Antonio Gnoli, la Repubblica 7/12/2014, 7 dicembre 2014
ALFREDO REICHLIN
[Intervista] –
Il mio sguardo è attratto dal tappeto che divide il salotto dallo studio di Alfredo Reichlin. Un Kilim, precisa Roberta Carlotto. La trama evidenzia l’inconfondibile testa di Lenin, il Cremlino, e la tomba mausoleo del grande leader comunista. «Fu un regalo per gli ottant’anni di Alfredo», precisa la Carlotto. È il solo cimelio che noto. Il solo richiamo a una stagione che non c’è più: scomparsa.
Morta e sepolta. Sono andato a trovare Alfredo Reichlin con un sentimento di sparizione. Il vecchio leader, legato prima a Togliatti e poi a Berlinguer, compirà 90 anni tra qualche mese. Ha appena finito di scrivere un pamphlet. Un trattatello denso, duro, acuto. Apparentemente pensato per la sinistra, o ciò che resta di essa; in realtà scritto per raccontare ai più giovani un mondo diventato incomprensibile. Il titolo: Riprendiamoci la vita (edito da Eir).
Come si sente nella parte del vecchio nonno che spiega ai nipoti cosa sta accadendo?
«Come un uomo di un’altra epoca. Inadatto. Non tanto a esprimere giudizi, ma ad azzardare previsioni. Vedo una distanza incolmabile da tutto ciò che un tempo mi fu familiare. Non ho mezzi né energie. E tuttavia, in questo cataclisma, le sole forze cui affidarsi sono le generazioni future».
E la sinistra?
«Ha fallito. La sua crisi rientra nel più generale declino della civiltà europea. È finita l’occidentalizzazione del mondo».
Siamo entrati nel turbo-occidente.
«Senza più valori né punti di riferimento. La potenza economica ha travolto il potere politico. Chi è oggi il sovrano?».
Si è dato una risposta?
«I mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione. Parlo non da esperto, ma da uomo che è vissuto a lungo».
Che bilancio fa della sua vita?
«Un borghese diventato comunista. Mio nonno era un industriale svizzero. In Puglia aprì una fabbrica chimica. Mio padre fece altro. Dopo la Grande Guerra divenne un dannunziano convinto. La casa di Barletta, dove sono nato, piena di cimeli. Di frasi fatte e roboanti: “Ardisco e non ordisco”, la ricordo ancora. Ridicola».
Era l’anticamera del fascismo.
«Per qualche anno mio padre fu podestà di Barletta. Poi preferì dedicarsi alla professione di avvocato e ci trasferimmo a Roma. Avevo cinque anni».
Agli occhi di un bambino cos’era quella Roma?
«Provavo fastidio. Vedevo il contrasto tra quell’Italia, meschina, retorica, piccolo borghese, e le mie origini a contatto con il mondo contadino. Senza diritti né protezione. Gli anni del liceo al Tasso mi aprirono gli occhi. Fu lì, nella mia classe, che conobbi Luigi Pintor. E attraverso lui il fratello Giaime. Di pochi anni più grande. Divenne la nostra guida intellettuale.
Ci fece leggere Rilke, che aveva appena tradotto, Ossi di seppia di Montale e I proscritti di Salomon.
Per la nostra crescita politica ci affidò a Eugenio Colorni. Che poi sarebbe morto tragicamente in un agguato nel 1944».
Qualche mese prima morì Giaime.
«Saltò su una mina tedesca nel dicembre del 1943. Luigi venne a casa mia per darmi la notizia. Smunto, con le labbra contratte, disse: dobbiamo vendicarlo».
Cosa intendeva?
«Voleva dire cambiare la natura del nostro impegno politico. Diventammo gappisti; entrammo in clandestinità. Un uomo misterioso, che poi risultò essere Valentino Gerratana, ci consegnò delle armi. Furono mesi terribili. Consapevole che se fossi stato preso mi avrebbero torturato e poi ucciso. A un certo punto qualcuno del nostro gruppo tradì. A un appuntamento con dei compagni arrivò la Banda Koch. Arrestarono Luigi e pure Franco Calamandrei».
Si scoprì chi aveva tradito?
«Sì, il Cln, con a capo Giorgio Amendola, processò il traditore che nel frattempo si era aggregato alla Banda Koch. La direzione dei Gap decise che fossi io a dargli la caccia e ad eseguire la sentenza di morte. Riuscì a scappare a Milano. E solo dopo seppi che era stato ucciso in uno scontro a fuoco con i partigiani».
Lei partecipò anche all’attentato di via Rasella?
