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 2014  dicembre 07 Domenica calendario

GUIYU LA DISCARICA DIGITALE

GUIYU (CINA)
Piramidi di smartphone, tastiere di computer e tablet occupano le strade e nascondono le case. Un branco di bufali d’acqua rumina in stagni neri da cui affiorano schermi di pc. Televisioni, cuffie e stampanti sono ammassate nelle risaie. L’aria è fetida, la nebbia spessa e arancione. Dopo pochi minuti occhi e narici bruciano. La discarica di immondizia elettronica più grande del mondo assomiglia in modo sorprendente all’idea dell’inferno che può agitare un uomo contemporaneo. Una massa con il volto coperto da luride mascherine guida risciò a motore, carichi di sacchi bianchi da cui pendono cavi, batterie, schede di frigoriferi e dischetti.
Canali per l’irrigazione e scoli straripano di liquami densi e oleosi che incollano le suole alla terra. Il fragore di clacson e ferraglia compressa martella il cervello: scoppi e fumi di roghi plastici escono da distese di capannoni pericolanti. Guiyu è la capitale globale dei rifiuti hi-tech e il disastro che devasta abitanti e natura rivela la faccia nascosta e inconfessabile del business del secolo. Smaltire apparecchi elettronici ed elettrodomestici rende oggi poco meno che produrli: il prezzo da pagare è la vita di essere umani e ambiente. Non è un caso se il mondo ha scelto questo vecchio villaggio del Guangdong, a quattrocento chilometri da Guangzhou, per nascondere il cimitero della rivoluzione digitale. Guiyu, cronicamente sommersa dalle piene, non era l’ideale per l’agricoltura industriale. Trent’anni fa i contadini hanno cominciato a riciclare bottiglie. Poi sono passati alle lattine. Dai primi anni Duemila hanno conquistato il mercato tossico dell’ewaste. «Un’evoluzione naturale — dice lo smantellatore di computer Lai Yun —: è lungo la costa sud della Cina che si concentrano le più importanti multinazionali dell’elettronica. Sono loro le nostre prime clienti. I gadget hi-tech tornano a morire dove sono nati». Recuperare ciò che l’umanità butta via è un’impresa da eroi. La tragedia è che, nel nome del profitto, a Guiyu si sfruttano sistemi incompatibili con la dignità delle persone e con la salvaguardia della natura. Un paradosso: il massimo della tecnologia e del design viene oggi distrutto con il massimo degli espedienti anacronistici, dentro officine orribili. Quello che l’Onu definisce “il luogo più inquinato del pianeta” è oggi una città con duecentomila abitanti. Otto su dieci lavorano nell’e-riciclaggio, monocoltura collettiva: le imprese sono seimila, tutte famigliari. «Quest’anno — dice il segretario del partito, Zhang Chufeng — lavoreremo quasi due tonnellate di immondizie elettroniche, per un giro d’affari di ottocento milioni di dollari». Gli affari vanno a gonfie vele. Fino a cinque anni fa i rifiuti arrivavano in nave da Usa, Europa, Giappone e Corea del Sud. Oggi la stessa Cina è un colosso delle scorie sintetiche. Il mondo nel 2014 produrrà 52 milioni di tonnellate di residui ad alta tecnologia: 8,3 ne- gli Stati Uniti, 6,9 in Cina. Il resto si divide tra Occidente, con il 73 per cento, e Paesi in via di sviluppo, fermi all’11. Lo scenario è però destinato a mutare rapidamente. «La Cina — spiega Li Yangpeng, dell’Accademia delle scienze — sfiora i 650 milioni di cellulari, entro il 2016 sorpasseremo gli Usa anche nella produzione di rifiuti elettronici. Il mercato americano cresce del 13 per cento all’anno, quello cinese del 50 per cento. Entro il 2020 oltre la metà dei rifiuti hi-tech del pianeta sarà prodotta in Cina».
