Notizie tratte da: Alberto Angela # I tre giorni di Pompei # Rizzoli 2014 # pp. 496, 20 euro., 7 dicembre 2014
Notizie tratte da: Alberto Angela, I tre giorni di Pompei, Rizzoli 2014, pp. 496, 20 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2296945Vedi biblioteca in scheda: mancaSomma All’epoca di Pompei il Vesuvio non esisteva ancora
Notizie tratte da: Alberto Angela, I tre giorni di Pompei, Rizzoli 2014, pp. 496, 20 euro.
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Somma All’epoca di Pompei il Vesuvio non esisteva ancora. A distruggere Pompei, Terzigno, Ercolano, Boscoreale, Oplontis e Stabia è stato un altro vulcano, che si trovava nello stesso punto, ma molto più antico: il Somma. Oggi si vede un’ampia cresta circolare che gira attorno al Vesuvio attuale, abbracciandolo in buona parte. Quell’ampia mezzaluna è ciò che rimane del cratere dell’antico vulcano che c’era prima del Vesuvio. Il suo condotto era ostruito da secoli. Ed è stato proprio lui ad aprirsi improvvisamente uccidendo migliaia di persone a Pompei e tutt’attorno alle sue pendici.
Dimensioni Il Vesuvio che vediamo oggi, s’innalza esattamente al centro dell’antico cratere del Somma. Fu proprio l’eruzione del 79 d.C. a dare inizio alla sua crescita. Ma impiegò secoli a raggiungere le dimensioni attuali. In alcuni affreschi medievali che raffigurano san Gennaro con il Vesuvio alle spalle lo si vede ancora più piccolo del Somma.
Vesuvius I romani non chiamavano l’antico vulcano Somma, come facciamo noi oggi, ma Vesuvius o Vesbius e poi hanno trasferito questo antico nome al nuovo cono. Quindi dovremmo parlare di Vesuvius al tempo di Pompei e di Vesuvio in seguito.
Nascosto I romani, guardando il Vesuvius, vedevano un ampio monte basso e lungo, pianeggiante al centro e con qualche rilievo lungo i margini. A rendere ancora più nascosta la sua vera identità contribuiva la copertura creata da boschi, vigneti e campi coltivati. Era a prima vista identico ai monti circostanti, perfettamente mimetizzato. Per quanto ne sappiamo oggi, le sole zone sprovviste di vegetazione erano la cresta più alta (l’attuale monte Somma con i pendii interni scoscesi e rocciosi punteggiati di spaccature) e un’area centrale, sassosa e priva di vita, evidentemente il tappo che poi esplose. Quest’ultima però non doveva essere molto estesa perché, di solito, sulle superfici vulcaniche spente la vegetazione ricresce velocemente. Ecco perché i romani non si erano accorti di vivere alle pendici di un colossale vulcano.
Studiosi Alcuni studiosi di epoca romana avevano compreso la reale natura del luogo: Strabone, famoso geografo greco morto cinquant’anni prima dell’eruzione, aveva intuito la vera identità di quel rilievo, perché si era accorto che, pur avendo sulle pendici dei fertili campi coltivati, in alto era piatto, arido, con tonalità color cenere e (facendo riferimento probabilmente alle pareti scoscese del Somma) con frequenti caverne e spaccature tappezzate di rocce che sembravano addirittura bruciate. Concluse che in passato in quest’area doveva esserci stato un vulcano che poi si era spento. Anche lo storico Diodoro Siculo era giunto alla stessa conclusione: un secolo prima dell’eruzione che distrusse Pompei, aveva scritto che in passato quel monte eruttava fuoco, esattamente come l’Etna, e che mostrava ancora chiari segni di quell’antica attività.
Crescita Il Vesuvio, nato proprio il giorno dell’eruzione di Pompei, è cresciuto nei secoli in maniera discontinua, con pause, crolli, e piccole ma continue eruzioni poco esplosive che hanno permesso alla lava di colare e di accumularsi creando il cono attuale. Ha conosciuto almeno quattro periodi di grande crescita: si è innalzato tra il I e il III secolo d.C.; dopo un periodo di quiete ha ripreso la sua violenta attività tra il V e l’VIII secolo con una nuova grande eruzione detta di Pollena (472), le cui ceneri sono giunte fino a Costantinopoli, che ha risommerso l’area vesuviana seppellendo ciò che era rinato attorno a Pompei; la sua attività è quindi ripresa tra il X e il XII secolo; infine, l’ultimo periodo di intensa attività è iniziato con la famosa eruzione del 1631, per concludersi nel 1944 quando è entrato in un silenzio che dura ancora oggi.
Vele La vela triangolare, in grado di trasformare il vento che soffia da un lato (di bolina) in una forza propulsiva per la nave, si diffonderà solo nel Medioevo. A causa del limite imposto dalle vele quadre, le navi romane non possono muoversi se il vento non è favorevole. E questo provocherà la morte di tante persone durante l’eruzione, intrappolate nei porti di Pompei e Stabia.
Popolazione La popolazione che oggi vive nell’area vesuviana supera di molto il mezzo milione di abitanti. Ai tempi di Pompei, consisteva al massimo di qualche decina di migliaia di persone.
Speculatum cubiculum I romani sapevano produrre vetri e specchi di bronzo. Secondo Svetonio il poeta Orazio avrebbe fatto costruire, come tanti altri amanti di questa pratica, uno speculatum cubiculum, cioé una stanza tappezzata di specchi per i suoi giochi erotici.
Tintarella Le romane non si abbronzavano. La tintarella, al contrario di oggi, era disdicevole: una pelle abbronzata significava lavoro all’aperto, tipico delle classi umili. Una donna aristocratica doveva avere la pelle candida, segno di una vita agiata passata in casa.
Ombrello L’ombrello esisteva già in antichità, ma era di tessuto e lo si utilizzava per proteggersi dal sole, non dalla pioggia. La parola ombrello dal latino umbra, cioè ombra.
Statue Un antico romano rimarrebbe inorridito se vedesse una nostra statua di bronzo al centro delle piazze: noi infatti le lasciamo ossidare, e diventano verdi, con colature verdastre sui basamenti di marmo. Nell’antichità ciò non accadeva mai: le statue venivano pulite, lustrate e ricoperte con uno strato protettivo di olio. Era una delle mansioni degli schiavi in ogni villa.
Cappe Le cappe erano l’indumento più diffuso per difendersi dal freddo. Tenute ferme con una spilla di bronzo, potevano, all’occorrenza, trasformarsi in coperte, soprattutto per chi viaggia o per i legionari.
Un sesterzio Secondo molti studiosi ai tempi di Pompei un sesterzio aveva valore d’acquisto di circa 6 euro attuali, che però non é rimasto fisso. Anche le monete romane infatti erano soggette a fluttuazioni: appena quarant’anni dopo, sotto Traiano, era sceso di circa due euro, per via di una svalutazione dovuta alla conquista di immense fortune e miniere d’oro della Dacia.
Tesoro Il più grande tesoro è stato rinvenuto in una villa rustica a Oplontis accanto a quello che i ricercatori ritengono sia lo scheletro di Lucio Crassio Terzo, un liberto che aveva fatto fortuna: ben 10.952 sesterzi. Questa somma era divisa in due parti: una prima in una cassettina di legno dove si trovava l’equivalente di 2204 sesterzi, una seconda parte all’interno di una borsa che l’uomo stringeva contro il torace e che si è dissolta per il calore dell’eruzione: ottantasei monete d’oro e trentasette d’argento per un totale di 8748 sesterzi d’oro e trentasette d’argento per un totale di 8748 sesterzi.
Indirizzi In epoca romana non esistono targhe con i nomi delle vie e sui portoni non ci sono numeri. Come fanno a orientarsi i postini (tabellarii) nel recapitare le lettere? E in che modo si fa a trovare la casa di un amico? Un indizio Ë rimasto. Su un muro di Pompei un uomo ha scritto l’indirizzo della bellissima attrice Novella Primigenia: ´A Nocera, nelle vicinanze di Porta Romana, nel rione di Venere, chiedi di Novella Primigeniaª. Ecco svelato il sistema: 1) nome della citt·; 2) lato della citt· (porta) o vicinanza a un riferimento noto (edificio); 3) quartiere; 4) indicazioni degli abitanti di quelle vie.
