Chiara Daina, il Fatto Quotidiano 8/12/2014, 8 dicembre 2014
QUELLE DONNE DISCRIMINATE ANCHE NEL CUORE
Sono di più le donne che muoiono per un attacco cardiaco di quelle stroncate dal tumore al seno. Il rapporto, secondo l’American heart association, è di uno a sei. Chi l’avrebbe mai detto. Non solo. In età fertile il rischio nelle femmine di essere colpite da infarto è più alto del quattro per cento di quello dei maschi.
Una differenza che si mantiene sotto i 65 anni. Poi è l’uomo a pagarne maggiormente le conseguenze. Un bilancio contro le aspettative, che coglie impreparate le pazienti, ma anche molti cardiologi. Il motivo? Un pregiudizio di genere che ha influenzato studi, ricerche e manuali di medicina. “Si crede che le donne fino alla menopausa siano protette dagli ormoni e grazie al ciclo mestruale abbiano un sangue più fluido. Ma è un errore” spiega Carmelo Cernigliaro, primario emerito di cardiologia a Novara, il primo in Italia ad aver sperimentato negli anni Ottanta il trattamento dell’infarto attraverso l’apertura delle coronarie occluse. Così i sintomi presi come riferimento per un attacco di cuore sono sempre stati quelli che si manifestano esclusivamente negli uomini: un dolore costrittivo al torace che può estendersi al collo, alle braccia e al dorso, e un senso di oppressione allo stomaco.
TEST SUGLI UOMINI
“I farmaci vengono testati sul 70 per cento degli uomini e appena il 30 per cento delle donne – sottolinea il medico – Ma queste non rispondono alle stesse stimolazioni perché i loro recettori sono diversi, hanno le coronarie più piccole e strette e la microcircolazione è meno efficiente. Per questo sono più predisposte alle malattie del muscolo cardiaco”. La diagnosi quindi non vale per entrambi i sessi. La difficoltà sta nel fatto che nelle donne i segnali sono più vaghi, spesso scambiati per un disturbo d’ansia, un po’ di stress emotivo, niente di più. Arrivano al pronto soccorso con respiro affannoso, un senso di malessere generale, sudorazione, diarrea, nausea e vertigini. Il quadro clinico è sottovalutato e di solito vengono rispedite a casa con un consiglio: “Si faccia vedere da un neurologo e poi da uno psicologo”. E rassicurazioni. “Non si preoccupi, è solo stanchezza”. Un articolo del 26 settembre sul New York Times affrontava la questione. “Nel 1996 un’indagine nazionale – si legge – dimostra che i due terzi dei medici ignorano le differenze di genere nei sintomi dell’infarto”. Solo nel 2001 l’Istituto di medicina degli Stati Uniti ha analizzato una serie di dati che hanno portato alla luce pregiudizi di genere in tutti i settori della ricerca medica. Nel tentativo di correre ai ripari “il National institutes of helath ha annunciato che destinerà 10,1 milioni di dollari a fondo perduto agli scienziati per includere più donne nei test clinici” e ottenere più informazioni. Oltreoceano lo chiamano “Hollywood heart attack”, l’infarto negli uomini, una scena forti, drammatica, quasi teatrale, ma vera. Nelle donne nulla di simile.
Anche da noi i numeri non devono più stupire. Il 3 dicembre è uscita l’ultima indagine Istat sulle principali cause di morte nel nostro Paese. L’anno di riferimento è il 2012. Nelle femmine le prime due sono le malattie cerebrovascolari (37.304 casi contro i 23.951 maschili) e le malattie ischemiche del cuore (37.140; sono 600 in più quelli registrati nell’altro sesso). Seguono i decessi per altre malattie al cuore (28.050; 20.334 negli uomini), per i disturbi ipertensivi (20.367), demenza e Alzheimer (18.226) e solo al settimo posto ci sono le morti per un tumore maligno alle mammelle (12.004). In America l’impatto è ancora più forte. Secondo una ricerca del National Center for Health Statistics (NCHS) del 2009, la mortalità femminile è dovuta in primo luogo a malattie cardiovascolari: 401mila casi, circa 20mila in più di quelli registrati negli uomini. Al secondo posto quella per il cancro (270mila casi).
L’ELETTROCARDIOGRAMMA SOLTANTO AI MASCHI
C’è un altro problema per le donne. Riguarda l’accesso alle cure. “Una signora che accusa una sindrome coronarica acuta viene trattata più timidamente, con meno tempestività, se poi è anziana si preferisce non intervenire – lamenta Cernigliaro -. La paura è che muoia sotto i ferri. Ma l’età anagrafica – aggiunge – non deve costituire un ostacolo alle terapie più adeguate”. I numeri, ancora una volta, ne sono la prova.
Solo al 29 per cento delle pazienti viene effettuato un elettrocardiogramma entro dieci minuti, un tempo vitale, contro il 38 per cento degli uomini. “Il resto viene fatto in ritardo” dice il medico. Anche l’intervento di angioplastica (cioè la dilatazione della coronaria mediante un impianto di stent, una specie di spirale) viene eseguito entro i 90 minuti neanche nella metà dei casi (il 48 per cento; il 66 negli uomini). Lo rivela uno studio del Canadian medical association journal (Cmaj), una delle più importanti riviste scientifiche a livello internazionale, pubblicato il 17 marzo scorso. Oltre dieci anni fa una ricerca dell’Ospedale di Novara portò agli stessi risultati. “Dal 1996 al 2001 abbiamo analizzato 986 pazienti – va nel dettaglio Cernigliaro -. Di queste la metà è stata sottoposta a un’angioplastica in tempo utile, cioè entro 24 ore, ancora meglio 90 minuti, perché non ci sia una necrosi ischemica del miocardio; sottovalutati i sintomi delle altre, alle quali è stata prescritta una terapia standard con farmaci antiaggreganti, per ridurre il rischio di trombosi, quelli per abbassare il colesterolo e non affaticare il cuore”. Conclusione: “Le morti si concentrano nelle donne che non hanno fatto l’angioplastica in tempo”. Cosa serve allora? “Di sicuro più informazione, cure più incisive, non per spaventare, ma per aumentare la sopravvivenza. Le donne cardiopatiche in genere tendono a interrompere le cure a causa degli effetti collaterali dei medicinali, come mal di testa e gonfiore alle gambe. Il medico dovrebbe impedirlo e tenerle monitorate. I sintomi – ripete il cardiologo più soft ma non sono meno gravi di quelli di un uomo”.
COME RIDURRE I RISCHI
I fattori di rischio sono il fumo delle sigarette, ovviamente, la familiarità (se altri parenti soffrono o hanno sofferto in passato di problemi al cuore), valori alti del colesterolo, sovrappeso, iperglicemia. “In presenza di queste caratteristiche , alla prima comparsa dei sintomi – suggerisce il medico - prendere un’aspirina e correre al pronto soccorso può salvare la vita”. La prevenzione si fa con una dieta alimentare variegata e sana, riduzione del sale a tavola, e movimento. Basta una passeggiata, andare a fare la spesa a piedi, usare le scale al posto dell’ascensore.
Chiara Daina, il Fatto Quotidiano 8/12/2014