Enrico Deaglio, il Venerdì 5/12/2014, 5 dicembre 2014
DOLCI SEGRETI DI FAMIGLIA
ALBA. Il giorno in cui la rivista americana Forbes l’equivalente per i capitalisti della Guida Michelin per i cuochi l’ha dichiarato uomo più ricco d’Italia e 23° del mondo, per Michele Ferrero è stato un giorno come gli altri; l’ha passato tra Montecarlo e il suo laboratorio di Alba, tra alambicchi, bilancini, filtri e bollitori, cacao, nocciole tostate, olio di palma, testando e provando idee nuove per snack e merendine. Piuttosto, una seccatura: la pubblicità non gli è mai piaciuta. Michele Ferrero non è sicuramente di quelli che ne fanno una malattia se scendono di un punto, nella classifica di Forbes o Bloomberg; anche perché in quella classifica (ramo Italia) da decenni sta tra i magnifici dieci. Così come non gli è mai interessata la vita mondana, ricevere una laurea honoris causa e, men che meno, diventare proprietario di una squadra di calcio o sponsorizzare un partito politico.
Alla soglia dei novant’anni, Michele Ferrero, piemontese profondo, langarolo di adozione, cosmopolita per necessità e vocazione, è davvero diverso da tutti gli altri Paperoni italiani che ottengono il riconoscimento. Per molte ragioni. La prima è che, a conti fatti, risulta essere il più ricco di tutti nella storia italiana (molti altri hanno avuto ricchezze volatili); la seconda è che, se potesse, il suo nome non sarebbe neppure noto al pubblico (disilu a niun, non ditelo a nessuno è il suo motto); la terza, la quarta, la quinta che a differenza dei suoi colleghi, la sua vita è sempre stata solo il suo lavoro, la sua fede religiosa, la sua famiglia e un qualcosa di profondo che lui chiamerebbe senso di responsabilità verso gli altri. Insomma Michele Ferrero, nipote di contadini poveri, figlio di un pasticciere con laboratorio ad Alba, provincia di Cuneo, oggi a capo del quarto gruppo mondiale del settore dolciario, con patrimonio stimato (prudenzialmente) da Forbes in 20 miliardi di dollari è l’homo oeconomicus italiano più diverso dagli Agnelli, dai Berlusconi, dai Benetton, dai Barilla, dai Ferruzzi, dai Pirelli; uno stranissimo animale nel panorama dei condottieri imprenditori italiani.
Anacronistico, in un mondo globale e di iperfinanza, Michele Ferrero è formalmente un pensionato che in vita sua non ha mai messo piede a Wall Street, a piazza Affari; non ha mai preso la parola in Confindustria e non è mai comparso in tv. Non ha mai dato un’intervista nella sua vita. E se compare una sua fotografia, il volto è nascosto da grandi occhiali da sole. Si sa che è uno storico tifoso del Torino, ma non lo direbbe mai, perché teme che in quel caso i gobbi non comprerebbero più Nutella. La sua storia è davvero da romanzo, un pezzo d’Italia sconosciuta. E il finale è altrettanto thrilling: riuscirà la Ferrero International a far mangiare Nutella e Rocher a un miliardo di cinesi, o cederà dignitosamente le armi di fronte alle scandalose proposte di Nestlé e Kraft? Si trasformerà nella solita multinazionale finanziaria senza volto e senza coscienza, o resterà il simbolo della piccola Alba, la cittadina del Cuneese che, a seconda del vento, porta nelle narici una comunque dolce zaffata di cioccolato?
