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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

ORO, CAFFÈ E PETROLIO: UN SITO FA LUCE SUL BUSINESS OSCURO DELLE MATERIE PRIME


Per qualche giorno, a inizio settembre, un sito web ha messo in riga la filiera del commercio mondiale. Le materie prime che nutrono la globalizzazione sono prodotte in Paesi quasi sempre poveri, consumate in Paesi quasi sempre ricchi e trattate molto spesso in Svizzera. Dal 2001 al 2011 il fatturato delle aziende elvetiche di intermediazione commerciale è cresciuto del 1.400 per cento. Da qui sono passati il boom economico della Cina, la diffusione del petrolio africano, l’impennata delle vendite di caffè, cacao, rame, oro e quant’altro. A parte il più nobile dei metalli, nessuna di queste commodity ha mai toccato il suolo della Confederazione: aziende svizzere smistano un quarto delle materie prime del Pianeta senza mai toccare una goccia di petrolio o annusare un chicco di caffè. Semplicemente con un clic comprano a poco, con un clic vendono a molto, e a fine giornata hanno fatturato talmente tanto che, secondo il quotidiano economico Handelszeitung, le prime cinque imprese elvetiche non sono più banche ma colossi del trading come Vitol, Glencore, Mercuria.
Basta incrociare questo dato con la «maledizione delle materie prime» e il mix di guerre, corruzione e povertà che genera nei Paesi d’origine – per capire che stiamo parlando del secondo dark side della Svizzera. Sì, perché oltre al segreto bancario, c’è il segreto che avvolge il commodity business: pochi nomi, poche cifre, pochi dati su volumi e beneficiari delle transazioni miliardarie. Questo almeno finché, a inizio settembre, non è comparso il sito trilingue della Rohma (www.rohma.ch), l’agenzia federale di controllo sulle materie prime, che ha immediatamente denunciato pratiche scorrette e avviato indagini conoscitive. L’ente è clonato sulla Finma, l’agenzia svizzera di controllo sulle attività finanziarie. Peccato che, a differenza di quest’ultima, la Rohma non esista. A pochi giorni dal lancio un disclaimer nel sito avvertiva già che si trattava di «un’agenzia fittizia, anche se i problemi che dovrebbe risolvere sono decisamente reali».
In Svizzera la provocazione dai contorni vagamente situazionisti ha suscitato un’eco mediatica enorme. Sarà perché occupano solo diecimila addetti contro i 130 mila del settore bancario, ma le imprese che commerciano in materie prime non godono di buona stampa.
Il sito fantasma della Rohma è opera dell’ong evangelica Erklärung von Bern (Dichiarazione di Berna), che già nel 2011 aveva scioccato l’opinione pubblica con un’inchiesta sull’opulenza dei mediatori svizzeri e la miseria dei produttori del Sud del mondo. Da allora è stato un crescendo di accuse e imbarazzi, tanto che quando Ivan Glasenberg, patron di Glencore, ha quotato la sua creatura diventando uno degli uomini più ricchi del Paese, tra i Comuni beneficiari del relativo prelievo fiscale è stato un rincorrersi di iniziative per deviare in Africa almeno parte di tanta sgradita abbondanza.
Non si tratta solo di scrupoli umanitari. A Zurigo e dintorni si parla sempre più spesso di Reputationsrisiko, ovvero del timore che questo concentrato di ricchezza, opacità e ingiustizia metta a rischio il buon nome della Confederazione. Come sostiene Dick Marty, ex procuratore generale del Ticino e membro del (fittizio) Consiglio d’amministrazione della Rohma, «siamo seduti su una bomba a orologeria».
In Svizzera abbonda solo l’acqua dei fiumi. Come hanno fatto Zurigo, Zugo e Ginevra a diventare il più importante hub mondiale del commercio di materie prime? Secondo Oliver Classen, portavoce di Erklärung von Bern, a contare sono soprattutto tre fattori: «Bassissime aliquote fiscali, grande professionalità finanziaria, e un clima politico che non favorisce la trasparenza». Il risultato è il 3,5 per cento del Pil svizzero e una serie quasi infinita di scandali a sfondo soprattutto africano: negli anni, gli svizzeri di Trafigura sono stati accusati di traffico di rifiuti tossici in Costa d’Avorio, gli svizzeri di Glencore di elusione fiscale in Zambia, lo svizzero-israeliano Beny Steinmetz di corruzione in Guinea, gli svizzeri di Vitol di sottofatturazioni in Nigeria. Secondo il Center for Global Development di Washington solo le triangolazioni sottocosto con la Svizzera costano ogni anno almeno otto miliardi di dollari ai Paesi in via di sviluppo. Come tappare la falla? Alla «Dichiarazione di Berna» amano citare un vecchio giudice federale americano secondo cui Sunlight is the best disinfectant: la luce del sole è il miglior disinfettante, quindi per sanare le storture del settore basterebbe accendere i riflettori della Rohma.
Ma la Rohma non c’è. Per la Zug Commodity Association è inutile alzare la pressione sugli operatori svizzeri perché i veri problemi «stanno nei Paesi d’origine», mentre per la Geneva Trading and Shipping Association una nuova autorità di controllo sarebbe solo un inutile mostro burocratico. E sì che, secondo la legge (virtuale) sul commercio di materie prime, l’authority (altrettanto virtuale) di controllo del settore dovrebbe impedire alle aziende svizzere la compravendita di merci illegali, o di beni sottoposti a sanzioni, prodotti in spregio ai diritti umani, acquisiti tramite corruzione o esportati eludendo le imposte nei Paesi d’origine. Puro buon senso, insomma, con un tocco di rigore elvetico da conquistarsi a colpi di verifiche su bilanci, transazioni, strutture societarie: «La trasparenza è la leva per mettere fuori gioco operatori spregiudicati e governi corrotti» sintetizza il portavoce di Erklärung von Bern.
Nel frattempo, sempre a Berna, il Governo è passato dalla negazione del problema alla riduzione del danno. Nel marzo 2013 un rapporto federale sul commercio di materie prime evidenziava le criticità della piazza elvetica. Sono seguite delle raccomandazioni ufficiali in tema di sostenibilità etica e ambientale. «Ma senza vincoli non cambierà mai nulla» sostengono i promotori della Rohma.
Eppure la spinta è forte, e probabilmente tutto sta già cambiando: «Chi avrebbe immaginato anche solo dieci anni fa che avremmo rinunciato al segreto bancario» rileva Mark Pieth, giurista dell’Università di Basilea e (pseudo) consigliere d’amministrazione della nuova authority. Come per il sistema finanziario, anche qui si scrive Svizzera ma si legge «il mondo in cui viviamo».
Tra slanci virtuali e frenate reali, in gioco c’è molto più del buon nome della Confederazione.