Filippo La Porta, Il Messaggero 7/12/2014, 7 dicembre 2014
SE LA TRADUZIONE È FALSO D’AUTORE
Sapete cos’è il “doppiaggese”, e come si riconosce? Se leggendo un romanzo americano (tradotto) vi imbattete in frasi abbastanza improbabili nella nostra lingua come «Qual è il tuo nome?» o «Posso volare» avrete la certezza che si tratta di calchi dall’inglese, mentre si doveva dire «Come ti chiami?» e «So volare». Il “doppiaggese” (o “tradese”) è una lingua italiana troppo appiattita sulla lingua da cui si traduce, ed è usata nelle traduzioni per il doppiaggio. Un’altra spia è il tormentone “fottuto”(o ”fottutissimo”) per “fuck”, che ormai ha contagiato anche la fiction tv italiana, anche se nessuno verosimilmente in Italia usa questa parola! Altra cosa è il “traduttese”, una lingua troppo pulita e asettica, legata a regole desuete di eleganza stilistica. Ad es. nel traduttese c’è una vera e propria fobia per la ripetizione di una parola, anche quando voluta dall’autore: non si ripete mai due volte la parola “disse” o “andò”(nel primo caso “sostenne”, “dichiarò”, “replicò”…, nel secondo “si recò”, “si diresse”, “raggiunse”). Inoltre il traduttese, corretto ma insapore, disdegna, chissà perché, elementi molto creativi della nostra lingua quali i “morfemi”, quei pezzetti di parole che le modificano, come diminutivi e accrescimenti(“casine” “manone”, “occhietti”…), o superlativi(in un testo tradotto non si trova «case bellissime» ma «case molto belle»).
Queste informazioni le desumiamo da un delizioso libretto, Falsi d’autore. Guida pratica per orientarsi nel mondo dei libri tradotti (Quodlibet) di Daniele Petruccioli, che vale quanto un trattato completo sulla traduzione. Dopo una parte iniziale in cui prevale il (giusto) lamento e la protesta - il nome del traduttore spesso viene omesso o confinato nelle ultime pagine (nel colophon), violando un decreto regio del 1942, il traduttore è considerato sempre come un dilettante, e sottopagato, etc. - si passa a quella che è l’idea centrale dell’autore: la traduzione come falso d’autore. In che senso? È vano cercare errori in una traduzione perché questa non è una «trasposizione di codice neutra» ma anzitutto interpretazione, esecuzione di un originale. Ogni traduzione è “autoriale”. Casomai dovremmo chiederci se è coerente.
COERENZA
Se ad esempio leggiamo «Quel giorno John recandosi a scuola era troppo scazzato» non è coerente, e come minimo c’è stato un conflitto tra traduttore e revisore. Il lettore dovrebbe poter disporre del maggior numero di traduzioni di un testo, specie classico. Il che ci permette di superare il dualismo crociano tra belle e infedeli e brutte e fedeli. Una traduzione può anche essere parecchio infedele, magari per venire incontro al lettore attuale, al gusto medio, etc. ma ciò deve essere dichiarato esplicitamente (oltre che spiegato) dal traduttore. Quanto al lettore, potrà scegliere liberamente se leggersi quella traduzione o le altre disponibili sul mercato. L’utopia di Petruccioli è quella di un libertinismo della traduzione: per ogni libro originale dovrebbero essercene mille e tre - di traduzioni -, come la celebre lista delle conquiste di don Giovanni. Ho una unica obiezione. Va bene concepire il tradurre come esecuzione musicale, ma dovremmo pensare più alla musica classica (dove c’è comunque l’obbligo di seguire uno spartito) che al jazz (dove prevale l’improvvisazione), insomma più a Richter, Arrau e Pollini - interpreti di Chopin - che a Charlie Parker e Chet Baker.