Giulia Pesce, il Venerdì 5/12/2014, 5 dicembre 2014
IL POETA SPIONE DELLA STASI, CHE DOPO 25 ANNI NON SI È PENTITO
BERLINO. La sera del 9 novembre 1989 anche Sascha Anderson, uno dei maggiori esponenti della controcultura di Berlino Est, uscì e si avvicinò alla linea divisoria che per 28 anni aveva tagliato in due la città e in quelle ore si stava aprendo. Saltò oltre il muro, passò la frontiera e andò a trovare gli artisti che ancora vivevano nel mondo socialista e che tre anni prima aveva lasciato per trasferirsi definitivamente all’ovest. Probabilmente però in quei momenti di euforia collettiva, nello scrittore, anche conosciuto come il guru di Prenzlauer Berg, quartiere ormai radical chic, ma ai tempi roccaforte proletaria e covo di artisti non sempre allineati con l’ideologia dominante della Germania Est, non prevalse soltanto il lato emozionale ma iniziò anche a emergere la parte razionale.
Sascha oggi sostiene di non aver pensato neanche un istante ai dossier della Stasi in quel momento, ma la sua situazione di lì a poco sarebbe cambiata. Il 9 novembre, infatti, poco prima che cadesse il muro era una normalissima serata berlinese, dunque molto fredda. Helge Leiberg, pittore e scultore di una certa fama, nato e cresciuto a Dresda, espulso dalla Germania Est nel 1984 per aver organizzato un evento in onore del libro libero, era a casa di Sascha Anderson, insieme a un gruppo di amici, a Schöneberg, quartiere di Berlino Ovest, dove lo scrittore si era trasferito. Chiacchieravano. La televisione faceva da sottofondo e sentirono echeggiare nel salotto le parole di Günter Schabowski portavoce del governo della Repubblica Democratica Tedesca, che costituirono la definitiva spinta all’apertura della frontiera tra la Germania Est e quella federale. In quel momento lo scrittore, vedendo sgretolarsi il sistema manicheo che per tutta la sua vita aveva rappresentato una certezza, pronunciò soltanto questa parola: Scheisse!, ossia merda!
Poco dopo uscirono e nessuno pensò più a quella strana reazione. Nei mesi successivi iniziarono a circolare nell’ambiente artistico molte voci sui rapporti privilegiati di Sascha Anderson con il ministero per la Sicurezza di Stato della Ddr. Ebbene sì, l’artista alternativo della Germania Est era, come altri 170.000 cittadini, un collaboratore non ufficiale della Stasi, insomma un informatore (a questa cifra vanno aggiunti 93.000 agenti impiegati ufficialmente dal ministero per la Sicurezza di Stato). Da allora nessuno ha più parlato di lui come un guru ma è diventato noto piuttosto come il poeta spione di Prenzlauer Berg.
Il suo compito era riferire al governo i movimenti e le dinamiche della cerchia di artisti della Ddr per indebolirla. Un impegno che svolse sempre con convinzione ma, a quanto racconta, senza aver mai mandato nessun «amico» in carcere. Effettivamente quello a cui andavano incontro nella maggior parte dei casi gli artisti che a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta mostravano il loro dissenso, era ricevere una cartolina per l’espatrio che li obbligava a lasciare il Paese in 24 ore. E questo fu anche il trattamento riservato nel 1976 a Wolf Biermann, cantante e poeta che nel 1953 aveva abbandonato la vita sfavillante dell’ovest perché comunista e marxista convinto.
Fu proprio Biermann, famoso per la canzone Ermutigung, ossia incoraggiamento, assurta a inno clandestino della Germania Est, a smascherare pubblicamente nell’autunno del 1991 Sascha Anderson. In quell’occasione il poeta spione negò tutto e non ammise di essere una spia fino al 1999 quando l’accusa divenne ufficiale, documentata dai dettagliatissimi dossier della Stasi che sono in totale circa 5 milioni parecchi, considerando che gli abitanti della Ddr erano quasi 17 milioni e occupano 176 chilometri di scaffali.
A distanza di 25 anni dalla caduta del muro, durante un dibattito pubblico in occasione della presentazione del film Sascha Anderson della documentarista Annekatrin Rendel, lo scrittore che oggi lavora come grafico a Francoforte, non ha nessuna voglia di rielaborare il proprio passato, non vuole rispondere a domande che implichino un coinvolgimento psicologico e continua ad (fermare che non deve scusarsi con nessuno perché dal 1975, anno in cui iniziò a collaborare con la Stasi, ha soltanto dimostrato i propria lealtà verso il sistema. «Ero un bambino nato dopo la fine della seconda guerra mondiale» racconta, «mia nonna era ebrea e russa, quindi entrare a far parte di un sistema che si opponeva al fascismo e al vecchio ordine politico era giusto e fondato dal punto di vista ideologico».
E a chi prova a far breccia nei suoi sentimenti chiedendo cosa racconterà ai nipoti del proprio passato, risponde, senza tradire nessuna emozione, «parleremo di letteratura». Al pubblico in sala questo atteggiamento non piace. Il film non ha soddisfatto gli spettatori. Affrontare un argomento come la stasi senza mostrare le atrocità e sofferenze patite dai cittadini che non sposavano completamente l’ideologia dominante appare come un affronto alla accurata rimozione del passato in nome della Germania unita. Cercare di offrire un nuovo punto di vista attraverso la storia di un uomo che non abiura il proprio passato sembra ai tedeschi di oggi una provocazione ancora intollerabile.
In sala montano mormorii, sbuffi, grida e si percepisce un senso comune di indignazione. «Perché ti sei prestato a fare un film su di te e a metterti al centro di un dibattito pubblico se poi non rispondi alle domande?» chiede qualcuno. Sascha continua a tacere, ma resta, nonostante il silenzio, protagonista di un pubblico processo. Probabilmente nel celebre film Le vite degli altri Anderson sarebbe stato classificato come un artista con «isteria da antropocentrismo» e curato attraverso lunghi periodi di isolamento: nessun processo, nessuna tortura e nessun maltrattamento di cui poter scrivere dopo il rilascio. Ecco, forse, nella Ddr dei primi anni se Sascha Anderson fosse stato davvero un dissidente avrebbe semplicemente smesso di scrivere, perché il trattamento che la Stasi dedicava a quel tipo di artisti era volto a spegnerne la vena artistica. Ma lui che invece nel ministero per la Sicurezza di Stato lavorava, un libro l’ha scritto eccome (un’autobiografia, nel 2002) ed è ancora al centro della ribalta.