Piero Melati, il Venerdì 5/12/2014, 5 dicembre 2014
IL TESTAMENTO DI BUSCETTA
ROMA. Il «testamento» di Tommaso Buscetta, il più grande pentito della storia della mafia, è destinato a riaprire vecchie ferite. A trent’anni dalle prime rivelazioni di colui che venne definito «il boss dei due mondi» (366 ordini di cattura che terremotarono l’Italia e la successiva celebrazione del Maxiprocesso di Palermo) e a quattordici dalla morte (avvenuta a New York, sotto un programma di protezione testimoni), il suo avvocato storico, Luigi Li Gotti (ex sottosegretario alla Giustizia con Prodi, parte civile nei processi per piazza Fontana, Aldo Moro e Calabresi) dichiara: «Quelli di Giulio Andreotti, di Salvo Lima e dei cugini Nino e Ignazio Salvo non furono gli unici nomi di politici vicini a Cosa Nostra che Buscetta indicò. Ci sono altri politici di primo piano, qualificati da lui come uomini d’onore. Alcuni di loro hanno anche fatto una bella carriera nell’Antimafia».
Una bomba, quella di Li Gotti, contenuta nel primo docufilm su Buscetta, confezionato dall’inviato del Tg2 Francesco Vitale. Non solo. Buscetta, secondo il legale, ha messo quei nomi anche per iscritto, in una sorta di «testamento». E lo ha fatto, al pari di quelli di Andreotti, Lima e dei Salvo, sull’onda emotiva causata dalle stragi del 1992, dove persero la vita tra gli altri i giudici Falcone e Borsellino. Dopo i massacri, interrogato negli Stati Uniti dal procuratore Giancarlo Caselli e dall’aggiunto Guido Lo Forte, don Masino aveva parlato per la prima volta dei legami tra mafia e politica, come mai prima aveva fatto, neppure con Falcone. Successivamente era sbarcato a Roma, dove rimase un mese. Nel corso di questo periodo, era stato ascoltato da una interminabile catena di interlocutori: procure, commissioni parlamentari, investigatori. Durante una di queste sedute, Buscetta vergò il suo «testamento», redigendo per la prima volta su un foglio la lista dei politici italiani affiliati a Cosa Nostra.
Ma successivamente, racconta ancora l’avvocato Li Gotti a Francesco Vitale, don Masino si rifiutò di verbalizzare quelle confessioni. Il motivo? Lo avrebbe spiegato indirettamente, con solare chiarezza, al fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari e all’inviato Giuseppe D’Avanzo, in una intervista rilasciata nel dicembre del 1992. Disse allora Buscetta: «In questi giorni un pentito si decide a verbalizzare e quel verbale finisce sui giornali prima che l’indagine abbia inizio. Ho letto sui giornali che anche io avrei fatto il nome di Domenico Signorino come di un giudice colluso con la mafia. Una falsità». Signorino, uno dei due pubblici ministeri del Maxiprocesso di Palermo, si sarebbe suicidato per la vergogna. Dice ancora Buscetta: «Signorino è stato sacrificato in una campagna di disinformazione. Nei prossimi giorni la campagna si intensificherà e avrà come obiettivo la distruzione dei pentiti come testimoni credibili. Per questo me ne andrò dall’Italia».
Buscetta non ci crede più. Era abituato agli interrogatori di Giovanni Falcone. Ogni giorno, per tre mesi, solo in due, il pentito e il giudice, e quest’ultimo che redigeva a penna il verbale della giornata. Massima discrezione, tutto top secret. E ora, invece? «Mi sono trovato per giorni a ricevere giudici. Venivano da ogni parte d’Italia.
L’altro giorno sono venuti in cinque da Palermo. Dico, cinque. Mi sono trovato in una baraonda. Non credo sia normale annunciare con dieci giorni di anticipo che Buscetta testimonierà nell’aula di Rebibbia, a Roma, in pubblica udienza. In America non sarebbe mai successo. E poi la solita sarabanda di giudici contro giudici. Lo chiamano il Palazzo dei veleni. Altro che veleni, è stricnina pura. Sono deluso, per questo me ne andrò».