La storia comincia con la liberazione dal nazifascismo, che ad Alba vide tanti morti, tanti patimenti e tanti partigiani: rossi, azionisti e cattolici. Le Langhe di allora non erano quelle di oggi, patrimonio universale dell’Unesco, patria del Barolo, del tartufo e culla dello slowfood. Nel 1945, la provincia di Cuneo era il Nord più sconosciuto, misero e depresso. E quindi, l’iniziativa del pasticciere Pietro Ferrero fu vista come una specie di miracolo. Si era inventato un dolcetto che costava poco, perché era fatto con poco. Nocciole che crescevano in zona, mischiate a scarti di cacao e cioccolato che si compravano in Svizzera formavano una pasta cremosa che piaceva ai bambini. Prese il nome di giandujot, lo si vendeva a tocchi come il salame o si spalmava. Pietro Ferrero prese ad andarlo a vendere nelle fiere e a fornire i bar, gli orfanotrofi, le scuole. Per capire che cos’era diventato in appena due anni, c’è uno splendido racconto breve di Beppe Fenoglio, Ettore va al lavoro, dove c’è un giovane ex partigiano, disadattato alla vita civile, cui il padre ha trovato, per intercessione di un ragioniere, un posto da impiegato nella fabbrica del cioccolato. Ettore, un po’ mugugnando, accetta, ma prima di prendere servizio si sistema in un orinatoio di fronte all’ingresso della fabbrica e spia «i più di duecento operai e operaie, tutti rivolti al grande portone metallico della fabbrica, come calamitati... La sirena alta sul terrazzino, gli sembrava che l’aria intorno alla tromba tremasse in attesa del fischio...». No, non faceva per Ettore, che era uno spirito libero. E infatti se ne andò col Bianco, il suo vecchio capo partigiano, a fare contrabbando con Savona, con la vecchia pistola sotto il giubbotto.
È grazie alla penna di Fenoglio che sappiamo qualcosa di più degli inizi della Ferrero. Alba cresceva con il cioccolato, i duecento operai diventarono duemila. Venivano dai paesi intorno, il padrone li andava a prendere e li riportava a casa sui pullmini con la scritta Ferrero. Nacque il villaggio Ferrero. E lui donò una fontana alla città. Finanziò asili e una scuola professionale. Il padrone lasciava tempo libero per la vendemmia o per raccogliere le nocciole. Il padrone era buono, ci teneva a che i figli degli operai studiassero e non perdessero i legami con la terra. I sociologi chiamarono quegli operai metalmezzadri; una classe che veniva su non solo nelle Langhe, ma anche nel Canavese, a lavorare per le macchine da scrivere di Camillo e Adriano Olivetti. Nel 1950 Ferrero vendeva in Piemonte i suoi prodotti con duecento camioncini. Pochi anni dopo la flotta era quintuplicata. Si diceva che il parco camion fosse secondo solo a quello dell’esercito italiano.
Talmente clamoroso fu il successo, che non poteva mancare una leggenda locale sulle origini di tanta fortuna. Secondo racconti che ancora adesso vengono tramandati, ad Alba finì il tesoro della Quarta Armata dell’esercito italiano, che dopo l’8 settembre si era ritirata dal Sud della Francia per poi dissolversi nel Cuneese. Centinaia di milioni, più oro, più titoli (bottino di guerra), sarebbero finiti nelle mani dei partigiani di Alba sotto l’occhio vigile della Curia che li spartì tra imprenditori di buona volontà. Chi ne beneficiò? I nomi ricorrenti sono quelli di Ferrero e di Miroglio (che qui costruì un impero tessile); divertente che ora coinvolgano anche la famiglia Farinetti, quello di Eataly. Tutte fantasie, naturalmente, ma così dense di misteri di Langa che il giornalista, albese, Aldo Cazzullo anni fa le usò per un romanzo (La mia anima è ovunque tu sia), thriller post fenogliano tra passioni collettive e questioni private, metafore dell’origine della nuova Italia. Leggende a parte, la Ferrero crebbe con il motto lavorare – creare – donare. Profondamente cattolici (i Ferrero vanno in pellegrinaggio ogni anno a Lourdes), il fondatore Pietro e suo figlio Michele hanno sempre favorito un capitalismo «armonico con la struttura sociale in cui si agisce», ottime relazioni con il sindacato e si sono fatti fautori di una responsabilità sociale alla quale è ispirato ancora oggi il dettagliatissimo rapporto annuo delle loro attività (a cominciare dall’aiuto agli studi dei figli dei dipendenti, che arriva fino all’università).