Pane 1 Il pane ha una forma circolare, sembra una piccola torta del diametro di quindici centimetri, con otto profondi tagli a stella che formano altrettanti spicchi. In pratica, sono le porzioni già pronte. A volte si vede impresso, con un sigillo, il nome dello schiavo che ha cotto il pane e del suo padrone, il fornaio. A Ercolano, per esempio, su una pagnotta ritrovata intatta dopo quasi duemila anni si legge ancora: «Realizzato da Celer, schiavo di Quintus Granius Verus».
Pane 2 Il pane dei romani appena sfornato era leggermente diverso da quello che consumiamo noi oggi perché era spesso (ma non sempre) speziato. Aveva però una caratteristica comune ai nostri: una superficie leggermente croccante. Questo grazie a un piccolo trucco usato dai fornai. Accanto al forno c’erano sempre due recipienti d’acqua. Uno per raffreddare gli attrezzi di lavoro. L’altro per spruzzarne un po’ sulle forme di pane a metà cottura così che la superficie tendesse a dorarsi e a indurirsi. Un’altra caratteristica del pane nell’antichità (e in altre epoche), anche se non percettibile a ogni morso, è che le macine di pietra usate per sminuzzare il grano rilasciavano microscopici frammenti che, a lungo andare, finivano per limare e consumare i denti. A Pompei questo non accadeva perché la pietra vulcanica porosa scelta per le macine era così dura che non rilasciava pezzettini, salvando la dentatura dei suoi abitanti.
Pane 3 Il pane a Pompei era un cibo fondamentale, soprattutto per i poveri. Secondo alcune stime, nel mondo romano costituiva l’ottanta per cento della dieta nelle classi più basse. In periodi elettorali o di carestia avvenivano distribuzioni gratuite di pane.
Pane 4 I romani potevano contare su almeno dieci diversi tipi di pane ed esistevano anche già dei biscotti per i cani. C’era il cosiddetto pane bianco, per ricchi (fatto con la farina più pura), e il pane nero, per gli schiavi e i poveri, che conteneva gli scarti rimasti nel setaccio. È quello che oggi chiamiamo pane integrale, al tempo dei romani visto come un cibo di bassissima qualità: lo si definiva pane di “ultima farina”. Esistevano diversi tipi di pane a seconda degli ingredienti, come il pane d’orzo o quello di miglio. Sui banconi dei fornai c’erano anche piccoli pani di mosto molto saporiti o il pane di Picenum che andava intinto nel latte. Alcuni fornai, grazie a piccoli forni in terracotta, vendevano il pane clibanicus, una specie di pan brioche di epoca romana. Alcuni fornai, poi, prima di mettere le forme di pane nel forno, vi spennellavano sopra la chiara d’uovo e vi incollavano grani di sedano, oppure di anice.
Panifici 1 A Pompei c’erano trentacinque panifici.
Panifici 2 Solo la metà dei forni di Pompei (una quindicina) hanno una chiara area interna per la vendita diretta al pubblico, così da poter essere definite vere e proprie panetterie. Gli altri forni, invece, producono del pane all’ingrosso, che poi consegnano direttamente ai bar (popinae), alle trattorie e alle locande (cauponae) e alle case dei ricchi. Oppure lo distribuiscono ai tanti venditori ambulanti che si vedono in giro soprattutto all’ora di pranzo.
Modesto All’interno della panetteria del fornaio Modesto, in via degli Augustali, gli archeologi hanno trovato dentro al forno ottantuno forme di pane intatte, anche se carbonizzate.
Pasticcieri I pasticcieri di Pompei (cupedinarii) realizzavano dolci molto richiesti duemila anni fa, come quelli di frumento farciti con uva e noci, oppure gli adipata, pasticci o dolci ripieni di grasso, o i Priapi al pan di spezie.
Ricetta Ricetta tramandata da Marco Gavio Apicio, ricchissimo romano, appassionato di cucina: «Prendete dei piccoli pani africani al mosto, raschiate la crosta e immergeteli nel latte. Una volta ben imbibiti metteteli in un forno a fuoco basso perché non secchino. Tirateli fuori e versateci del miele, avendo cura di forarli con una punta perché il miele penetri all’interno. Spolverateli con del pepe e poi serviteli».
Mutande I romani portavano le mutande. Per gli uomini si trattava di un semplice perizoma da mettere sotto la tunica, le donne indossavano mutandine in pelle morbidissima basse e finemente lavorate, con un ricamo a maglie larghe dal disegno molto elaborato. Non esistendo ancora gli elastici, le mutandine si stringevano con due lacci ai fianchi.
Reggiseno Come reggiseno le donne indossavano lo strophium, una fascia morbidissima simile a un nastro (di solito in tessuto o in pelle) che aveva lo scopo di schiacciare e tirare su i seni, in modo da farli apparire alti, sodi e prosperosi.
Tacchi I tacchi alti in epoca romana non esistono.
Trucco Come si truccavano le nobildonne romane. Le ancelle passavano una crema a base di miele e biacca, una polvere bianchissima che si forma sulle superfici di piombo e dà al viso una tinta candida. Sulle gote spolveravano poi un po’ di polvere di ematite per dare un tocco vivace al volto. Poi si passava agli occhi. Come ombretto si usava della cenere mista a pigmenti. Il contorno degli occhi veniva realizzato con un impasto nerastro a base, a seconda dei casi, di nero di seppia, manganese, noccioli di datteri bruciati o formiche abbrustolite. Si incurvavano poi le ciglia con speciali strumenti e per accentuare la linea delle sopracciglia si utilizzava un bastoncino di carbone.
Capelli Con pettini finissimi in avorio le ancelle distendono i capelli della nobildonna per poi fare delle trecce che vengono attorcigliate dietro la testa come serpenti arrotolati. Delle extension vengono aggiunte per dare volume all’acconciatura tipica di questo periodo. Poi con dei ferri riscaldati (calamistra) le ancelle creano dei boccoli ai lati delle tempie e, a conclusione di questa lunga operazione, inseriscono una finissima intelaiatura ad arco ricoperta con una cascata di riccioli veri. Alcune di queste acconciature possono raggiungere le dimensioni e la forma di una mitra papale.
Rossetto Le romane per le labbra prediligevano il rosso. L’ocra e l’ematite erano possibili fonti di questo colore. Ma le donne più ricche amavano permettersi una varietà molto più brillante e costosa di rossetto, a base di cinabro (solfuro di mercurio). Era il cosiddetto minium, da cui deriva la parola miniatura, per via del suo uso nelle piccole e complesse figure (o lettere) dipinte dai monaci nei manoscritti medievali.
Deodorante L’antenato dei deodoranti per ascelle, ottenuto attraverso la lavorazione del fieno cotto.
Ettari Pompei copre meno di sessantaquattro ettari. Che aumentano a sessantasei se aggiungiamo tutte le aree immediatamente esterne usate dai pompeiani, come i cimiteri, oppure alcune grandi dimore, come la Villa dei Misteri. Non tutto è stato fatto riemergere dagli archeologi. Una ventina di ettari si trovano tutt’ora sepolti dai lapilli, con i loro affreschi, altre possibili ricchezze e altre vittime.
Numeri A Pompei ci sono dieci templi, undici fulloniche, trentaquattro panifici, più di centocinquanta “bar”, thermopolia, cauponae, popinae e molti altri negozi di vario genere, due teatri, un anfiteatro, una grande palestra all’aperto, un Foro, un mercato (macellum). Senza dimenticare i tre chilometri e duecentoventi metri di mura difensive. Il numero di abitanti al tempo dell’eruzione dovrebbero aver oscillato da un minimo di otto a un massimo di diciottomila.
Età media Dati generali sulla popolazione romana indicano che l’età media alla morte era di quarantun anni per l’uomo e ventinove per la donna. Pochissimi superavano i sessanta. Straordinaria, in questo senso, è una stele scoperta nella necropoli di Santa Rosa in Vaticano: porta il nome di un Abascantus morto a novant’anni.
