Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 07 Domenica calendario

INTERVISTA A QUESTI

Il Giornale, 7 dicembre 2014

Questa intervista, raccolta una settimana fa a Torino, è l’ultima concessa dal regista Giulio Questi, morto mercoledì a Roma. Rimane scritta come se egli fosse in vita.
È accidentata la via che conduce alla fama. Ne sa qualcosa Giulio Questi, regista, sceneggiatore, documentarista, attore e scrittore che va per i 91 anni. Un suo trisavolo, Bepi, raggiunse la notorietà senza volerlo con un processo per vilipendio di cadavere. Viveva con la moglie e un paio di mucche in una baita in Alta Valle Imagna, nel Bergamasco. Un inverno lei morì di polmonite. Impossibile portarla giù in paese: il sentiero era scomparso sotto la neve. Così l’uomo sistemò la salma irrigidita nella legnaia, in piedi, affinché occupasse meno spazio. Quando la sera dopo andò a prendere i ceppi da ardere nel camino, non sapeva dove appendere la lampada a petrolio. La defunta, che era rimasta con la bocca spalancata nell’ultimo disperato tentativo di respirare, gli venne amorevolmente in soccorso: il Bepi agganciò la lucerna alla sua mandibola. Appendi oggi, appendi domani, al disgelo di primavera la faccia della poveretta era deformata. Messo alla sbarra, il marito fu assolto dopo due sole udienze, «segno che a quei tempi la giustizia era sensibile alla condizione umana», commenta il pronipote cineasta, che del passato meno remoto ha impresso nella mente il colore blu della pelle di sua nonna, costretta a vivere a letto con il cuore sfiancato da 19 gravidanze.
Invece Questi deve la sua celebrità alla cacca. «Valerio Zurlini mi aveva preso come suo aiuto per girare Le ragazze di San Frediano, dal romanzo di Vasco Pratolini. Mi ero comprato una Lambretta e con quella portavo lo scrittore fiorentino avanti e indrè dalla casa della sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico, a via Paisiello. Un pomeriggio attraversammo il parco di Villa Borghese. I cavalli delle carrozzelle avevano riempito la strada di sterco e le ruote delle auto lo avevano trasformato in una patina viscida. Lo scooter slittò e ci ritrovammo per terra. Pratolini era pallido come un cencio, tutto sporco di merda. Finì all’ospedale. Quando la sera arrivavo al caffè Rosati in piazza del Popolo, dove bighellonava la crème di Roma, tutti si davano di gomito: “Guarda quello stronzo che ha rotto le costole a Pratolini!”. Ero diventato famoso».
A dire il vero, Questi è diventato famoso per alcuni film cult, alcuni dei quali dardeggiati dalla censura e dalle questure, come Nudi per vivere (il giudice ordinò la distruzione del negativo), Se sei vivo spara con Tomas Milian e Marilù Tolo, La morte ha fatto l’uovo con Gina Lollobrigida e Jean-Louis Trintignant, Arcana con Lucia Bosè e Tina Aumont; per documentari di impegno civile, come Donne di servizio e Om ad Po; per sceneggiati e telefilm trasmessi da Rai e Mediaset, come Il segno del comando, Non aprite all’uomo nero e Il commissario Sarti. Solo che, essendo l’esatto contrario dell’intellettuale presuntuoso abituato all’autocelebrazione, non aveva mai raccontato a nessuno chi fosse veramente. Sennonché un bel giorno ha cominciato a confessarsi davanti al registratore di due cari amici, Domenico Monetti e Luca Pallanch, che lavorano al Centro sperimentale di cinematografia. I quali hanno deciso di sbobinare quelle conversazioni, ricavandone un libro, Se non ricordo male (Rubbettino-Csc), in cui, per la prima volta e in prima persona, Questi mette nero su bianco gli avvincenti retroscena della sua vita da irregolare militante.
Si scoprono così lati assolutamente inediti del regista maledetto. Stroncò le poesie di un giovanotto che si chiamava Pier Paolo Pasolini. Bocciò ai provini le esordienti Sophia Loren, che cantava ’O surdato ’nnammurato, e Sylva Koscina, gratificata di un lapidario «ma lei è proprio negata!». Fu poi cacciato dall’ufficio del marito della prima, Carlo Ponti, ma si prese una rivincita a New York dormendo di nascosto per qualche tempo nell’appartamento del produttore e dell’attrice: «Uno dei figli della celebre coppia l’aveva messo a disposizione del mio amico Daniele Senatore, produttore cocainomane, con il quale ho sniffato persino nel bagno della residenza londinese di Richard Burton». Divenne il pupillo di Elio Vittorini. Aiutò Michelangelo Antonioni a realizzare short pubblicitari per Il Giorno e documentari sugli animali che l’osannato regista aveva accettato di girare per sete di denaro ma si vergognava a firmare. Fu attore per caso con Federico Fellini (La dolce vita) e Pietro Germi (Signore & signori). Costrinse Lucia Bosè a ingoiare rane vive sul set di Arcana, «e come si divertiva». Fraternizzò con Gabriel García Márquez, che, suo ospite sull’isola di Baru, in Colombia, gli svelò i segreti della vita privata di Fidel Castro.