In questo sono rari nella storia industriale italiana che in genere vede, dopo un successo iniziale del prodotto, la corsa ad ottenere una parassitaria concessione statale a far pagare allo Stato i costi sociali delle imprese. Ma più ancora, l’unicità Ferrero è stata, dall’inizio, la visione internazionale del prodotto. Quella crema alle nocciole spalmabile, frutto di un dopoguerra povero, succedanea del latte cremoso simbolo culturale e politico del benessere, ha unificato l’Europa prima della moneta e della finanza. Nata nel 1964, già nel nome inglese (Nutella da nut, radice di hazeinuts, nocciole), venne testata per ottenere un gusto riconoscibile da Rotterdam a Palermo. Ora che Nutella compie mezzo secolo di vita, è celebrata come un mito che rimanda all’infanzia di un continente che da settant’anni non conosce la fame o la guerra. Esiste una generazione Nutella (da noi Veltroni, Nanni Moretti e ora Renzi), venuta dopo la tazza di caffè e latte, l’alimento Mellin, la mela nella cartella, il pane e marmellata, il fascismo e il comunismo.
La combinazione di attaccamento locale e dimensione internazionale è la caratteristica della storia Ferrero. Istituzione totale ad Alba (4.000 dipendenti su 30.000 abitanti), dotata di un gioiello culturale come la Fondazione Ferrero (retta sul lavoro volontario di ex dipendenti in pensione), da trent’anni ha stabilimenti in Germania, Canada, Francia, Polonia, Australia, Brasile, Argentina, dove la filosofia del fondatore privilegia insediamenti che ricreino «tante piccole Alba in giro per il mondo». La Ferrero International, società controllante tutto il gruppo, ha invece sede in Lussemburgo. Nel 2013 ha fatturato 8,1 miliardi di euro (+ 5,6 per cento sul precedente) e vende in cento Paesi del mondo. Non è quotata in borsa, non distribuisce dividendi, non è esposta con nessuna banca e nel 2013 ha annunciato un utile di 795 milioni, diminuito rispetto alle aspettative da non meglio precisate turbolenze dei cambi. Nel mercato mondiale del cioccolato, Ferrero è quarta dopo Mondelez (ex Kraft), Nestlé e Mars. Nutella, Rocher, Tic Tac, Kinder sono i principali prodotti di un gruppo che conta 30 mila dipendenti nel mondo, di cui 6.561 in Italia ed è al primo posto nella classifica mondiale per reputazione. Nessun appunto le è mai stato fatto per bassi salari, lavoro minorile, sfruttamento delle materie prime, abuso di posizione, rilievi dell’associazione consumatori. Secondo il Wall Street Journal, chi la volesse acquistare dovrebbe pagare 30 miliardi di dollari. Nel 2013, per la prima volta nella sua storia, le vendite in Italia sono diminuite del 5 per cento, ma, informa la società «la garanzia dell’occupazione è stata tutelata, grazie alla priorità data ai valori umani e sociali che, da sempre, caratterizzano la nostra cultura aziendale». A conferma, i sindacati hanno firmato un sontuoso contratto aziendale, naturalmente e come sempre senza un’ora di sciopero. Davvero una mosca rara, di questi tempi moderni italiani.
Momenti nella vita di Michele Ferrero. Il primo, quando nel 1975 percepì il pericolo che i suoi due figli, Pietro e Giovanni, potessero essere rapiti dalle Brigate Rosse. I due ragazzi vennero portati in Belgio ed ebbero un tutore privato per anni, fino a quando riapparvero ad Alba per lavorare in azienda.
I sei anni passati in laboratorio a testare come il wafer potesse unirsi a un foglio di cioccolato. Alla fine, nel 1982, nacque il Rocher, per Ferrero quello che è stato l’iPhone per Jobs. Il cioccolatino sferico a strati di nocciola, cioccolato e cialda, avvolto in una pellicola di alluminio dorata oggi è prodotto da robot e sostenuto da una campagna pubblicitaria (Ambrogio, la moglie dell’ambasciatore) diventata storica. Le linee di montaggio ad Alba ne sfornano 900 al minuto, si calcola che gli esseri umani ne mettano in bocca 26 milioni al giorno.
