto sulla bolletta energetica già generato dal calo del petrolio. Ai livelli attuali la benzina alla pompa sta regalando 600 dollari all’anno al consumatore medio.
Federico Rampini, la Repubblica 6/12/2014