Cause di morte Le cause di morte per l’uomo erano spesso legate ai pericoli di una vita molto più attiva e all’aperto della nostra. Una spiegazione della bassissima età media alla morte delle donne si trova invece nei rischi legati al parto. Si è calcolato che all’epoca uccidevano mille volte più di oggi.
Insulti In epoca romana «schiavo» e «ladro» erano gli insulti più usati.
Letto Il letto dei romani ha un bordo rialzato su tre lati. La rete è costituita da un intreccio di cinghie, il materasso nelle case dei ricchi è spesso di lana. Molti, nelle classi meno agiate, usano il fieno.
Gambe del letto Le gambe del letto hanno una forma frutto di un elaborato lavoro al tornio: ogni gamba, scendendo, si allarga e poi si restringe per poi riallargarsi di nuovo. Sembra una pila in cui si alternano piatti e coppe di champagne.
Coperte di lane Tipiche dei letti romani sono le coperte di lana: hanno sempre delle strisce o delle bande colorate (rosso, verde e/o azzurro), come si può vedere in tanti affreschi.
Lucubrum I romani spesso fissano sulla testiera del letto un lucignolo di stoppa o cera: il lucubrum, che di sera aiuta a leggere e a pensare. Da esso deriva il nome latino del letto (lectus lucubratorius) e il verbo moderno elucubrare.
Treppiedi Gli antenati dell’abat-jour: si tratta di un treppiedi con un gambo lunghissimo che termina in cima con un piatto su cui poggiare le lucerne. Gli archeologi ne hanno trovato un esemplare straordinario a Ercolano, con la particolarità di avere lo stelo svitabile. Lo si poteva assemblare e smontare in pochi secondi. Probabilmente veniva usato quando si ricevevano ospiti in casa.
Supellectiles Tra le supellectiles, così i romani definivano tutto il materiale d’arredamento, delle case dei ricchi c’erano sicuramente tappeti (una moda proveniente da Oriente), tessuti alle pareti (qualcosa che ricordava nell’uso l’arazzo, mai rinvenuti a Pompei ed Ercolano a causa dell’estrema delicatezza dei materiali), tendaggi, velaria (teli per fare ombra nei luoghi aperti) e quadri appesi alle pareti. Senza dimenticare busti, statue, interi servizi di argenteria (il servizio buono) messi in bella mostra nelle case. E poi vasi antichi. I romani già consideravano “antiquariato” i vasi etruschi, per esempio, o i manufatti egizi.
Casa del Fauno 1 La famosissima Casa del Fauno, la più grande di Pompei, copre tremila metri quadrati. Ha un atrio, una trentina di ambienti di vario uso e dimensione e due peristili.
Casa del Fauno 2 Impossibile descrivere tutte le opere rinvenute. A cominciare dalla statuetta in bronzo del fauno che dà il nome alla casa, posta al centro dell’atrio, per non parlare dei mosaici. Il mosaico che ha reso la dimora così famosa è quello che descrive la vittoria di Alessandro Magno su Dario, nella battaglia di Isso, costituito da circa un milione e mezzo di tessere a volte piccole come un’unghia.
Colori 1 I romani rimarrebbero sgomenti dalla povertà di colori delle nostre case ma anche dei vestiti, dell’arredamento e delle statue. Una statua di marmo per noi deve rimanere bianca. Le loro erano coloratissime, e non usavano colori sobri, ma tinte molto evidenti, appariscenti. Lo stesso accade nelle case. Per loro le superfici bianche non sono sinonimo di luce e pulizia, ma di povertà.
Colori 2 Il porpora si otteneva dai molluschi del genere Murex (Murex brandaris) attraverso una lavorazione complessa e dispendiosa. Bruciando l’avorio, ma per chi non poteva permetterselo bastavano l’osso oppure la resina o la corteccia di pino, si otteneva il nero. Con l’ocra in grumi o in polvere si faceva il giallo, mentre il rosso poteva essere ricavato in molti modi. Lo si otteneva cuocendo l’ocra oppure con l’ematite o il cinabro (solfuro di mercurio). Quest’ultimo era molto costoso e fu usato a profusione nella Casa dei Vettii o nella famosa Villa dei Papiri. Il verde invece si otteneva da rocce contenenti celadonite o glauconite. A meno di potersi permettere della malachite polverizzata. Infine il blu, che era il colore più costoso, soprattutto quello che derivava dalla polverizzazione di azzurrite o lapislazzuli provenienti dall’Afghanistan. Più a buon mercato era il blu egizio, usato già per decorare le tombe dei faraoni e i templi egizi, realizzato con vari ingredienti come la malachite, il natron, ecc.
Cacare bene Apollinare, il medico personale di Tito, curò molte persone a Ercolano come attesta un graffito sulla parete della latrina della Casa della Gemma: «Apollinaris medicus Titi imperatoris hic cacavit bene» (Apollinare, medico personale dell’imperatore Tito, qua defecò gradevolmente).
Casa del Chirurgo La Casa del Chirurgo di Pompei, così chiamata perché vi sono stati rinvenuti decine di strumenti propri della professione medica, una quarantina di essi contenuti in piccoli astucci metallici.
Sesso In quest’epoca, a qualsiasi donna che lavora in un locale pubblico si può domandare una prestazione sessuale. È normale, fa parte dei servizi offerti.
Spose In quest’epoca le ragazze si sposano giovanissime, già a dodici anni (l’età minima prevista per legge). E altrettanto in fretta diventano mamme. Sebbene molti medici, tra i quali Galeno, suggerissero di aspettare i quattordici anni, sono molto frequenti i casi di madri-bambine, anche perché i loro sposi sono molto più anziani di loro, hanno trenta-quarant’anni. A volte le bambine vanno a vivere in casa del futuro marito ancora più giovani, a sette o otto anni di età, come fidanzate, con la “promessa contrattuale” di consumare il matrimonio solo dopo le nozze. Ma spesso questo accordo non viene rispettato, come è emerso da certi atti processuali scoperti dagli studiosi.
Deformazioni artritiche In alcuni scheletri esaminati da due ricercatori, Maciej e Renata Henneberg, emergono patologie e traumi vari, legati spesso a una vita molto più attiva della nostra. Si sono ritrovate delle fratture quasi sempre ben ridotte dai medici di Pompei (riallineando le estremità). È un’epoca in cui si cammina molto più di oggi e non esistono macchinari che alleviano la fatica e la ripetitività delle azioni in casa e sul lavoro: trasportare pesi e usare continuamente arnesi può portare a un’usura molto rapida delle articolazioni di gambe e braccia, e compromettere l’integrità della schiena. I pompeiani quindi, come tutti gli abitanti delle città antiche, soffrono di deformazioni artritiche che colpiscono ginocchia, caviglie, anche, mani, polsi, gomiti, spalle e vertebre.
Saracinesche In tempi antichi non si usano saracinesche ma tavole messe in verticale una accanto all’altra e unite da un lunghissimo chiavistello.
Pene eretto Gli organi sessuali maschili in pietra incorniciati da mattoni che disegnano il profilo di una casa oppure che fuoriescono dal muro, eretti e protesi verso la strada. Questi simboli sono dei portafortuna per l’abitazione o la bottega che li espone. Esattamente come il corno in corallo che molti portano addosso oggi, che non è altro che un pene eretto, fatto modificare in corno di toro durante il Medioevo, quando si giudicava impuro qualsiasi riferimento al piacere della carne. Anche il famoso pene scolpito sul selciato di via dell’Abbondanza a Pompei, descritto abitualmente come una freccia che indica la direzione verso un lupanare, in realtà ha uno scopo apotropaico. E’ probabile infatti che sia stato scolpito per proteggere una bottega dalle invettive di chi era invidioso dei suoi guadagni.