«Non direttamente anche se fummo noi gappisti a organizzarlo».
Cosa sa dell’assassinio di Gentile?
«Ero a Roma. Mi giunse la notizia che i Gap avevano, nei dintorni di Firenze, giustiziato Gentile. È quello che so. In quei giorni fui catturato da un paio di fascisti. Mi trascinarono per la discesa di via Cavour. Pensai è finita. Quando, dal fondo della strada, comparve improvvisamente Arminio Savioli. Un compagno. Puntò la pistola contro i due e sparò. Uno cadde. Mi liberai dell’altro. E cominciammo a correre».
Come ha vissuto in seguito quel clima di violenza?
«Sono storie che non mi piacciono. Ma eravamo in guerra. Bisognava sapere da che parte stare. Quello che venne dopo non fu facile».
Venne la Liberazione.
«Con gli americani a Roma ci fu un’esplosione di gioia. Era bello aver riconquistato la libertà. Ma al tempo stesso Roma mostrava il suo volto peggiore. Le puttane, i borsaioli, i fascisti che ancora resistevano e circolavano. Pensavo: ma per chi abbiamo combattuto e rischiato? Fui preso da una crisi di identità. Non sapevo più chi fossi. Ero disorientato, caddi in depressione».
Come reagì?
«Ero in condizioni penose. Il Partito comunista decise di fare incontrare i gappisti che a Roma avevano lottato per la Resistenza. Eravamo una trentina. Molti di noi non si conoscevano. Ci vedemmo nella casa di uno di loro. Scoprii che tra gli altri c’erano Calamandrei, Salinari, Bentivegna, Carla Capponi. Parlammo a lungo. Ci abbracciammo. Improvvisamente il padre di quello che ci ospitava, un vecchio ferroviere, si sedette al pianoforte. Cominciò a suonare le prime note dell’Internazionale. Era la prima volta che l’ascoltavo. Qualcuno prese a cantare. Fu in quel momento che mi ritrovai».
Fu in quel momento che iniziò la sua storia nel Pci?
«In un certo senso è così. Ero giovane. Togliatti rientrava dopo i lunghi anni passati in Unione Sovietica. Affamato di novità. Mi colpì il rigore, la cortesia, l’intelligenza, la disponibilità verso i più giovani».
Sembra descrivere un professore.
«In un certo senso lo era. Avrebbe potuto esserlo».
E lei tra gli allievi preferiti.
«Diciamo tra coloro che ascoltava con attenzione e piacere. Mi collocò all’ Unità, a stretto contatto con Pietro Ingrao, dove divenni direttore nel 1956».
Quell’anno ci fu l’insurrezione ungherese e l’invasione sovietica. Un anno terribile per il partito.
«Sì, dice bene: terribile».
La posizione troppo filosovietica del Pci indusse molti ad andarsene, a uscire dal partito.
«Ci furono dei casi di coscienza, che rispetto. Altri che uscirono per approdare a lidi politici completamente opposti. Li rispetto un po’ meno».
Lei non ebbe allora la consapevolezza che una frattura si stava consumando e che l’Unione Sovietica non era poi quel mito di libertà che si immaginava?
«A me dell’Unione Sovietica non fregava niente. Togliatti su questo fu chiarissimo: la rivoluzione in Italia non si fa con il mito del socialismo, bensì portando a compimento quella storia italiana che il Risorgimento non riuscì a realizzare».
Mi scusi, ma non è che i compagni del partito fossero tutti così disinteressati alle sorti dell’Urss.
«Il confronto fu aspro, duro, a tratti perfino violento. Non dimentichi che il partito aveva una base di due milioni di iscritti, molti dei quali non avevano rinunciato a quel mito cui alludeva».
Personalmente come visse lo scontro?
«La mia coscienza ne fu lacerata. Ma la scelta chiara: stare con i miei».
Cioè stare con il partito?
«Sì».
A un certo punto il partito la rimosse da direttore dell’ Unità per posizioni troppo vicine a Ingrao.
«Io, Pintor e Vittorio Foa pensavamo che il quadro capitalistico stesse cambiando e che occorressero posizioni politiche più avanzate. Questo creò un problema a Togliatti».
Quanto grande?
«Parecchio. Ingrao non era ben visto da una parte cospicua del partito. Ricordo che Togliatti mi convocò. Mi disse con una sfumatura paterna: “Alfredo, o mi dimetto io o ti dimetti tu”. Mi mandò prima in America Latina e poi mi spedì in Puglia».
Tornava alle sue origini.