Limitati al massimo i rapporti con il potere politico italiano, pur essendo il principale big spender di Rai e Fininvest. Mai una tangente, mai uno scandalo. Unico cedimento nell’85, quando fugacemente Ferrero partecipò, con Pietro Barilla, alla famosa cordata di Berlusconi per acquistare la Sme, l’altrettanto famosa industria alimentare di Stato. Vicenda talmente fugace che gli annali della Ferrero non ricordano nemmeno l’avvenimento. Il principale legame con l’Italia è l’ambasciatore all’Onu Francesco Paolo Pulci, presidente della Ferrero International, considerato il più efficiente e preparato diplomatico che il nostro Paese abbia mai avuto.
Nel novembre ’94, una disastrosa alluvione sommerse lo stabilimento di Alba. Operai e sindacalisti per primi accorsero a spalare. Michele Ferrero, che a bordo di un gommone Zodiac aveva messo in salvo la Madonnina che protegge le catene di montaggio, dopo pochi giorni la rimise al suo posto e annunciò che per Natale tutti i prodotti sarebbero stati negli scaffali. E che le sorprese contenute nei Kinder – che a quel punto la piena del Tanaro aveva fatto arrivare all’Adriatico – sarebbero state al loro posto negli ovetti.
Nel 2011, la tragedia famigliare. Pietro Ferrero, il figlio maggiore e Ceo del gruppo, muore per infarto a 47 anni mentre si allena in bicicletta in Sudafrica. Era il nuovo leader della multinazionale, da cui sarebbero dipese le scelte strategiche. Tutta Alba, commossa e preoccupata per il futuro si ritrova per i funerali in cattedrale, dove il fratello Giovanni annuncia che i Ferrero terranno sempre fede alla loro responsabilità sociale. Per quanto riguarda lui, prenderà il comando e dovrà rinunciare alla sua vocazione di scrittore e romanziere. In silenzio e da solo, in preda ad un dolore inconsolabile, il padre Michele entra nel capannone dove il figlio conservava tutte le sue biciclette, i resoconti dei suoi record, gli strumenti della sua passione e, a mani nude, sfascia tutto.
Oggi l’uomo più ricco d’Italia dirige ancora personalmente il colosso che ha creato. Il patriarca controlla il prodotto, di cui ama dire che «è lui il mio padrone». Dietro le tonnellate di nocciole e i fiumi di cioccolato, Michele Ferrero, con la moglie Maria Franca e il figlio Giovanni, controllano tra Alba, Montecarlo e Bruxelles un’attività strategica colossale. Ascoltano i report sul crollo della produzione di cacao, le nuove leggi sui dolcificanti in Europa, le campagne contro l’obesità, l’impatto della siccità in California sulla produzione di mandorle, le strategie delle grandi case farmaceutiche: è vero che si butteranno sempre di più sulle bevande energetiche? Senza contare che devono decidere in grandissimo segreto quali sorprese mettere nei Kinder e sguinzagliare i loro 007 per scoprire le mosse della concorrenza. (È uno dei più importanti segreti industriali del mondo). Negli ultimi anni Michele Ferrero ha rifiutato di comprare Parmalat, l’inglese Cadbury o la Perfetti (Gomma del Ponte, Chupa Chups); di farsi comprare da Nestlé, ma anche di delocalizzare la produzione da Alba. Ha invece comprato Oltan, il più grande broker di nocciole del più grande Paese produttore, la Turchia, cosicché adesso si è messo al sicuro dagli sbalzi di prezzi, e i concorrenti dovranno comprare da lui.
Tutto è monitorato, le reazioni devono essere rapide. Ma la decisione epocale è ormai stata presa: sbarcare in Cina in gran forze, pur mantenendo Alba nel cuore. Sarà possibile? E soprattutto: da solo?
Enrico Deaglio