Massimo Sideri, Corriere della Sera 7/12/2014, 7 dicembre 2014
IL SOGNO (O L’ILLUSIONE) DI CANCELLARE LE EMAIL CHE INVIAMO PER ERRORE
Google ha annunciato di volere aggiungere la funzione «cancella le email inviate» nel suo nuovo servizio di posta elettronica, per adesso sperimentale, Inbox. La promessa di una gomma tecnologica ha del miracoloso: potremo lanciare la pietra e nascondere il braccio. Meglio di Matrix.
Forse perché contrapposto per molti versi alla carta — veicolo di trasmissione secolare del sapere — Internet viene ancora percepito come un canale di comunicazione non definitivo, quasi corsaro, dove i messaggi possono essere postati a tempo determinato, gli errori corretti, le posizioni personali cancellate e «trascinate» con il mouse nel cestino. Gli sviluppatori di Inbox (che alla lunga dovrebbe prendere il posto dell’attuale servizio Gmail) hanno spiegato che per riprendersi con una lesta manina digitale il messaggio recapitato nell’email del destinatario, funzione in parte già disponibile anche in Microsoft Outlook e nella stessa Gmail, ma solo in condizioni particolari, bisognerà agire in pochi secondi. D’altra parte non è un caso se Snapchat, una specie di WhatsApp che, quasi fosse un inchiostro simpatico, permette di attivare la distruzione automatica del post appena viene letto, è il più amato dai teenager. In qualche maniera se errare è umano, perseverare sul web non viene considerato «diabolico»: la coscienza, su Internet, si pulisce con un clic.
Ma questa dimensione è ormai illusoria, retaggio della preistoria del web quando era uno spazio per una minoranza di adepti. Basterebbe il caso di Mario Balotelli su cui pende un’accusa di razzismo dalla Federcalcio inglese dopo un infelice post su Instagram, subito cancellato, per dimostrarlo. Il messaggio («Salta come un nero, raccoglie monete come un ebreo» riferito, in un tentativo naufragato di essere ironico, al personaggio dei giochi Super Mario) non esiste più, ma i suoi effetti sì, anzi, sono stati forse moltiplicati dal tentativo di nasconderlo agli occhi degli altri.
Come nel caso dei folli, orribili «like» al post di Cosimo Pagnani che ha ucciso l’ex moglie Maria D’Antonio e, non pago, lo ha scritto su Facebook, la sensazione di poter sfuggire all’ineluttabilità delle proprie affermazioni sembra vincere nella testa delle persone, in un malinteso continuo tra liquidità delle piattaforme digitali e loro peso sociale. La Rete occupa ormai uno spazio troppo importante nella nostra giornata, nel nostro lavoro e nella costruzione della nostra identità e reputazione, per sperare di potergli sfuggire con un bianchetto digitale: lo stesso diritto all’oblio che obbliga Google a cancellare i link riferiti a fatti del passato, si è rivelato il classico buco nell’acqua. Basta andare su Google.com per leggere quello che è stato cancellato da google.it (senza considerare le cosiddette «copie cache», che riproducono le immagini del sito nel passato, e le «wayback machine», siti che archiviano ineluttabilmente tutte le informazioni).
Sarebbe interessante chiedere agli stessi soggetti del like sul post di Pagnani di vergare quelle identiche manifestazioni sulla carta. Probabilmente non lo farebbero mai, come forse tutti noi non saremmo disposti a scrivere sulla fragile cellulosa la maggior parte delle cose che «postiamo» quotidianamente sul web. Ma «postare», oggi, è più che scrivere: se è vero che Internet e tutte le sue declinazioni, social network in primis, sono ormai il luogo del continuo dibattito delle persone è ora che ci rendiamo conto che un post, anche quando non è un diamante, è per sempre.