Mendicanti Passeggiando nelle vie di Pompei si incontravano dei mendicanti. S’è capito da un indizio. Al numero 13 dell’insula IX della Regio VII, quasi all’angolo tra via degli Augustali e la via che portava al Foro, c’era il collegio dei profumieri (unguentarii) di Pompei. In un’iscrizione elettorale sul muro si legge che a raccomandare un certo Modestus alla carica di edile ci sono – oltre agli stessi profumieri – anche i poveri (pauperes). È quindi assai probabile che il marciapiede davanti all’associazione dei profumieri – e in generale il tratto di strada tra via degli Augustali e il Foro – sia battuto da mendicanti, che stazionano così frequentemente da essere diventati una presenza abituale per tutti.
Acquedotto A Pompei passa il grande acquedotto del Serino,
che rifornisce i cittadini di acqua corrente. Lungo quasi cento chilometri, con la sua portata di seimila metri cubi al giorno rifornisce anche molti altri centri, tra cui Miseno, Napoli, Pozzuoli, Ercolano, Cuma e Baia.
Acqua 1 A Pompei, prima dell’eruzione, non c’era acqua. Probabile causa: un terremoto avvenuto pochi giorni prima dell’eruzione.
Acqua 2 Le latrine pubbliche e persino gli orinatoi dei circhi dove si svolgono le corse dei carri (per esempio, il Circo Massimo a Roma) hanno sempre l’acqua corrente per evitare ristagni, cattivi odori e l’insorgere di focolai infettivi.
Terremoti 1 Un vero sciame sismico aveva preannunciato l’eruzione. Lo possiamo intuire dal fatto che in tutte le case ci sono riparazioni in corso.
Terremoti 2 Gli studiosi hanno calcolato che nei quarantatré anni prima dell’eruzione (quindi a partire dal 36 d.C.) sono avvenuti non meno di diciassette eventi sismici con magnitudo compresa tra 3 e 5 gradi della scala Richter. C’è quindi un mito da sfatare. All’epoca dell’eruzione del 79 d.C. Pompei non era una città gaudente come si vede nei film o come viene descritta nei romanzi, con banchetti ogni sera, immancabili combattimenti tra gladiatori e ricchi patrizi a mollo nelle terme. Questo accadeva in altre città. Pompei era in una situazione di piena emergenza. Non c’era l’acqua corrente. Quasi tutte le case avevano lavori in corso. Alcune erano addirittura temporaneamente disabitate, altre abbandonate da anni per via degli ingenti danni del terremoto del 62. Nelle strade c’erano cantieri aperti un po’ ovunque.
Terremoti 3 Molti pompeiani avevano già lasciato la città negli anni, nei mesi e nelle settimane precedenti all’eruzione. Non c’era più il grande affollamento che descrive Seneca: difficilmente si raggiungevano i ventimila abitanti di pochi anni prima. I terremoti avevano stravolto persino i rapporti tra le classi sociali. I ricchi se ne erano andati e, a sentire le parole di Seneca che pochi anni prima invitava gli abitanti dell’area a non fuggire senza ragionare, si intuisce che doveva esserci stata una vera e propria piccola emigrazione con ripercussioni sull’economia di una città nota in tutto l’Impero per il suo vino e il suo garum. Molti si sono salvati, a Pompei e nei dintorni, grazie proprio ai terremoti e alle scosse negli anni, nei mesi e nelle settimane precedenti all’eruzione, decidendo di andare a vivere altrove. Altri sono scampati perché, visti i lavori in casa, si sono trasferiti temporaneamente in posti che poi si sono rivelati sicuri (Napoli, Nocera, ecc.).
Negozi A Pompei, come in tutte le città romane, i negozi chiudono all’ora di pranzo, a orari diversi, alcuni a mezzogiorno, altri alle due, per riaprire solo il giorno dopo. Nel pomeriggio tutto è chiuso, anche perché si è cominciato a lavorare all’alba.
Via dell’Abbondanza Via dell’Abbondanza, rispetto ad altre strade, ha una vera esplosione di esercizi commerciali. Nei seicento metri che vanno da qui a Porta Sarno, gli studiosi hanno identificato più di venti bar e locali dove si può mangiare, cioè in media uno ogni trenta metri. Una concentrazione sorprendente, considerando che in altre vie è difficile persino trovarne uno.
Urina Nella fullonica (la tintoria romana) gli schiavi pigiano con i piedi i panni sporchi in un cocktail di acqua e sostanze alcaline come la soda e l’urina (il sapone era ancora sconosciuto). Ogni giorno servono grandi quantità di urina: umana o animale; molto richiesta, pare, era quella di dromedario fatta importare apposta dall’Oriente. Come ce la si procura? Lungo la strada, nei vicoli, spesso si vedono delle anfore con un’apertura laterale. Chiunque può usarle per liberarsi. Regolarmente passa poi uno schiavo delle fullonicae a prelevarne il contenuto. Proprio per questo, qualche tempo prima, l’imperatore Vespasiano aveva deciso di tassare anche l’urina usata dalle tintorie. Di fronte ad alcune rimostranze rispose utilizzando una frase poi passata alla storia: «Pecunia non olet» (I soldi non puzzano).
Locali Gli studiosi a Pompei hanno identificato più di duecento popinae e cauponae, locali per mangiare e bere. Su una popolazione stimata tra sei e ventimila abitanti, ma più probabilmenteintorno a otto-dodicimila, significherebbe che c’era un locale ogni venticinque, massimo sessanta abitanti circa.
Sesterzi nascosti Nel locale di Lucio Vetuzio Placido e di sua moglie Ascula, nascosti in fondo a uno dei sei dolia (giare di terracotta) del bancone, sotto uno strato di ceci, fagioli o frutta secca, gli archeologi hanno riportato alla luce 1385 sesterzi (l’equivalente di oltre ottomila euro). Nei momenti concitati della fuga durante l’eruzione, i due coniugi non hanno trovato un posto migliore dove nascondere i soldi, nell’evidente speranza di tornare a riprenderseli, cosa che non hanno mai fatto.
Liberti A causa dei continui terremoti, molti nobili di Pompei hanno lasciato le loro domus sontuose in gestione ai propri liberti, spesso affittandole. Oppure hanno venduto le ville a chi aveva abbastanza soldi per comprarle. Questi nuovi ricchi sono la classe emergente di Pompei e dell’Impero. Si tratta di schiavi che, una volta liberati, hanno fatto tanti quattrini, chi nel commercio, chi nella produzione agricola, chi in altri tipi di business, non sempre limpidi. Sono imprenditori rampanti e d’assalto che accumulano ricchezze faraoniche e le sperperano per mostrare la propria condizione di benessere economico. Le ville e le domus, passate di mano a liberti avidi di guadagnare, sono state trasformate in luoghi di produzione agricola, in vivai, in tintorie. Molte sale affrescate sono diventate depositi di merci. Ecco perchÈ si trovano dei rozzi graffiti su splendidi affreschi: sono spesso opera degli schiavi che lavoravano al servizio di questi liberti.
Schiavi Ogni sabato a Pompei è giorno di mercato, nell’area dell’anfiteatro. Quindi è possibile comprare anche schiavi. Questi salgono su una pedana di legno, con un banditore che dà inizio a una vera e propria asta. Oppure rimangono in fila addossati al muro, con un cartello appeso al collo che ne descrive le origini lontane e ricercate (quasi sempre inventate) e le principali qualità.
Colazione I romani hanno l’abitudine di mangiare al mattino carne e vino avanzati dal giorno prima. A questi cibi vanno aggiunti il pane e le focacce. Solitamente vengono mangiati assieme al miele, magari intingendoli in coppe di latte.
Pranzo I pompeiani a pranzo consumano un pasto frugale: mangiano ricotta, olive, legumi e ortaggi, piccoli pesci alla brace e pane. I ricchi si nutrono nelle proprie abitazioni, mentre gli schiavi più umili si sfamano con poche cose nei luoghi dove lavorano. Tutti gli altri pompeiani, invece, si riversano nei locali per le strade consumando pasti frugali. A questi poi bisogna aggiungere i forestieri e chi di passaggio per lavoro a Pompei. Nelle popinae e nelle cauponae, sempre piene all’ora di pranzo, si mangia in piedi o seduti a piccoli tavoli.
