Enrico Marro, Corriere della Sera 7/12/2014, 7 dicembre 2014
PENSIONI, ECCO CHE COSA CAMBIERÀ
ROMA Il cantiere della previdenza è sempre aperto. Sono passati tre anni dal 6 dicembre 2011, quando col decreto salva Italia il governo Monti decise una stretta sulle pensioni senza precedenti. La riforma Fornero abolì infatti le pensioni di anzianità, aumentò l’età per quella di vecchiaia a 66 anni ed estese il calcolo contributivo pro rata a tutti i lavoratori. Il risparmio di spesa previsto per il primo decennio (2012-2021) supera gli 80 miliardi. Ma nemmeno la riforma Fornero sarà l’ultima. Con insistenza tra gli addetti ai lavori si parla di un provvedimento di legge del governo che potrebbe arrivare a gennaio per introdurre qualche elemento di flessibilità sull’età pensionabile. Con lo stesso provvedimento o con uno parallelo dovrebbe essere varata la riforma della governance dell’Inps per chiudere la lunga fase del commissariamento. L’ipotesi che ha più chance prevede un presidente, un consiglio snello (3 membri) mentre il consiglio di indirizzo e vigilanza designato da sindacati e associazioni imprenditoriali verrebbe ridimensionato.
L’incubo referendum
All’Inps pensano che sia necessaria qualche modifica alla riforma Fornero. Lo aveva detto il precedente commissario straordinario, Vittorio Conti, e lo ha ribadito l’attuale, Tiziano Treu. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha ripreso in mano il vecchio progetto di una minipensione anticipata (6-700 euro al mese) erogata dietro richiesta dei lavoratori cui manchino 2-3 anni ai requisiti Fornero e che poi verrebbe restituita in piccolissime rate dal momento in cui scatta la pensione piena. Ma questa novità non sarebbe sufficiente se la Corte costituzionale dovesse ammettere il referendum promosso dalla Lega per abrogare la stessa riforma. La decisione della Consulta, dice il segretario della Lega Matteo Salvini, arriverà questo mese, per consentire l’eventuale voto in primavera. È chiaro che se il referendum fosse ammesso, il governo, per evitare il rischio dell’abrogazione della Fornero che aprirebbe una voragine nei conti pubblici, dovrebbe intervenire sulla stessa riforma in modo da ottenere che la Corte ritenga non più giustificato il voto. Uno scenario da incubo che al momento nessuno, nel governo, vuole prendere in considerazione. Ma anche se il referendum non fosse ammesso, alcune partite andranno ugualmente sistemate.
Esodati
Secondo l’esecutivo la vicenda esplosa dopo la riforma Fornero, quando l’Inps quantificò in 328.650 i lavoratori che rischiavano di restare senza lavoro e senza pensione per effetto dell’improvviso aumento dei requisiti, si è chiusa con i sei «decreti di salvaguardia» approvati finora, che consentono a 170mila lavoratori di andare in pensione con le regole vigenti prima della riforma. Un’operazione che costerà al bilancio pubblico circa 12 miliardi di euro fino al 2020. Secondo i comitati degli esodati ci sarebbero invece almeno altre 50 mila posizioni da sanare. Al di là di questo braccio di ferro, che riguarda comunque persone che hanno perso il lavoro prima della riforma Fornero, va affrontato il tema dei lavoratori anziani che stanno perdendo o perderanno il lavoro senza essere coperti dagli ammortizzatori sociali fino al raggiungimento della pensione. Di qui il tema della flessibilità in uscita: stabilire cioè regole che consentano, in determinati casi, di andare in pensione prima. Oltre alla minipensione anticipata sotto forma di prestito a se stessi, altre ipotesi prevedono la possibilità di lasciare il lavoro qualche anno prima ma con una pensione più bassa o attraverso penalizzazioni per ogni anno di anticipo o con il calcolo dell’assegno col metodo contributivo, cioè sulla base dei versamenti effettuati durante tutta la vita lavorativa.