Così il boss dei due mondi tornò tra le braccia della sicurezza americana. E quel foglietto con i nomi? «Su tutto calò una fitta nebbia» dice Li Gotti. Oggi non si sa più chi ha in mano il «testamento». Un fatto è certo, racconta Francesco Vitale nel suo dossier tornato a Miami, dove risiedeva all’epoca sotto falso nome, Tommaso Buscetta passò alcune notti sul balcone di casa, seduto con una coperta sulle ginocchia, imbracciando un fucile a pompa. Non aveva fatto ufficialmente nomi di politici, ma aver indicato Andreotti come «referente romano» di Cosa Nostra, per il tramite di Salvo Lima, era bastato a risvegliare in lui antiche paranoie.
Buscetta era disgustato anche da altro. Dopo le stragi, erano stati arrestati e si erano pentiti «macellai» come Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, quest’ultimo il killer dei suoi figli. Lui si era ribellato: «Ma cosa state facendo? Con questi non si va da nessuna parte, così il pentitismo è finito». Don Masino era stato per Falcone la stele di Rosetta. Come quella era servita a decodificare i geroglifici egizi, cosi lui aveva rischiarato la foresta oscura della mafia. Un oracolo. Gli avevano ammazzato dodici parenti, tra cui i figli. Uno, Antonio, aveva vestito la divisa di soldato americano ed era stato in Vietnam. Masino si era pentito per vendicarsi. Ma aveva capito che, seguendo la strada da lui indicata, Cosa Nostra poteva essere distrutta. E ora vedeva quella strada impantanarsi in mille rivoli.
L’inchiesta di Raidue mostra l’album di famiglia del boss dei due mondi. Le origini di un padrino all’altezza della leggenda. Quando venne arrestato per la prima volta nel 1972 (tornava a Roma dal Sudamerica, accusato di traffico di droga) girò, nei sette anni successivi, ben tredici carceri. «Io tenevo l’ordine», racconterà dopo, da pentito, lasciando capire di aver ricevuto un «mandato» dentro quella dead zone dove Stato e clan si sono spesso scambiati i confini. Al punto da mediare con le Brigate rosse per la liberazione di Aldo Moro, finché ricevette dalla stessa Cosa Nostra l’ordine di lasciar perdere, perché «Moro doveva morire».
Ottenere trasferimenti da un carcere all’altro era un gioco da ragazzi. Teneva, nei freezer delle infermerie, un siero per iniettare il virus della Tbc nelle urine. E si imboniva i detenuti migliorandone le condizioni, fino a trasformare l’antico carcere borbonico dell’Ucciardone in un hotel a cinque stelle (come racconta nel dossier di Raidue il pentito Gaspare Mutolo), dove si consumavano feste a base di champagne e cibi sopraffini.
Tutta la sua vita è stata una trattativa sul filo del rasoio. Larry Schoembach, l’avvocato americano di Tano Badalamenti (il boss dei Cento passi, mandante dell’omicidio di Giuseppe Impastato) divenne famoso per il detto: «Tre cose sono certe nella vita: la morte, le tasse, il silenzio di Badalamenti». Ma a quel padrino vecchio stampo, morto nelle carceri statunitensi, Buscetta era legato da antico sodalizio. Così fu lo stesso avvocato di Badalamenti, in un colloquio da film, a lanciare messaggi a don Masino, sul conto di Andreotti. «Spesso il silenzio dice più delle parole» disse il legale di don Tano a Buscetta, lasciando intendere che Badalamenti era disposto a non smentirlo sui rapporti tra Andreotti e la mafia, se questi in cambio lo avesse scagionato dal grande giro di droga denominato Pizza Connection. Buscetta tagliò corto: «Non capisco cosa Badalamenti voglia da me...».
Don Masino comprese che era meglio sparire dalla scena quando il giornalista e futuro senatore (prima vicino a Berlusconi, oggi suo accusatore) Sergio De Gregorio lo intercettò nel ’95 in una nave da crociera sul Mediterraneo, su «soffiata» anonima. Storia e foto finirono sui giornali, allo scopo di screditarlo. Tutti passaggi oscuri di una epopea, quella del boss dei due mondi, che si rifiuta di diventare un cold case. Era del 2011 la notizia di una imminente fiction su Buscetta, interpretato da Luca Zingaretti. Due anni dopo si parlò di un’altra, con protagonista stavolta Pierfrancesco Favino. Fino ad oggi non sono pervenute. Ben venga, dunque, il docufilm di Raidue.
Piero Melati