«L’esperienza tra i braccianti pugliesi fu fondamentale. Durante la notte con il segretario dei braccianti giravamo paese per paese per controllare i picchetti e farmi conoscere dai contadini. Dopotutto, ero in quel momento il rappresentante di Togliatti».
È vera la storia che il suo nome fu storpiato in quello di un celebre cardinale?
«Accadde durante un comizio con i contadini. Il segretario provinciale introducendomi disse: ed ora diamo la parola al compagno Richelieu!».
Non si sente parte, diciamo così, di una sinistra estetica?
«Cosa vuol dire?».
Una sinistra che pensa e ragiona bene. Che si contorna di belle cose, che dialoga con gli scrittori e gli artisti. Questo intendo.
«Cosa dovrei risponderle? Non eravamo solo noi ad andare verso la cultura, era la cultura attratta da noi».
Siete stati accusati di aver svolto un’egemonia culturale. Imponendo una linea a senso unico.
«Ci siamo difesi. Dovevamo lasciare il campo alla destra becera e incolta o alla Democrazia cristiana? E poi, dico la verità, quale egemonia? Eravamo fuori da tutto: dall’università, dalla televisione. Il nostro punto di forza fu la casa editrice Einaudi. Ma le assicuro che quanto a realismo nessuno superava quel rompicoglioni, lo dico in senso affettuoso, di Giulio Einaudi».
Cosa pensa di Mario Alicata che, oltre a prendere il suo posto alla direzione dell’ Unità, fu uno dei guardiani di quella egemonia?
«Uomo di grande intelligenza. Capacità lavorativa mostruosa. Affetto da un fanatismo politico senza pari. Odiava Ingrao e questo me lo rese inviso. La politica è anche fatta di questo: amori e odi».
A proposito di amori, come fu quello con Luciana Castellina?
«Fu la scoperta della felicità. Luciana era libera da tutto. Una libertà che non avevo mai conosciuto. Furono anni straordinari e molto dolorosa la separazione. Almeno così io la vissi».
Un’altra separazione, immagino anch’essa dolorosa, fu quella da Luigi Pintor quando, insieme ad altri, fu espulso dal Pci. Cosa ha provato?
«Dal punto di vista politico mi sembrava che la loro analisi fosse del tutto sbagliata. Oggi se la raccontano in un altro modo, ma allora pensavano che in Occidente fosse maturo il comunismo. Un abbaglio. Imperdonabile ».
I rapporti con Pintor, con l’amico più caro?
«Quel senso di intimità che per lungo tempo provammo si perse. Per me era sempre stato il punto di riferimento. Scoprii che eravamo diventati diversi».
Quanto diversi?
«Un giorno Gabriele De Rosa mi disse: Luigi ha un problema religioso. Ecco cosa è stato Luigi: un grande moralista. L’ultima vacanza che facemmo assieme fu a San Candido. Erano i giorni di Natale. Colsi, per la prima volta, la profondità del suo radicalismo etico. Improvvisamente capii che eravamo diventate due persone distanti».
Chi la conosce dice: Reichlin è uno che non è mai stato veramente attratto dal potere. Cosa risponde?
«Forse è quel lato estetico al quale alludeva. Forse è il mio enorme limite. Non ho mai avuto niente. Neppure una scorta, una macchina a disposizione».
Avverto una punta di snobismo.
«Mi ritengo un po’ snob. Non so se sia un pregio o un difetto. Quello che so è che la politica la fa chi crede fortemente in se stesso. Su di me ho avuto più di un dubbio. Che ho sciolto con qualche ironia e un certo dilettantismo. Oggi nessuno capisce più niente di ciò che sta accadendo. Il primo che passa, con un po’ di parlantina, prende voti per il potere. Ma è questa l’Italia a cui pensavamo?».
Ha mai più avuto crisi di identità?
«No, dopotutto mi ritengo un uomo fortunato. Ho goduto di alcuni privilegi. Ho una moglie, Roberta, splendida, una vita felice. Due figli che hanno intrapreso una strada che non si interseca con la mia. Ma è la loro e del resto non ho avuto su di essi nessuna influenza».
C’è una virtù che rivendica?
«Quella di ragionare. L’analisi è tutto. Fu una cosa che appresi da Togliatti».
Meglio lui o Berlinguer?
«Due grandi leader. Diversi per tempi differenti».
Sente di essere stato un leader mancato?
«I numeri uno sono rari, come la neve d’estate. Della politica ho amato più l’intelligenza che l’azione. Ho sempre visto la grandezza di un problema, ma non ho mai avuto la forza né la voglia di risolverlo. E per questo oggi ne posso parlare con la libertà di un novantenne».
Antonio Gnoli, la Repubblica 7/12/2014