Cibi I pompeiani consumano prevalentemente cereali, legumi, verdure, uova, formaggi e pesce. La carne è rara. Ciò che i pompeiani ricchi e poveri trovano nel piatto o nei mercati proviene essenzialmente dai dintorni. Il mare offre pesci, molluschi (cozze, ostriche, patelle, cannolicchi), crostacei, ricci di mare. I campi, invece, producono frumento, fave, farro, lenticchie. Nei boschi si cacciano cinghiali e diverse varietà di uccelli. Molti cibi che oggi sono comunissimi in cucina, soprattutto nel vesuviano, sono del tutto sconosciuti ai pompeiani di allora, come per esempio il pomodoro, le patate, il peperoncino, che arriveranno dopo la scoperta dell’America. Nemmeno la mozzarella esiste ancora: bisognerà aspettare la fine dell’Impero romano in Occidente, quattrocento anni più tardi, per vedere le prime bufale portate dai longobardi nelle aree di Benevento e dintorni. Il caffè, invece, arriverà in Italia solo tra milleseicento anni (più o meno quando Pompei verrà riscoperta). Neppure lo zucchero è conosciuto: il miele è l’unico dolcificante.
Anfiteatro L’anfiteatro di Pompei, più basso e più piccolo del Colosseo (che ancora nessuno ha mai visto dentro perché non è ancora stato inaugurato), può contenere ventimila spettatori.
Cavalli Nell’antichità si cavalcano cavalli poco più alti di un pony. Nei bassorilievi la testa di un uomo in piedi supera spesso la loro in altezza.
Tintinnabula I tintinnabula, falli in bronzo portafortuna dotati di campanellini da far risuonare quando si entra nell’ambiente dove sono appesi, il più delle volte negozi, per scacciare spiriti nefasti e sfortuna. Uno di questi tintinnabula è esposto nel Museo Nazionale di Archeologia di Napoli.
Graffit1 1 Graffito ritrovato in una locanda: Ta lia te fallant utinam medacia co po tu vede s acuam et bibes ipse merum (Simili balle, oste, possono costarti caro. Vendi l’acqua e ti bevi il vino puro).
Graffiti 2 I muri di Pompei sono letteralmente tappezzati di scritte spinte o oscene, che non sempre sono di scherno. Il sesso era vissuto in modo libero e aperto. Non di rado, sia gli uomini sia le donne si vantavano delle proprie conquiste o prodezze sessuali. Qualche graffito lasciato da donne pompeiane: Pithia prima cum sparitundio lo hac modo (Pizia Prima lo ha fatto proprio qui ora con Sparitundiolo); Piramo cotidie linguo (A Piramo lo succhio ogni giorno): Iucudus male cala (Giocondo scopa male); Vitalio bene futues (Vitalio, sei un gran scopatore); Fututa sum hic (Sono stata chiavata qui) Euplia hic cum ho minibus bellis MM (Qui Euplia lo ha fatto con duemila uomini belli).
Graffiti 3 Graffito lasciato da un uomo nella Casa degli Eruditi: Hic ego nunc futui formosa(m) forma puella(m) laudata (m) a multis set lutus intus erat (Qui ho fatto sesso con una bella donna lodata da molti, ma dentro era fango). Secondo Alberto Angela si tratta probabilmente della più antica prova dell’uso di un anticoncezionale da parte di una donna (una crema interna che l’amante ha scambiato per fango).
Graffiti 4 Sui muri si scriveva così tanto che un pompeiano ha lasciato questo graffito: Admiror te paries non cecidisse qui tot scripto rum taedia sustineas (Mi meraviglio di te, parete, che non sei ancora crollata, perché devi sostenere le cretinate scritte da tutti).
Graffiti 5 Graffiti di insulti. Regulus fellat (Regolo fa pompini); Imanis metula es (Sei un minchione di proporzioni colossali); M titinius cinaedus LX (Marco Titinio checca sessanta volte); Aegrota aegrota aegrota (Che ti venga un accidente!!!) (I romani non conoscevano il punto esclamativo. Al suo posto ripetevano più volte le parole: in questo caso, l’equivalente di tre punti esclamativi).
Ercolano Ercolano è piccola: il suo fronte rivolto al mare misura solo trecentoventi metri e l’intera città copre appena venti ettari. Non deve superare i tre-quattromila abitanti, circa un terzo di Pompei.
Schiavi liberati Uno schiavo liberato poteva acquisire lo status di cittadino romano solo se aveva compiuto trent’anni.
Pulizia Fino a oggi solo un quarto di Ercolano è stato riportato alla luce, eppure in quel poco che possiamo visitare ci sono tre strutture termali, ottanta latrine e un sistema fognario molto ben organizzato. Insomma, è una città pulita. Una scritta incisa accanto a una fontana pubblica recita che chiunque insudici la fontana con dell’immondizia verrà multato (se cittadino romano) o frustato (se schiavo).
Gemmarius In un gemmarius (gioielleria) di Ercolano, gli archeologi hanno trovato duecento gioielli tra gemme, cammei e pendenti di ogni tipo.
Ghiri I ghiri, allevati in piccole giare di terracotta non come animali da compagnia, ma ingrassati al buio per essere poi serviti fumanti, secondo un’antica ricetta etrusca, durante i banchetti.
Lupanare 1 A Pompei c’erano una trentina di lupanare (bordelli).
Lupanare 2 I letti su cui si fa l’amore nei lupanare sono dei banconi di muratura, con un bordo rialzato, ricoperti con un pagliericcio. Per dare l’impressione di avere un barlume di intimità, una tenda viene tirata sull’uscio delle stanzette, ma nulla più: tutti sentono, e a volte intravedono, quel che sta accadendo. Sembra anche che ci sia la possibilità, dietro pagamento, di spiare una coppia che fa sesso. Sui muri diversi graffiti, ma anche le tracce lasciate da suole chiodate, segno che i clienti spesso
facevano sesso senza togliersi le scarpe. Nelle iscrizioni possiamo leggere l’orgoglio di chi si vanta: Hic ego puellas multas futui (Qui mi sono fatto molte fanciulle).
Film porno I romani quando facevano sesso amavano usare specchi, dildo, libri erotici e persino degli antenati dei film porno, che era possibile “vedere” grazie a uno schiavo chiamato a infilare in una finestrella che si affacciava su una “camera a luci rosse” dei riquadri con posizioni erotiche sempre diverse, che i due amanti dovevano imitare. Quest’ultima pratica troverebbe riscontro proprio a Pompei, nella Casa del Centenario.
Omosessuali Gli esponenti delle classi superiori, oltre che con le proprie mogli facevano sesso anche con concubine e schiave di casa. Senza considerare i rapporti omosessuali, liberi e piuttosto diffusi in età romana. C’erano però regole non scritte da rispettare: l’uomo romano doveva fare sesso con un individuo di rango inferiore, essere parte attiva nei rapporti intimi, e sempre parte passiva in quelli orali.
Energia In termini di quantità di energia meccanica e termica sprigionata l’eruzione del Vesuvius equivarrà a cinquantamila bombe atomiche di Hiroshima. Con la differenza che mentre l’esplosione atomica rilascia la sua energia in una frazione di secondo il Vesuvius l’ha fatto in un arco di tempo molto più ampio. In meno di venti ore il vulcano proietterà in aria dieci miliardi di tonnellate di magma. E ricoprirà tutto il territorio in direzione di Pompei, in un raggio di dodici-quindici chilometri, con uno spessore di pomici di circa tre metri. Produrrà valanghe ustionanti di ceneri, particelle e gas, surges e flussi piroclastici (nubi ardenti) in grado di viaggiare a oltre cento chilometri all’ora, con temperature oscillanti tra i quattrocento e i seicento gradi. Cambierà la conformazione della costa, seppellirà Ercolano sotto venti metri di fanghi vulcanici compatti e Pompei sotto quasi sei metri di pomici e cenere. È opinione di numerosi studiosi che a salvarsi sarà un numero molto ridotto di abitanti, essenzialmente quelli che sono fuggiti subito. Chi è rimasto è morto: bruciato vivo, schiacciato dai crolli delle case o soffocato in poche decine di secondi dai gas e dalla cenere.