Mentre racconta tutte queste cose, Questi si mantiene lucido con il drink preferito: tre dita di whisky, una montagna di ghiaccio, tanta acqua. «Ho imparato da Orson Welles. Nel 1949 lo stava bevendo mentre scriveva un copione sul terrazzo di una locanda di Taormina. Lo consiglio come tonificante verso sera, quando si vuole lavorare ancora per un’oretta. Il whisky è un alcol pulito, non devi digerirlo come il vino. Ti apre subito i vasi capillari e diventi un genio».
Oreste Del Buono la definì «il Polanski orobico, il Buñuel della Val Brembana».
«Sono nato a Bergamo, in effetti. Da bambino lessi con sorpresa il mio nome nelle targhette d’ottone inchiodate sui portali della chiesa di San Bartolomeo e del teatro Donizetti: Giulio Questi. “Tuo nonno”, disse mio padre. Una vena artistica che riscoprii dopo la laurea in lettere e filosofia. Collaboravo con una rivista locale, La Cittadella, sulla quale scrivevano anche Bruno Zevi, Gianandrea Gavazzeni e Aldo Capitini. Nel 1949 organizzammo un convegno di architettura, al quale fu invitato Le Corbusier. Toccò a me fargli conoscere Bergamo. Correva eccitato da una parte all’altra delle strade per cambiare prospettiva, tracciava schizzi, prendeva appunti».
Gli inizi nel cinema furono duri.
«Erano i primi anni Cinquanta, non avevo una lira. Ferruccio Parri mi portava a tavola con la sua famiglia. Siccome ero stato partigiano, mi considerava un figlio disagiato della Resistenza. M’invitava a pranzo anche Vittorio Gassman».
E dove dormiva?
«Una affittacamere mi aveva dato una stanzetta in via delle Carrozze. Una notte sentii bussare alla porta: era Marco Ferreri. “Non posso dormire sulle panchine, fa troppo freddo”, mi disse. Non avevo una coperta da dargli. “Non ti preoccupare, sono attrezzato”, rispose. S’era portato dei giornali, con i quali si foderò il corpo. Non riuscii a chiudere occhio. Quel pupazzone di carta, che frusciava a ogni movimento, mi faceva sentire, nella mia miseria, un privilegiato».
Poi l’incontro con Luchino Visconti.
«Aveva molto apprezzato un mio articolo su La terra trema pubblicato dall’Avanti!. Quando arrivai nella sua magnifica magione sulla via Salaria, stava sbrigando un’incombenza. Ordinò a un giovanotto che gli girava per casa: “Franchino, tieni compagnia al nostro amico finché non mi libero”. Era Zeffirelli. Seguirono minuti di gelo con l’allievo, contrariato. Alla fine Visconti mi disse: “Sto preparando La carrozza d’oro con Anna Magnani, ma ci sono problemi con la produzione. Appena siamo pronti, ti prendo come aiuto regista”. Invece alla fine quel film fu affidato a Jean Renoir».
Mario Gianani, produttore di Vincere di Marco Bellocchio nonché marito del ministro Marianna Madia, mi ha spiegato che oggi la bravura dei cinematografari consiste soprattutto nel tirar su quattrini tra Mibac, Film commission regionali e tax credit delle banche.
«Il cinema è condizionato dalla conformità. Film di rottura che ti facciano sobbalzare sulla poltrona non se ne vedono. Si girano solo per avere i contributi».
Ma a lei i soldi per girare La morte ha fatto l’uovo, storia di polli e di erotismo che già nel 1967 accusava gli allevamenti in batteria, chi li diede?
«Marina Cicogna. Come contropartita, pretese che affidassi la parte a Gina Lollobrigida. Un’attrice in auge dava alla pellicola più mercato».
«Il film, confuso e aggrovigliato, risolve le sue ambizioni in uno sterile e presuntuoso calligrafismo», lo stroncò il Centro cattolico cinematografico.
(Ride). «Be’, ha avuto i suoi nemici. Però dopo mezzo secolo ancora se ne parla. Sul set fui sfregiato da un pollo che mi arpionò la faccia con una zampa».
