Sergio Romano, Corriere della Sera 8/12/2014, 8 dicembre 2014
IL MONDO IN PIAZZA STATI UNITI E HONG KONG
A proposito della sua risposta sulle manifestazioni quasi sempre violente nelle periferie delle città, a me sembra che queste siano in costante aumento. Penso a quanto accade negli Stati Uniti e a Hong Kong. Non pensa che il malessere della popolazione costretta a vivere ai margini della società sia giustificato?
Angela Caputo
Messina
Cara Signora,
Le due proteste sono alquanto diverse. Le manifestazioni americane sono la prosecuzione di quelle che furono guidate da Martin Luther King negli anni Sessanta del secolo scorso ed ebbero allora effetti importanti. Gli Stati meridionali della Federazione furono costretti a smantellare il regime di apartheid razziale sopravvissuto alla fine della Guerra di secessione. Fu facilitato l’ingresso dei giovani afro-americani nei college e nelle università. Nacque una borghesia nera che cominciò a salire lungo la scala sociale e a prendere alloggio nei quartieri residenziali, prima riservati alla borghesia bianca.
Esistono ancora quartieri urbani abitati da una popolazione povera, poco istruita, spesso incline a violare la legge: una sorta di lumpenproletariat, come veniva definito il sotto-proletariato della società tedesca agli inizi del Novecento. Ma esiste anche un richiesta di diritti civili che si manifesta rabbiosamente ogniqualvolta le autorità di polizia e la magistratura trattano gli afro-americani con metodi che sarebbero difficilmente immaginabili per la popolazione di origine europea o asiatica. Anche ora, come negli anni Sessanta, questi ceti sociali possono fortunatamente contare sulla presenza alla Casa Bianca di un presidente (Kennedy e Johnson allora, Obama oggi), sensibile al problema della loro condizione sociale.
I manifestanti di Hong Kong, invece, appartengono al polo opposto dello spettro sociale. Gli abitanti sono più di sette milioni, il loro territorio appartiene alla Cina, ma gode di una larga autonomia, e il reddito medio mensile delle famiglie è di circa 2.150 euro. Sono scesi in piazza perché Pechino vuole che il Chief Executive Officer (erede del governatore d’epoca coloniale) venga scelto fra una rosa di candidati proposti dal governo centrale. Pechino resiste con un certo imbarazzo alle richiese dei manifestanti perché è prigioniera di alcune contraddizioni. Ha bisogno di Hong Kong, divenuto ormai il suo più efficace braccio finanziario nel mondo. Non può ignorare che una piazza finanziaria è tanto più credibile quanto più ha istituzioni liberamente elette e indipendenti. Ma teme che la febbre democratica di Hong Kong contagi la società nazionale cinese mettendo in discussione il precario equilibrio fra le libertà economiche e il sistema politico fortemente autoritario.
Per parecchie settimane Pechino ha sperato che i manifestanti, figli di famiglie piuttosto agiate e politicamente moderate, si stancassero di manifestare. Posso soltanto dirle, cara Signora, che la crisi dell’antica colonia britannica merita di essere seguita attentamente. La Cina del dopo Hong Kong potrebbe essere alquanto diversa da quella degli scorsi anni.