Botto 1 Non c’è stato alcun ruggito del vulcano, come spesso si sente dire. C’è stato solo un gran botto iniziale, a cui ne sono seguiti altri minori di tanto in tanto, ed esplosioni freatiche causate dall’interazione tra il magma in risalita e l’acqua del sottosuolo. Dopo il botto iniziale del muro del suono infranto, la colonna eruttiva non produce alcun rumore. Ma il botto inizale è comunque potentissimo e sufficiente a far accorrere tutti fuori dalle case.
Botto 2 Se a Pompei il boato del muro del suono infranto ha impiegato circa ventiquattro-ventisei secondi per coprire gli otto-nove chilometri di distanza, a Ercolano ne ha impiegati diciotto, perché i chilometri sono appena sei.
Colonna eruttiva 1 Plinio il Giovane descrivendo la colonna eruttiva che vedeva da Miseno: «Una nube si formava, il cui aspetto e la cui forma nessun albero avrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, protesasi verso l’alto come un altissimo tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d’aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente. A tratti bianca a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava».
Colonna eruttiva 2 La colonna eruttiva è una miscela densa e caldissima che con tiene magma frammentato in piccole particelle, rocce, e soprattutto gas (vapore e anidride carbonica). Salendo, aspira e risucchia aria attorno a sé, dai lati e soprattutto dal suolo. Questo crea potentissimi venti radiali, che risucchiano ogni cosa verso il vulcano. Chi si è trovato alle sue pendici è stato investito da venti di incredibile intensità, esattamente come è successo a Hiroshima e Nagasaki. Un enorme “effetto camino” che solleva nubi di polvere negli occhi, trasporta detriti e accumuli anomali
contro i muri sul lato opposto al vulcano. Questi venti non sono la sola conseguenza della nube. La colonna eruttiva, aspirando aria tutt’attorno, diventa meno densa man mano che sale. Giunta a una certa quota, i flussi d’aria interni fanno sì che la colonna si apra a ombrello, rilasciando piccole pietre, schegge di magma solidificato e leggerissimi frammenti di magma “soffiato” simili a meringhe: le pomici. Tutto questo ricade al suolo da altezze vertiginose.
Pomici e ceneri Alcuni ritrovamenti confermano che le pomici dell’eruzione di Pompei saranno scagliate lontanissimo, almeno a settantadue chilometri di distanza dal vulcano, fino ad Agropoli. Inoltre, trivellazioni sottomarine nel Mar Ionio hanno rinvenuto piccoli livelli di pomici emesse proprio dal Vesuvius nel 79 d.C. E le ceneri arriveranno ancora più lontano, fino ai ghiacci della Groenlandia.
Tosse Assieme alle pomici, Pompei è stata ricoperta fin da subito da cenere finissima. È calata una nebbia terribile: la città è letteralmente scomparsa, agli occhi non solo di chi prova ad avvistarla da lontano, ma anche di chi vive al suo interno: la visibilità è ridotta a poco più di un metro. Ma non è una semplice nebbia: gli occhi bruciano e lacrimano di continuo, si fa fatica a respirare. Chi può, si mette un panno bagnato davanti alla bocca. In effetti ogni respiro causa bruciori alla gola e ai polmoni, e questo perché la cenere è costituita da tanti microscopici e taglienti frammenti vulcanici che irritano e feriscono le vie aeree. Oltre al crepitio delle pomici e ai colpi sordi delle rocce che piovono dal cielo, in questi concitati momenti a Pompei si sentono tante persone che tossiscono.
Fuga 1 I ricercatori che hanno studiato le dinamiche della devastante eruzione del 79 d.C. hanno individuato il lasso di tempo che a Pompei ha costituito la differenza tra vivere e morire. Chi ha scelto la fuga nelle prime due o tre ore dall’eruzione ha avuto la concreta possibilità di farcela. Chi invece ha esitato o ha deciso di aspettare che il Vesuvius si sfogasse rimanendo in città è destinato a morte certa. E’ plausibile che buona parte dei pompeiani abbia perso tempo prezioso per andare a cercare i propri cari in città e discutere sul da farsi. A quel punto, è probabile fosse già passata quella finestra utile di tempo per scappare: la visibilità era nel frattempo diventata troppo scarsa, le pomici rendevano la marcia sempre più difficile e impedivano di vedere la strada. Molti avranno ritenuto che fosse più saggio fermarsi, per aspettare che il peggio passasse, soprattutto se nel loro nucleo familiare c’erano bambini o anziani. Un’altra categoria di persone che ha esitato o ha consapevomente scelto di rimanere rintanata in casa è costituita da tutti quelli che non volevano separarsi dalle proprie ricchezze: per un liberto lanciato nella scalata sociale l’idea di lasciare gli averi faticosamente accumulati (monete d’oro, vasellame d’argento, opere d’arte, tavolette che attestavano proprietà e conti commerciali, per non parlare della propria lussuosa domus) era difficile perfino da concepire. Infine, c’è la categoria degli schiavi: per loro, la paura di essere catturati a eruzione finita, con la prospettiva di pene molto severe, era di certo fortissima.
Fuga 2 Numerosi studiosi ritengono che durante l’eruzione sia morta la maggior parte degli abitanti di Pompei: nessuno aveva capito che sarebbe stata la fine. E quando lo capirono era troppo tardi: lo dimostrano i tanti scheletri rinvenuti appena fuori dalle mura, segno di un’ultima, inutile, disperata fuga da parte di chi era rimasto in città. Oltre alle difficoltà di fuga, dopo le fatidiche due ore, c’era comunque un problema di ordine pratico per mettersi in salvo: dove fuggire? Nessuno è scappato verso nord. Uscire da Porta Ercolano o Porta Vesuvio significava andare verso il vulcano, ovvero il suicidio. Forse solo chi aveva dei cari da salvare passò attraverso una di quelle porte. Andare verso est, verso Nocera, era la soluzione migliore, almeno fino a quando il ponte sul Sarno ha retto. E’ plausibile che a scegliere questa strada siano stati soprattutto gli abitanti dei quartieri orientali, quelli che, per esempio, vivevano nelle vicinanze di via dell’Abbondanza. Lo stesso discorso vale per un’altra porta orientale, Porta di Nola, che consentiva di scappare e, dopo un lungo cammino, di raggiungere Nola e poi Capua.
Crolli A Pompei i primi crolli sono cominciati quando lo strato di pomici ha raggiunto i quaranta-cinquanta centimetri sulle terrazze e i tetti delle case.
Causa del Fauno Gli archeologi sono riusciti a ricostruire gli disperati comportamenti della proprietaria della Causa del Fauno grazie a quello che è emerso dagli scavi. Rimasta sola (gli schiavi sono tutti fuggiti) ha raccolto in una borsa ori e gioielli ed è corsa verso la porta principale, per scappare. Ma qualcosa deve averla spaventata. Forse non è riuscita ad aprire la porta per via dello strato di pomici, oppure si è fatta prendere dal panico. Ha lasciato cadere nell’atrio la borsa che conteneva il suo tesoro ed è corsa verso il suo luogo preferito, il mosaico della battaglia di Isso, forse per cercare un riparo sotto la tettoia o il soffitto. Soffitto che però a un certo punto è crollato su di lei, uccidendola sul colpo. Le cronache degli scavi raccontano che il suo scheletro venne ritrovato con le braccia tese, in un disperato tentativo di proteggersi il capo.
Casa di Romolo e Remo La Casa di Romolo e Remo, chiamata così per i suoi affreschi che narrano la nascita di Roma: qui muoiono schiacciati dai crolli due adulti, un bambino e due cani. La mano di uno degli uomini stringe, oltre a sedici monete d’oro, due anelli, uno dei quali riporta le iniziali FA – H. L’uomo probabilmente si chiamava Fabius H., e questo dettaglio ci rivela che era un membro della potente famiglia dei Fabii.