Braccio di ferro
Qualunque fosse l’ipotesi presa in considerazione, dovrebbe però fare i conti con le resistenze della Ragioneria generale dello Stato, fermamente intenzionata a impedire nuovi varchi nella riforma Fornero, oltre quelli che si sono già aperti: gli esodati prima di tutto, ma anche la decisione presa di recente con la legge di Stabilità di eliminare fino a tutto il 2017 le penalizzazioni per chi lascia il lavoro con 42 anni e mezzo (41 e mezzo le donne) di contributi ma prima di aver raggiunto 62 anni d’età. Ma altri varchi sono dietro l’angolo. L’«opzione donna», per esempio. Si tratta della possibilità, prevista dalla legge 243 del 2004, per le lavoratrici con almeno 35 anni di contributi e 57 anni d’età di andare in pensione, se lo vogliono, ma con l’assegno interamente calcolato col contributivo, che di regola comporta un taglio del 15-20%, rispetto al calcolo retributivo. L’opzione scade il 31 dicembre 2015. L’Inps, contrariamente a quanto disposto in precedenza, ha deciso di continuare ad accettare le domande di chi matura i requisiti fino alla fine del 2015. La Ragioneria aveva invece spinto per una interpretazione che, tenendo conto della vecchia «finestra mobile», chiudesse l’operazione nel 2014. L’Inps attende ora le indicazioni del ministero del Lavoro al quale si è rivolto mentre la stessa legge 243 prevede che entro il 2015 il governo decida se prorogare l’«opzione donna». Una ipotesi che potrebbe essere presa in considerazione, magari alzando la soglia dei 57 anni. E qualcuno dice estendendola agli uomini. I contributi si svalutano? Altra questione in sospeso è quella del montante contributivo. Per la prima volta quest’anno, a causa della prolungata recessione, l’indice per la rivalutazione del totale delle somme versate all’istituto di previdenza da ciascun lavoratore è negativo (-0,1927%). Questo significa che, per esempio, su ogni 100 mila euro di contributi se ne perderebbero 192. Per fortuna l’Inps ha deciso di non applicare la svalutazione. Ma anche in questo caso attende l’avallo dei ministeri vigilanti: Lavoro ed Economia. Il problema non è di poco conto. Se non si trova una soluzione, anche nel 2015 l’indice potrebbe essere negativo. Per evitare ciò l’Inps ha proposto che esso sia calcolato sulla media degli ultimi 10 anni del Pil anziché 5, sul presupposto che una recessione così lunga non si verifica mai.
Informazione a casa
Intanto, l’anno prossimo dovrebbe essere quello buono per il lancio della cosiddetta «busta arancione». In queste settimane l’Inps sta sperimentando verso 10mila lavoratori che hanno già il pin di accesso al sito il sistema di simulazione della pensione. Treu è deciso a estendere progressivamente questa possibilità a tutti i lavoratori iscritti all’Inps, partendo da quelli più vicini al pensionamento, dove il margine d’errore è più basso.
Assegni congelati
Nel frattempo per il 2015 chi è già in pensione vedrà il proprio assegno restare pressoché fermo. L’indicizzazione in base all’inflazione sarà infatti solo dello 0,3% mentre il dato definitivo 2014 è stato fissato all’1,1% contro l’1,2% provvisorio. Dovrà quindi essere restituito lo 0,1. La pensione minima lorda salirà dai 500,88 euro del 2014 ai 502,38 euro del 2015: appena un euro e mezzo in più al mese. La rivalutazione si applica in pieno agli assegni non superiori a tre volte il minimo, cioè fino a 1.502,64 euro lordi. Sopra c’è un adeguamento parziale a scalare. E oltre 14 volte il minimo, cioè 7.012,32 euro lordi al mese, scatta il contributo di solidarietà introdotto dal governo Letta: del 6%, che diventa del 12% sopra 10.017,60 euro e del 18% oltre 15.026,40. Intanto, giusto per elencare un’altra questione aperta, la Corte costituzionale si pronuncerà a marzo sul blocco della perequazione per le pensioni superiori a tre volte il minimo deciso con il salva Italia per gli anni 2012 e 2013. E anche sul nuovo contributo di solidarietà la Consulta, che aveva già bocciato quello deciso dal governo Berlusconi nel 2011, potrebbe tornare a esprimersi.