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 2014  dicembre 07 Domenica calendario

VINCERE, OSSESSIONE MASCHILE?

Risultare vincenti a ogni costo non costituisce un’ossessione unicamente statunitense, come invece ci indurrebbe a credere in Winning (meritevole di una considerevole attenzione da parte dei media americani) in cui Francesco Duina, esperto di sociologia economica, politica economica internazionale, teorie istituzionali, che insegna presso il Dipartimento dell’University of British Columbia e, al contempo, lo dirige, si chiede perché vincere risulta così importante per molti.
È pregevole però che ci si limiti agli States, e non si guardi anche ad altri luoghi del mondo ove la competizione domina incontrastata, a partire dall’età infantile, da quando si inizia ad andare a scuola e a praticare qualche sport, senza dimenticare i rapporti strettamente privati. Pregevole perché interessarsi del senso del risultare vincenti (o perdenti) in ogni luogo del mondo può facilmente condurre a banali e indebite generalizzazioni.
Quasi scontato che vittoria o sconfitta siano vissute, dai più, al pari dell’affermazione o negazione di se stessi, su un piano personale che non può non interagire con quello sociale, ma ciò contiene parecchi fattori e affanni soggettivi: c’è chi si considera vincente in quanto è riuscito nell’impresa di accompagnarsi "amorevolmente" con una persona di uno status ben più elevato del proprio, e c’è chi si considera perdente, in quanto, nonostante i tentativi, non è mai riuscito a diventare presidente del proprio Stato.
Si dedicano intere esistenze al fine di rintracciare una qualche propria collocazione nel mondo, ovvero riuscire a mostrare se stessi, in relazione ai risultati che si ottengono, e non al conoscersi bene, in modo da comprendere il valore da abbracciare, per esempio il valore dell’amicizia, della comunicazione non menzognera, della lealtà, della crescita interiore, dell’esistenza onesta nei confronti di sé e degli altri, ammettendo i propri abbagli passati (sconfitte?). Benché Duina non insista particolarmente su questi punti, il suo volume rimane importante al fine di comprendere il senso e il nonsense della vincita e della perdita, e, più nello specifico, perché risultare vincitori o sconfitti si riveli alla fin fine un artificio, che poco ha che fare con l’effettivo ritrovarsi, riconoscersi, apprezzarsi.
Su un punto, però, Duina scivola, nello sfiorare di striscio il problema del genere di appartenenza, ovvero sulla supposta differenza tra donne e uomini.
Problema che, invece, va sempre affrontato, quando di parla di vincenti e perdenti, come ci viene ricordato dalla Giornata internazionale ONU per l’eliminazione della violenza contro le donne, che, ogni anno, si celebra il 25 novembre, data che dovrebbe contribuire a sensibilizzare ogni cittadino/a del mondo rispetto a comportamenti e abusi disumani e da condannare in ogni parte del mondo, cosa che però di fatto non avviene.
I vari, tanti tipi di violenza maschile contro le donne vengono «giustificati» beceramente, con un’emancipazione femminile, dovuta a vari femminismi, che gli uomini non riescono psicologicamente ad accettare, e così, con la violenza, tentano di esercitare quel dominio, quella vittoria sulle donne, vittoria a loro tradizionalmente conferita: il sesso forte versus il sesso debole, complementari se eterosessuali, ma non privi di violenze di cui la cronaca riesce a riportarne solo una parte, poiché le donne tendono a non esporre denuncia, neanche nei paesi occidentali e democratici – e dovremmo pensare sul serio a cosa accade negli altri paesi.
In ambito democratico, nell’agire democratico, nel mirare alla migliore democrazia, il ruolo delle donne – insistiamo col riconoscerlo – non è sempre ben visto. Meglio forse non parlare del nostro paese, e tornare di nuovo agli Stati Uniti. Per prendere le distanze. Per guardare alle differenze di genere, con una qualche oggettività. È luogo comune ritenere che gli stereotipi relativi all’appartenenza di genere penalizzino le donne, specie se candidate a qualche posizione di rilievo, non solo politica. In He Runs, She Runs: Why Gender Stereotypes Do Not Harm Women Candidates, Deborah Jordan Brooks, professore al Dartmouth College, mostra che questi stereotipi non intaccano le donne americane quando si propongono quali candidate. Rimane però il fatto che alla Casa Bianca non si è ancora visto un presidente donna – benché Obama venga giudicato molto poco cowboy.
A mio avviso, il punto però rimane non solo quello della vittoria e della sconfitta di un genere su un altro, ma piuttosto e purtroppo quello della vittoria di una certa psicopatologia di un genere sull’altro. Vorrei contare e sperare invece sulle competenze, suggerendo così di guardare meno alle caratteristiche stereotipate del maschio/uomo e a quelle della femmina/donna, nel senso che le competenze dovrebbero prevalere sull’appartenenza di genere.
La vera e reale sconfitta dell’umanità permane però in troppe violenze perpetuate contro le donne, donne ancora poco consapevoli del dominio che talune mentalità riescono a imporre su di loro. Così, a molte donne consiglierei una classica lettura, ovvero Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile di John Staurt Mill e Harriet Taylor (Einaudi), perché, quando si dà eguaglianza, la violenza non viene contemplata, mentre gli uomini non possono concedersi di odiare le donne.
www.niclavassallo.net

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Francesco Duina, Winning, Princeton University Press, Princeton, pagg. 256, $ 24,95.
Deborah Jordan Brooks, He Runs, She Runs: Why Gender Stereotypes Do Not Harm Women Candidates, Princeton University Press, Princeton, pagg. 240, $ 26,95

Nicla Vassallo, Domenica – Il Sole 24 Ore 7/12/2014