Caupona In una caupona della Regio VI poco distante dalla Casa dei Vettii, il crollo ha travolto probabilmente l’oste, di nome Salvio, e un altro uomo. Al piano inferiore del locale è riemersa una collana di pasta vitrea, appartenuta probabilmente a una prostituta che è riuscita a fuggire. Mentre l’oste e il suo amico hanno aspettato troppo a lungo, ovvero fino a quando lo strato di pomici era diventato così alto che, per uscire dall’edificio, bisognava utilizzare le finestre del piano superiore. Ma è proprio in quel momento che il tetto è venuto giù, schiacciandoli. In una mano Salvio teneva i propri averi: trecentocinque monete d’argento, sei aurei d’oro e alcuni gioielli.
Tempio Anche i templi si trasformano in luoghi di morte, per esempio quello di Iside. Secondo alcune ricostruzioni, al momento dell’eruzione i sacerdoti e i loro aiutanti stavano pranzando con pane, pesce e uova nell’ampia sala retrostante il tempio. Impauriti, hanno raccolto gli oggetti più sacri e preziosi, li hanno messi dentro un sacco e hanno atteso il momento più propizio per scappare dal tempio e dalla città. Ma appena usciti sulla strada il sacerdote incaricato di portare il sacco è caduto e tutto il contenuto si è riversato per terra. Aiutato dai compagni, tutti insieme hanno
proseguito verso il Foro Triangolare, dove una violenta scossa di terremoto ha causato il crollo del colonnato, e la loro morte. Gli archeologi hanno ritrovato gli oggetti sparsi al suolo.
Marco Volusio Iuvenco La vicenda della famiglia del fabbro Marco Volusio Iuvenco. La sua abitazione si trova a due passi dalla Casa del Menandro. Una dimora modesta ma dignitosa, impreziosita da alcuni eleganti affreschi (tra i quali spiccano un Paride ed Elena sul monte Ida e un Volo d’Icaro). Oltre a vari strumenti di lavoro, tra cui una serie di congegni per serrature per casse di legno, è riemerso anche un carrulus per bambini, un carrettino a quattro ruote, indizio che il fabbro era abile anche a lavorare il legno. Sua moglie (o la sua concubina) ha lasciato su un tavolo delle boccette di profumo e vari gioielli, uno dei quali è una collana costituita da ventisette amuleti di bronzo, osso e pasta vitrea raffiguranti diverse divinità, tra cui Iside. I due si sono rifugiati nel triclinium ritenendolo il luogo più sicuro della casa, e qui hanno atteso, invano. Gli archeologi li hanno ritrovati così: lo scheletro del fabbro era aggrappato alla fiancata esterna di un letto tricliniare, con ai piedi tracce di sandali (ne è stato rinvenuto un chiodino). Vicino a lui, ai piedi del letto, è riemerso lo scheletro della donna, con gli arti superiori contratti e ripiegati sotto il capo e quelli inferiori adagiati sul pavimento. C’erano anche un centinaio di sesterzi d’argento.
Numeri 1 In soli trenta minuti, la colonna eruttiva raggiunge un’altezza di quattordici chilometri. In un’ora arriva a venti chilometri di altezza. Sette ore dopo l’eruzione la colonna eruttiva ha ormai raggiunto i ventisei chilometri di altezza, più del doppio della quota a cui viaggia un normale aereo di linea ai nostri giorni. Settanta milioni di chili di magma al secondo vengono proiettati fuori dal vulcano. Da molte ore l’acqua della falda acquifera (e forse anche quella del mare) non riesce più a penetrare nel condotto vulcanico. Da un punto di vista tecnico l’eruzione è dunque passata dalla fase freatica a quella puramente magmatica. In altre parole, se prima c’erano esplosioni causate all’interazione con l’acqua, ora è solo il magma che esce violentemente a condurre l’eruzione. Dall’inizio dell’eruzione è stato proiettato nell’aria ben un chilometro cubo di magma, cosa che ovviamente ha provocato un parziale svuotamento della camera magmatica. Per mantenere costante il suo volume, il magma compensa creando tante bolle che occupano ormai il venti per cento del suo volume. La massa fusa incandescente si è trasformata per la maggior parte in pomici bianche, quattro chilometri cubi di pomici che piovono dal cielo coprendo il paesaggio di un’area vastissima in direzione sud-est. Si calcola che solo a Pompei lo spessore delle pomici sia di circa un metro e quaranta centimetri.
Ora, sapendo che un metro cubo di pomici pesa più di mezza tonnellata, è facile comprendere perché i tetti crollano: è come se su ogni singolo metro quadrato di tetto stessero in piedi almeno sei uomini. Si capisce quindi perché addirittura il trentotto
per cento delle vittime sia stata uccisa dai crolli e non dai gas o dalle nubi ardenti. Ciò significa più di una vittima su tre.
Trentadue chilometri 12-17 ore dopo l’eruzione, la colonna eruttiva si alza di nuovo, riprende vigore e all’una raggiunge l’altezza di trentadue chilometri (tre volte l’altezza di un aereo di linea che di solito vediamo volare nel cielo). È il momento in cui la sua portata raggiunge il picco massimo (dal cratere fuoriescono duecento milioni di chili di magma al secondo). Nell’arco di queste ore, l’immensa colonna cede e si riprende più volte, in una serie di “pulsazioni” che ogni volta generano delle colate piroclastiche, i flussi che seppelliranno Ercolano e Oplontis.
Numeri 3 In meno di venti ore il vulcano ha espulso dieci miliardi di tonnellate di magma, centinaia di milioni di tonnellate di vapori e di altri gas a velocità di salita di trecento metri al secondo. E i depositi di tufi e pomici nell’area vesuviana, nel caso di Ercolano, hanno superato anche i venti metri. Dati certi sui morti non ce ne sono, ma possiamo stimarne otto-dodicimila per Pompei e tre-quattromila per Ercolano. Ignoriamo quante siano state le vittime mietute altrove, per esempio nel contado. In totale possiamo forse immaginare che il numero delle vittime includendo Stabia, Oplontis e Terzigno possa aggirarsi tra le quindicimila e le ventimila persone.
Numeri 4 Il trentotto per cento delle vittime a Pompei si trovano nella pomice e quindi sono state uccise soprattutto dai terremoti, ma anche in buona parte dai crolli dei tetti e dei solai per il peso delle pomici stesse. Stando a queste cifre avanzate dal vulcanologo Roberto Santacroce ciò significherebbe che il sessantadue per cento è invece stato ucciso dalle correnti piroclastiche.
Valanghe ustionanti Il getto che esce dal vulcano contiene sempre più pomici e particelle pesanti e quantità di gas, vapori e sostanze volatili sempre minori: in altre parole, pesa di più e a un certo punto non riesce più a spingersi verso l’alto. Si ferma e scivola lungo i pendii trasformandosi in micidiali valanghe ustionanti. Dai sedimenti rinvenuti dagli archeologi si è stabilito che questo è accaduto due volte, generando in breve sequenza due flussi piroclastici di centinaia di gradi che hanno travolto le ville e le fattorie più vicine, come per esempio a Terzigno, dove hanno
ucciso all’istante chiunque si trovasse al loro interno.
Cervelli cotti A Ercolano chi era sulla spiaggia è stato bruciato vivo. Chi si trovava all’interno dei fornici è stato investito da un calore così elevato da trovare la morte, all’istante, per shock termico. In pochi secondi le persone si sono trasformate in scheletri. In certi casi, i cervelli sono entrati in ebollizione e i crani si sono fratturati, esplodendo. Il fatto che le superfici ossee, sia fuori dal cranio che dentro, siano state rinvenute annerite è una conferma scientifica della cottura del cervello. Le tracce sulle ossa sono compatibili con temperature di cinquecento gradi, quelle che di solito sviluppa un crematorio.
