Federico Geremicca, La Stampa 7/12/2014, 7 dicembre 2014
L’ANNO DI RENZI CHE SCONVOLSE LA SINISTRA
Qualche immagine che resterà nella storia, come il volto livido di Enrico Letta a Palazzo Chigi al momento dello scambio delle consegne. Due o tre cifre destinate agli annali: 80, come gli euro arrivati nelle buste paga di milioni di italiani.
O quel 40,8 alle elezioni europee, vetta mai raggiunta da un partito della sinistra italiana. E prima e dopo, record frantumati, innovazioni linguistiche e di stile, polemiche feroci e un interrogativo tutt’ora irrisolto, che data alla sera - era l’8 dicembre 2013 - in cui Matteo Renzi conquistò la segreteria del Pd: «Questa non è la fine della sinistra - assicurò - è la fine di un gruppo dirigente della sinistra».
Dodici mesi dopo il suo avvento alla guida del partito erede di quelli di Moro e Berlinguer, lo stereotipato «un anno vissuto pericolosamente» è troppo poco - è niente, anzi - per sintetizzare il senso di una leadership che ha frantumato usi e costumi non solo della sinistra ma dell’intero sistema politico italiano. Verso quella leadership è ora in atto - in aree non limitate del vecchio gruppo dirigente Pd e forse dell’elettorato - una sorta di rigetto sempre più evidente: gli sconfitti si sono riorganizzati, passando dalla resistenza al contrattacco. La battaglia è ripresa e l’esito è incerto. Ma questo riguarda l’imperscrutabile futuro: non quel che finora è stato.
E quel che finora è stato era largamente annunciato - a chi avesse voluto crederci - fin dal discorso della vittoria alle primarie per la guida del Pd (67,5% contro Cuperlo e Civati, quasi un milione e 900 mila voti: altri due record). Firenze, teatro Obihall, serata fredda, Renzi con giacca, cravatta e qualche chilo di meno: «Il meglio deve ancora venire». Tratteggiò le linee di quel meglio, un programma confusamente «rivoluzionario», ma chiarissimo negli obiettivi da perseguire. Per esempio, merito invece che uguaglianza, a capovolgere certe gerarchie etico-programmatiche del «vecchio Pd».
Ne discendevano molte cose. La prima la disse subito, anche se ha cominciato a produrre i suoi effetti destabilizzanti solo da un paio di mesi in qua: «In un Paese civile non può bastare l’iscrizione al sindacato per far carriera». Era l’esordio - da capo di partito ma non ancora di governo - di quella sorta di originalissimo «populismo democratico» che (secondo i nemici) sarebbe la cifra della sua arrembante azione politica: un alieno, dunque - un elefante - nel salotto buono della più austera tradizione politica italiana.
Era solo l’inizio, ma molti finsero o preferirono non capire. Da Palazzo Chigi, Enrico Letta commentò l’avvento dell’«amico» Renzi così: «Lavoreremo con spirito di squadra». Quaranta giorni ed ecco l’hastag assassino: enricostaisereno. Pochi giorni dopo, 25 minuti di relazione alla direzione Pd per affondarlo: «Bisogna aprire una fase nuova». Governo, avversari, bon ton e regole consolidate travolti senza trovare resistenza: il tempo del «grande cambiamento» era, evidentemente, ormai maturo.
Da quel momento, il doppio incarico di segretario e premier rende più complesso il bilancio e il racconto del lavoro di Renzi, ma moltiplica potenza ed effetti della sua azione. Affidiamoci ad alcuni fermo immagine: il governo più snello della storia repubblicana per il premier più giovane di sempre; donne ovunque, ai ministeri, nelle aziende di Stato, alla guida delle liste per le europee; Berlusconi che sale le scale del Nazareno e poi quelle di Palazzo Chigi; tetti agli stipendi dei manager e autoblù vendute on line; «riformissime» (Senato, Pubblica amministrazione, fisco, Italicum) annunciate e faticosamente avviate. E l’esplosione alle europee del maggio scorso: 40,8%, record e primo partito di sinistra in Europa. Matteo Renzi diventa un’icona, un modello, e viene imitato a Parigi, a Madrid e in altre capitali europee.
E’ proprio al massimo del suo fulgore, però - e forse non a caso - che nel mondo della sinistra italiana comincia la fase dell’inevitabile rigetto. «Questa non è la fine della sinistra...», aveva promesso all’atto dell’elezione: molti, invece, sono sicuri che sia proprio così. Renzi, di fatto, sequestra il Pd, imponendogli una rotta che non è mai stata la sua; e col sindacato (Cgil e Fiom in particolare) non usa perifrasi: «Non tratto con loro le scelte di governo, e non accetto veti». Quella che divampa nei quartieri del vecchio centrosinistra è una vera e propria guerra civile, che sfocerà - tra qualche giorno - nel primo sciopero generale contro un governo di centrosinistra guidato dal leader del maggior partito di sinistra.
Dodici mesi di innovazioni, speranze, scontri e «populismi». E ora, d’improvviso, il passaggio che potrebbe trasformarsi in una Caporetto: la scelta del nuovo Capo dello Stato, vicolo strettissimo nel quale rischia la decomposizione la composita e interessata maggioranza che ha fatto fino ad ora di Renzi il «padrone» del Pd. Il pericolo è grande, e il giovane segretario-premier lo sa. Potrebbe andar bene, e allora il suo cammino si farebbe inarrestabile; ma potrebbe anche andar male, e l’epilogo sarebbe - in nome delle sue diaboliche capacità mediatiche - quel «fallimento di grande successo» che alcuni pronosticano da sempre.
Si vedrà. Per ora Renzi brinda, incrocia le dita e si augura - come un festeggiato qualunque - cento di questi giorni. Magari, ad esser onesti, non tutti proprio così...
Federico Geremicca, La Stampa 7/12/2014