Nulla rispetto a ciò che accadde alla costumista Marilù Carteny, sua moglie.
«È stata anche la costumista di Queimada e Le mani sulla città. La conobbi mentre giravamo Le ragazze di San Frediano. Se le riprese non fossero durate un anno intero, forse non mi sarei mai sposato. Ci siamo voluti bene. È morta una decina d’anni fa. Due mesi dopo mi sono messo con Diana Donatelli, un’ex assistente sociale. Secondo matrimonio. Gli amici ci tenevano tanto».
Molto edificante. Ma non divaghi.
«Andò così. In Olanda stavo sistemando il cavalletto della macchina da presa. Inavvertitamente piantai una delle tre punte in un piede di Marilù, che lanciò un urlo straziante. In quel momento passava alle sue spalle una nave. Mi venne spontaneo ordinarle: “Cristo, non muoverti! Motore, motore!”.
E filmai i lacrimoni che le sgorgavano dagli occhi. Le medicai la brutta ferita solo alla sera».
Nel suo libro il ritratto del pio Alberto Sordi ad Amburgo è spietato.
«Con Francesco Rosi eravamo sulla Reeperbahn, che pullula di localacci, per I magliari. Sordi voleva trovare una donna, ma non aveva il coraggio di dirlo. A un certo punto chiamò uno della troupe, gli consegnò il portafoglio e si allontanò non prima d’averne tratto le banconote necessarie per il divertimento. Ho in mente questa scena dell’attore tirchio che va a puttane con i soldi contati per non essere derubato».
Ma lei chi è? Un anarcoide?
«In parte. Però nei rapporti umani sono rispettoso. Non mi piace insultare gli altri, devo avere forti ragioni artistiche o letterarie per farlo. Ho persino evitato di qualificarmi come regista: mi avrebbe conferito uno status sociale dal quale mi sono sempre tenuto alla larga per salvaguardare la mia libertà».
Va ancora al cinema?
«Molto meno di un tempo. Sono un po’ sordo. L’apparecchio acustico deforma l’audio e m’incazzo come una bestia. Preferisco guardare i film in Dvd sullo schermo del mio Mac, con le cuffie».
L’ultimo che ha visto?
«Midnight in Paris. Mi ha deliziato. Forse per una consonanza culturale o mentale, cerco di non perdermi mai le opere di Woody Allen, comprese le stronzate. Per me diventano oro colato».
Con il decisivo apporto di Roberto Benigni, To Rome with love m’è sembrato in effetti un’aurea stronzata.
«Ecco, quello non l’ho visto».
Ha chiuso con la cocaina?
«Non l’ho mai comprata o avuta in tasca. Per me era come il whisky. Ne facevo un uso ricreativo, ma solo se me la offrivano. Non sono né un ubriacone né un tossicomane da 5 grammi al giorno, a differenza degli scrittori e dei registi di oggi che ne pippano a chili e si vergognano a dire che aiuta la loro creatività».
Come trascorre le giornate?
«Scrivo, soprattutto racconti. E giro video. Il giorno che il dentista mi ha cavato in un colpo solo gli ultimi 12 denti, ho ceduto a una tentazione consumistica per consolarmi del dolore atroce patito: mi sono comprato una videocamera Canon che da mesi mi strizzava l’occhiolino da una vetrina. Una mattina l’ho accesa, ho guardato nel buco e ho gridato al miracolo: leggeva qualsiasi tipo di luce, con effetti macro da lasciare sbalorditi. Ho cominciato a recitare me stesso per lei. Sono nati Doctor Schizo e Mister Phrenic, e anche la Solipso film, visto che facevo tutto da solo. Ho montato le sequenze al computer: meglio della moviola. Ci ho messo sotto le musiche di Béla Bartók e Arnold Schönberg. Angelo Draicchio, produttore della Ripley’s home video, se n’è innamorato e ci ha fatto due Dvd in cofanetto. L’ha voluto intitolare By Giulio Questi».
Ha ripudiato la celluloide per convertirsi al digitale, da non credere.
«La tecnologia ti spalanca il mondo della fantasia, che prima era appannaggio solo della letteratura. Dà la possibilità di raccontare i sogni, per esempio».
Se potesse tornare indietro, c’è qualcosa che non rifarebbe?
«No, rifarei tutto. Non perché fosse giusto, ma perché era fatale farlo. Io stesso, come persona, appartengo a una fatalità».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Non ci ho mai pensato. È difficile, così, su due piedi... Ci rifletto e le scrivo una mail».
Stefano Lorenzetto

LORENZETTO Stefano. 58 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 58 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.