Il business che Guiyu credeva di dominare sta sfuggendo a ogni controllo. Distruggere un miliardo di telefonini all’anno, ottocento milioni di pc e quasi due miliardi di televisioni al plasma, è una bomba a orologeria che può distruggere l’intera regione. Oltre centotrentamila uomini, donne e adolescenti ogni mattina si arrampicano su montagne di macerie elettroniche. Fino alla notte separano, smontano, spaccano con martelli e trapani, sciolgono con gli acidi, bruciano, seppelliscono nei campi e disperdono nel fiume le polveri tossiche. Lavorano a mani nude e senza protezioni. Le case-discariche non sono dotate di filtri né di depuratori. Il clima è di terrore e intimidazione. Qualcuno grida «via chi vuole toglierci il lavoro», altri assicurano che «un po’ di sporco non fa male a nessuno». Nemmeno l’Università di medicina di Shantou, controllata dal governo, osa però negare l’impressionante evidenza. Nel suolo il piombo supera di 212 volte la soglia di rischio. I pozzi sono contaminati fino a tre chilometri di profondità. L’acqua contiene gli stessi residui rilevati a Chernobyl dopo l’esplosione e scoperti nel lago Karachay, dove l’Urss avviò l’arricchimento del plutonio. Tra gli abitanti la percentuale di tumori supera del 64 per cento la media nazionale. Uno studio su 165 bambini da uno a sei anni ha rivelato nel sangue livelli di piombo “pericolosi”, l’80 per cento degli scolari è affetto da disturbi respiratori e al sistema nervoso centrale. «Nonostante tutto questo — dice Ma Jun, direttore dell’ong Institute of Public and Environmental Affairs — Guiyu è oggi il luogo di lavoro più ambito della Cina». I nuovi schiavi dell’era digitale sperano di non essere anche dei condannati a morte. Il loro obbiettivo è fare più soldi possibile nel minor tempo possibile e poi fuggire lontano per sempre. Smantellare cellulari e pc frutta tra i 650 e gli 820 dollari al mese: il quadruplo di quanto potrebbero guadagnare nei villaggi poveri dell’interno, o in una miniera di carbone. Così i riciclatori cinesi dell’ewaste globale sono quasi sempre giovani migranti dalle zone depresse, spesso analfabeti che accettano la sfida a tempo sognando di cambiare vita. Molti, prigionieri dei soldi, si fermano un giorno di troppo. Quattro cimiteri, anche loro assediati da cumuli di carcasse elettroniche, suggeriscono che se in questa città c’è qualcosa di semplice, è morire in fretta. «Il problema — dice l’esperto Leo Chen — non è vivere tra vecchie tv al plasma e smartphone fulminati. È voler fare in modo che l’immondizia si trasformi in oro». Letteralmente. Sono acidi e solventi che consentono di diventare ricchi. Una tonnellata di scorie hi-tech contiene 300 grammi di oro, 10 di platino, 50 di palladio, 2 chili d’argento, 25 di stagno e 130 di rame. Chi non risparmia sulla chimica ricava anche cadmio, berillio, terre rare, acciaio, plastica, vetro. Lo scorso anno il 5 per cento dell’oro cinese, pari a 15 tonnellate, è stato estratto dai rifiuti elettronici, concentrato tra quaranta e ottocento volte di più rispetto ai giacimenti naturali. Il boom sommerso è tale che un piccolo smantellatore di Guiyu può guadagnare oltre quindicimila euro al mese, sei volte più di un alto dirigente pubblico.
Nel Guangdong questa devastante industria sotterranea, impegnata a rivendere i componenti pregiati agli stessi produttori di gadget ad alta tecnologia, è oggi la prima responsabile della dispersione di metalli pesanti, gas nocivi e liquidi corrosivi. E il disastro non deriva dal riciclaggio, indispensabile proprio per salvare il pianeta, ma dalla sete inesauribile di profitto. «Esistono acidi, solventi e sostanze chimiche — ci dice un operaio che si presenta come Fan — che accelerano lo scioglimento di circuiti e microchip, separando quantità maggiori di elementi costosi. Usarli, consente di ingrandire l’azienda e conquistare clienti tra i grandi marchi mondiali, nessuno escluso. Il resto del reddito si fa bruciando, seppellendo e gettando in mare ciò che non rende». Guiyu è l’eldorado di questa corsa clandestina e ufficialmente illegale. Attorno a Shenzhen, dove opera anche il più grande stabilimento del colosso taiwanese Foxconn, ruota però una galassia di evillaggidiscarica, camuffati da aziende agricole e magazzini. Centinaia di container vengono scaricati ogni giorno dalle navi attraccate al largo, nel Mar cinese meridionale. Ciò che nemmeno i 130mila schiavi e sfruttatori della “capitale” riescono a smaltire, sparisce in un universo criminale ancora più nascosto. Per il governo le imprese della zona autorizzate a trattare rifiuti speciali sono novantuno. «La loro capacità — dice Ma Tianjie, portavoce di Greenpeace — ormai non arriva al 43 per cento e in realtà incide sul 21 per cento dell’immondizia hi-tech. Quattro telefonini e tablet su cinque spariscono nel mercato nero del riciclaggio, dove regna solo la legge del massimo guadagno. È un cataclisma, ma l’affare è tale che la corruzione arriva ai massimi livelli del partito». Guiyu resta così vittima di se stessa. Gli indumenti lavati, stesi ad asciugare tra frigo sventrati e fuochi senza fine, risultano ingialliti, o marrone scuro. Le dita delle donne, usate per aprire gli incastri dei pc, appaiono scarnificate. Ventenni deportati dal Gaungxi, allettati dagli straordinari guadagni, esibiscono il volto malato di un vecchio. Un operaio ci mostra il relitto del penultimo modello di uno smartphone. La vita media di un cellulare è ormai scesa sotto i due anni. La tecnologia è sempre più sofisticata, la concorrenza sempre più spietata, ci dice. Guiyu è il prezzo che il mondo accetta di pagare.
È notte, ma l’ediscarica di lavora a ciclo continuo. In periferia resistono alcune fattorie, nascoste dietro colonne di Tir che riportano nelle fabbriche del Guangdong parti e sostanze riutilizzabili. Gli ultimi contadini rimasti qui coltivano riso che nessuno osa mangiare. «È un concentrato di cadmio — ci dice un uomo di nome Hiu — sulle scatole viene scritto che è stato coltivato nel Sichuan. Noi lo chiamiamo “il riso elettronico”. Finisce lontano. Dove, esattamente, nessuno lo sa».
Giampaolo Visetti, la Repubblica 7/12/2014