Marino Niola, la Repubblica 6/12/2014, 6 dicembre 2014
COSÌ I PASTORI SONO DIVENTATI UNA TRADIZIONE
Il presepe è un simbolo religioso. Anzi no. È anche arte, identità, tradizione, patrimonio culturale. Ogni paese ha il suo. Ogni popolo, facendo il presepe rappresenta soprattutto se stesso. In quello napoletano la Natività ha come location il Vesuvio e i vicoli partenopei, lo sfondo delle crèches francesi sono i monti della Provenza, nelle krippe tedesche i pastori e la Sacra Famiglia vestono i panni dei montanari bavaresi. E nelle cunas — culle — latinoamericane la grotta di Betlemme ha i colori vivaci dei mercati andini di Cochabamba e di Cuzco. Nei musei di tutto il mondo si espongono presepi artistici e popolari. Amati da credenti e non credenti proprio perché il loro valore estetico e di costume va molto al di là del fatto religioso in sé. I grandi collezionisti si contendono i pastori d’autore battuti dalle case d’asta a prezzi da capogiro. Ce ne sono addirittura alcuni dove il Bambin Gesù è assente e resta solo la scena d’insieme, il teatro d’umanità.
In realtà il presepe tutto può essere tranne che un’arma impropria per guerre di religione. Se si riducesse unicamente a simbolo confessionale, perderebbe gran parte della sua popolarità. In fondo, prendersela col bue e l’asinello finisce per ridurre la giusta istanza di laicità dello Stato a una forma di intolleranza iconoclasta.
Non troppo lontana da quella degli integralisti islamici, che in nome dell’ortodossia, distruggono opere d’arte come i Buddha di Bamiyan o, più di recente, la moschea di Giona a Mosul che, in quanto tali, appartengono all’umanità intera. Di questo passo prima o poi qualcuno chiederà di rimuovere la Madonna di Piero della Francesca dalla Pinacoteca di Brera. Perché in contrasto con lo spirito della Milano multiculturale.
Marino Niola, la Repubblica 6/12/2014