Morti diverse Osservando oggi gli scheletri di Ercolano, si notano mamme che tengono accanto al proprio seno la testa di un bambino rannicchiato, adolescenti che cercano un istintivo rifugio dietro la schiena di un genitore, persone in piedi che cadono in ginocchio con il tronco che si abbatte in avanti (e che verranno rinvenute proprio in questa posizione), oppure altri che letteralmente si afflosciano e spalancano la bocca. I morti di Ercolano sono, già a una prima occhiata, diversi da quelli di Pompei. I pompeiani sembrano mostrare un atteggiamento di
lotta e di difesa per sopravvivere, gli ercolanesi invece, per via delle temperature molto più alte, muoiono all’istante, come se qualcuno, all’improvviso, avesse staccato loro la corrente. Non si sono resi conto di quello che stava accadendo. Forse quelli che si trovavano sulla spiaggia avranno sentito dei rumori, potrebbero aver visto, ma solo all’ultimo, impercettibili bagliori venir loro incontro nel buio e aver avvertito l’onda di calore farsi sempre più calda, ma la valanga ha impiegato due, massimo tre secondi per attraversare l’intera città.
Morti a Ercolano Secondo molti, i morti rinvenuti nei fornici (sorta di garage per barche) e sulla riva rappresentano solo una minima parte delle vittime di Ercolano. Gli scavi effettuati in epoca borbonica lungo la spiaggia e quelli necessari all’installazione di pozzi hanno certamente impedito il ritrovamento di molti altri scheletri. Questo farebbe pensare, secondo alcuni studiosi, che sia morta una quantità di abitanti ben superiore a quanto finora ritenuto (non il dieci per cento con i trecento corpi, ma forse il cinquanta per cento o più). Tanti potrebbero trovarsi ancora sotto gli strati vulcanici, forse in una
posizione più lontana, come per esempio nei primi metri d’acqua sottostanti alla spiaggia o direttamente in mare. E secondo molti studiosi il numero delle vittime va sicuramente rivisto al rialzo, stimando che nell’eruzione siano morte almeno duemila
persone, la metà degli abitanti o addirittura di più.
Fanghi vulcanici Ercolano, dopo numerose colate piroclastiche, verrà sepolta sotto ventitré metri di fanghi vulcanici. Questi fanghi faranno avanzare la linea di costa di addirittura quattrocento metri e sigilleranno ogni cosa, impedendo all’aria di penetrare e ai batteri di agire per dissolvere nel tempo materiali organici delicati come il legno o i tessuti. Per questo, oggi a Ercolano è ancora possibile vedere scale di legno, letti, altarini domestici, travi, porte, ante di finestre, corde, rastrelliere per anfore, separè di legno finissimo, soffitti a cassettoni (coloratissimi e geometrici) e culle.
Surge 1 Surge 1 è la definizione che i vulcanologi hanno dato al terribile flusso killer che ha investito Ercolano. Un surge è fatto di gas e ceneri finissime che si appiccicano alla pelle provocando un efficientissimo scambio termico. La morte è improvvisa e avviene per shock termico fulminante. Nello specifico: l’acqua presente nel corpo evapora all’istante, e il sangue lascia un alone rossastro nella cenere tutt’attorno, per via del ferro contenuto nell’emoglobina. Anche sulle ossa si vedono macchie causate dall’ossidazione del ferro, presente nel nostro organismo; la pelle, i muscoli e gli organi si dissolvono (ecco perché non si riescono a fare dei calchi, la cenere è a diretto contatto con le ossa); le ossa lunghe spesso si fratturano, i denti si spezzano, i crani esplodono. Infine, le dita si contraggono a uncino a causa del restringimento, dovuto all’intenso calore, di tendini e muscoli. Anche il colore delle ossa può indicare la temperatura del flusso piroclastico: se compreso tra duecentottantacinque e quattrocento gradi conferisce alle ossa un colore marrone-rossastro. Da quattrocento a novecento gradi il colore è nero. Se supera questa soglia le
ossa sono bianche, segno che la calcinazione è completa.
Surge 4 Il Surge 4: l’arrivo di questa valanga sarà fatale per Pompei e per i suoi abitanti. Ha l’aspetto e la consistenza di un fronte nuvoloso che scivola sul terreno: i tetti delle case, le colonne, le statue, spariscono uno dopo l’altro. Non fa rumore. Ogni pompeiano catturato da questo surge è morto perché avvolto all’improvviso da una cenere finissima come il talco, che ha occluso le vie respiratorie. Inoltre nella nube ci sono dei gas, come l’anidride solforosa, che a contatto con l’acqua presente nelle mucose, per esempio delle lacrime o anche solo della saliva, si trasformano in acido solforico. Questa nube si è abbattuta come una caligine densissima sui pompeiani in fuga. Sono caduti cercando di coprirsi occhi e volto ma soprattutto il naso e la bocca con un panno. Evidentemente mancava ossigeno e i gas contenuti nella nube erano estremamente aggressivi. Mentre gli occhi si possono chiudere e anche la bocca, le narici rimangono esposte e sono molto sensibili: ecco perché si cercava di proteggerle. La maggior parte di queste vittime ha i denti serrati, indicando la scelta volontaria di non spalancare la bocca per respirare. Mentre provavano a opporre quest’ultima disperata difesa, l’immensa coltre di cenere finissima li ha sepolti vivi (o, meglio, agonizzanti). Passeranno diciotto secoli prima che gli archeologi intuiscano il modo di far riprendere forma a quegli scheletri che di tanto in tanto emergono nello strato di cenere.
Due tipi di vittime A Pompei esistono due tipi di vittime: chi è morto per i crolli dovuti al peso della “grandine vulcanica” o dei terremoti e chi è stato ucciso dal Surge 4. Nello strato di pomici è possibile ritrovare solo scheletri; nel secondo caso, oltre alle ossa, c’è anche l’impronta lasciata dal corpo nella cenere compatta, condizione che rende possibile effettuare dei calchi. La vittima è stata avvolta dalla cenere finissima, diventata in seguito dura e compatta. Con il tempo i tessuti molli e gli organi si sono dissolti, lasciando solo lo scheletro. Ma la cenere indurita attorno al corpo ha mantenuto perfettamente la forma: quello che rimane è una “bottiglia vuota”, che si può riempire con gesso per recuperare le esatte fattezze della persona sepolta.
Gruppo Il gruppo della Casa di Stabiano (Regio I, insula 22). Si tratta di sette persone, tra cui due bambini, uccisi dal surge mentre correvano sullo strato di pomici. I calchi rivelano vesti, sandali ma soprattutto i loro ultimi istanti di vita. Quando sono stati travolti e sepolti dalla nube gli adulti hanno lasciato la mano dei piccoli (sono stati ritrovati infatti a una certa distanza) e sono caduti a terra. C’è chi si è irrigidito e ha portato i pugni chiusi al mento o al volto, come un pugile che vuole parare dei colpi, chi si è rannicchiato. «La scena più commovente è quella di una donna incinta, caduta supina con il suo uomo, sdraiato su un fianco, accanto alla sua testa, che cerca di coprirle il volto con un lembo della propria veste. Se n’è andato così, in un estremo tentativo di salvare la donna che amava. Come è possibile che queste persone siano morte in questa posizione? Una volta persi i sensi per l’asfissia, si dovrebbe cadere esanimi e assumere la tipica postura di chi è svenuto. A ben vedere queste posizioni di difesa con busti, gambe e braccia contratti (come se il muscolo fosse ancora in tensione) possono spiegarsi in un solo modo: queste persone sono state sepolte dalla corrente quando erano ancora in vita, quando disperatamente cercavano di proteggersi. Una volta che la cenere finissima li ha inglobati, li ha come sigillati: difficile muovere persino un braccio. Chi ha avuto la singolare esperienza di rimanere intrappolato nel fango o nelle sabbie mobili vi racconterà della fortissima presa e pressione effettuata dai sedimenti. Se poi è l’intero corpo a essere sepolto, allora divincolarsi è davvero un’impresa».
Su un gomito Tra le vittime che i turisti possono vedere esposte a Pompei, c’è un uomo che ha cercato di rialzarsi facendo leva su un gomito, un’ultima disperata reazione all’immensa quantità di cenere finissima che gli è calata addosso. Non ce l’ha fatta, e ha perso la vita in una posizione impossibile per un morto.