Federico Fubini, la Repubblica 6/12/2014, 6 dicembre 2014
IL NUOVO TIMORE DEI MERCATI AIUTA I FALCHI BCE
Il declassamento del voto sull’affidabilità di un debitore da oltre 2.100 miliardi di euro, per definizione, non arriva mai al momento giusto. Non poteva essercene però uno meno indicato di ieri, quando Standard & Poor’s ha tagliato il giudizio sui titoli di Stato dell’Italia a un solo gradino dal livello «speculativo»: sotto c’è solo ciò che gli investitori chiamano junk , spazzatura. Non esattamente carta che un fondo pensioni di vedove scozzesi o un fondo sovrano del Golfo Persico vogliano tenere in portafoglio a cuor leggero.
Qui non c’è un complotto degli speculatori all’opera. Fra le loro molte responsabilità, le agenzie di rating non hanno più quella della scelta dei tempi. Le nuove leggi europee emerse dopo la crisi le obbligano a rispettare un calendario fisso di annunci ogni sei mesi, senza rinviare anche solo di poche ore. Ieri però quando è arrivata la decisione di S&P non era un momento come gli altri. Il giorno prima Mario Draghi aveva impresso un’accelerazione al piano della Banca centrale europea — che l’italiano presiede — di acquistare titoli di Stato per arginare la scivolata di Eurolandia verso la deflazione. Molte banche d’affari fra le quali Goldman Sachs, con l’analista Conor Quinn, segnalano ormai ai grandi clienti che gli interventi possono essere votati probabilmente già nel consiglio direttivo della Bce del 22 gennaio prossimo. Non esistono decisioni prese in anticipo a Francoforte, ma l’Eurotower è sotto pressione perché agisca e Draghi ha già fatto capire di essere pronto a farlo in tempi brevi. Tenterà la prossima mossa soprattutto se l’inflazione, come atteso, continuerà a scendere verso quota zero o al di sotto. A quel punto per l’Eurotower si tratterà di comprare titoli di Stato europei per circa 500 miliardi di euro, dei quali circa 90 emessi dal Tesoro italiano. Questo è uno dei punti che creano ciò che Ignazio Visco, governatore di Banca d’Italia, ieri ha definito un «conflitto». La Bundesbank e l’opinione pubblica tedesca temono di doversi sobbarcare perdite tramite la Bce, se questa si caricasse di titoli emessi da Roma e questi bond finissero in default. Del resto il declassamento deciso da S&P riflette i timori diffusi nella City e a Wall Street sulla tenuta futura del debito italiano. Nell’immediato però non fa nulla per facilitare il confronto in seno alla Bce sulle prossime mosse, al contrario: chi è contrario agli acquisti di bond sovrani, Bundesbank in testa, ora ha un argomento di più per sostenere che è pericoloso.
I mercati, per il momento, potrebbero non essere d’accordo. È la seconda volta che S&P declassa l’Italia nell’ultimo anno e mezzo, e quando lo fece nel 2013 non frenò gli acquisti dall’estero sui titoli di Stato di Roma. Alla notizia di ieri sera gli indici azionari di Wall Street hanno limitato i guadagni, ma è plausibile che anche stavolta il contraccolpo dei mercati sia ridotto. Dopo la crisi del 2008, molti grandi fondi comuni hanno smesso di seguire in automatico le indicazioni delle agenzie di rating. E gli occhi degli investitori restano fissi sulla Bce, il principale fattore che oggi guida le loro scelte.
Anche senza conseguenze immediate, le parole di S&P sull’Italia conservano però tutto il loro peso. L’agenzia non si limita a indicare genericamente che la competitività del Paese è sempre più deteriorata e il debito continua a salire più in fretta del previsto, verso quota 2.256 miliardi di euro nel 2017. Ci sono almeno altre due critiche puntuali alla linea seguita finora dal governo. La strategia di tagli alle tasse seguita fin qui, nota S&P, funzionerà solo se scatteranno «ulteriori tagli di spesa»: il riferimento va all’idea originaria di una spending review da 32 miliardi di euro (2% del Pil) entro il 2016. Per ora però non è in vista anche perché, aggiunge l’agenzia, i tagli di spesa già decisi «mancano di dettagli nel medio periodo» e rischiano di perdersi nella loro applicazione concreta. Anche sul capitolo del lavoro non mancano le perplessità. Dal 2008 al 2014 il costo orario della manodopera è cresciuto del 12% grazie a contratti permanenti (in gran parte riservati a italiani di mezza età), mentre l’economia crollava di più del 9%. È toccato ai giovani precari subire tutta la deflazione salariale. In queste condizioni, il Jobs Act sui nuovi contratti fa registrare «qualche progresso», ma S&P nota che per ora manca di un tassello fondamentale: il passaggio ai negoziati sui contratti al livello d’impresa, in modo che il costo del lavoro si allinei alle condizioni dell’economia e le imprese smettano di distruggere occupazione per risparmiare sui costi. Servirà comunque tempo prima che l’intero sistema ritrovi l’equilibrio. E il tempo è una materia prima che, chiaramente, non sta lavorando più a favore dell’Italia.
Federico Fubini, la Repubblica 6/12/2014