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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

FINALMENTE BARUCHELLO

Forse lo ha sempre saputo, Gianfranco Baruchello, che prima o poi avrebbe vinto lui. Lui: l’artista «sperimentatore» come è scritto in quasi ogni biografia che lo riguardi. Perché tante e tanto diverse cose ha fatto nella sua poliedrica vita, da rendere difficile un’altra definizione. Baruchello che nei primi Sessanta colleziona frammenti e li immortala con matite colorate su tele bianche; Baruchello che costruisce totem con pezzi di legno, ferro, materiali di recupero e viene arruolato da Pierre Restany nel Nouveau Réalisme (la risposta europea alla Pop Art); Baruchello che negli anni Settanta compone teatrini con collage di giornali e origami di saggi battezzandoli con titoli tipo “I manifestanti sono invitati a moderare la terminologia antisindacale”; Baruchello che inventa azioni e scenografie teatrali, che scrive volumi e li scompagina in libri d’artista, che è amico dei filosofi (e molto meno dei critici), che occupa terreni destinati alla speculazione edilizia per fondare una comunità “Agricola Cornelia” con intenti contadini ed etico/estetici. Baruchello, infine, che un giorno, insieme a quel cineasta di genio che fu Alberto Grifi, comincia a incollare alla moviola pezzi di pellicole di film per ricomporne uno diventato assoluto culto: “Verifica incerta”. Baruchello disobbediente al sistema dell’arte e troppo instabile per il mercato. Stimato ed evitato per anni.
Finché qualcosa è successo. A 78 anni Gianfranco Baruchello, nato a Livorno nel 1924, è scelto da Carolyn Christov come uno dei punti di riferimento della sua Documenta del 2012. L’anno dopo è tra i pochi italiani a entrare nel Palazzo Enciclopedico della Biennale di Massimiliano Gioni e contemporaneamente rappresenta l’Italia come uno dei maestri indiscussi nel Padiglione nazionale firmato da Bartolomeo Pietromarchi. Tra l’una e l’altra apparizione omaggi d’ogni genere. Lo intervistano sia Maurizio Cattelan che Hans Ulrich Obrist. Il più potente gallerista italiano, Massimo De Carlo, gli dedica un “one man show” nella fiera di New York appena chiusa. La Viennale (film festival della capitale austriaca) prima e il Grand Palais dopo, proiettano come testo di studi “Verifica Incerta” mentre un editore svizzero prepara il dvd con tanto di extra. E tra pochi giorni (il 9 dicembre) la Triennale di Milano vara la prima antologica sulla sua produzione filmica, per la cura di Alessandro Rabottini, giovane, serio e preparatissimo curatore che a lui aveva già dedicato approfonditi workshop al Madre di Napoli.
Che cosa sia esattamente successo e perché questo intelligente e ironico signore abbia dovuto aspettare tanto per essere venerato è il tema di questo incontro.
Dai primi anni Sessanta agli anni Dieci del nuovo secolo. Cinquant’anni di solitudine e ora la gloria. Come spiega quest’omaggio da parte soprattutto delle nuove generazioni di critici e curatori?
«La domanda è simpatica. Ma che devo dire? Meglio tardi che mai? Del resto Duchamp ci ha messo cent’anni per essere metabolizzato. Non mi equiparo a Duchamp, sia chiaro, ma lo prendo a esempio di chi sceglie una ricerca da isolato. Di chi non è nella squadra e insegue un linguaggio che con quello delle altre squadre non c’entra niente. Ed è faticoso, mi creda, sostenere un linguaggio per cinquant’anni di seguito sentendosi soli».
Non ama la solitudine?
«Non è propriamente la mia passione. Ma se vuoi camminare in un bosco, non puoi far finta di essere in pianura. Quindi devi continuare a seminare sassolini per non perderti. Ogni tanto mi palesavo fuori dal bosco e tutti dicevano: “Ma che c’entra qui Baruchello?”, oppure “Toh: c’è anche Baruchello!”».
Tutti chi? A che cosa si riferisce?
«Ai tempi in cui c’erano le scuderie e i critici di riferimento. L’Arte Povera di Germano Celant; gli artisti di Achille Bonito Oliva. Germano del mio lavoro apprezzò soprattutto “Verifica Incerta” e la volle per la sua importante mostra al Centre Pompidou sull’”Identità italiana” nel 1981. Il film per lui era un oggetto di culto, ma io non ero fra i “suoi” artisti. In fondo sono stato più appoggiato da Achille che ho conosciuto quando aveva 22 anni, i baffoni, i pantaloni a campana, ballava alle feste del Gruppo 63 e presentava le sue poesie a Sanguineti, Pagliarani e Balestrini. Loro lo guardavano con facce da giudici tedeschi fino alla terribile domanda “Ci illumini: qual è la sua poetica?”. E lui ispirato: “Queste mie cose son per me come superfici splendide”. Si può immaginare la reazione. Ah i versi di Achille!».
Comunque Bonito Oliva le è stato vicino.
«È sempre stato un uomo divertente e ha amato il mio lavoro come un esempio italiano di Fluxus. Ma siamo sinceri: non lo ha mai difeso fino in fondo. Quando poi ha lanciato la Transavanguardia non ho capito più niente. Ho visto solo brutti quadri. E anche se gli autori erano tutti persone deliziose, non ho avuto la minima tentazione di dire: “Adesso mi lancio anch’io nella squadra della Transavanguardia”. Mi continuavo a domandare invece: “Ma che significa Transavanguardia? Qual è il sigillo di questo movimento?”. A parte Achille naturalmente. Così mi isolai ancora di più. Forse è sempre stata colpa mia, non ero un tipo simpatico. Troppo orso. Anarchico. Poco adattabile».
Che intende dire?
«Le faccio un esempio. Nel 1972 andai a New York con un lavoro che facevo allora: oggetti fatti con ritagli di giornali incollati su tavola. Li chiamai “Cimiteri di opinioni”. Uno era nato per la morte di Pinelli. Un altro in omaggio a Feltrinelli. Ileana Sonnabend ne fu entusiasta. I collezionisti pure. Vendetti tutto e lei mi disse: “Baruchello, d’ora in poi dovrà fare solo questi lavori e in due anni le assicuro che diventerà il più grande incollatore di giornali di tutti i tempi!”. Ma io risposi: “Mi dispiace ma ho finito. Ora voglio fare un’altra cosa”. Così non sono diventato il più grande incollatore: e neanche ricco».
Un’occasione persa?
«Assolutamente no. Ho sempre reagito così. Quando facevo opere con il plexiglas una famosa collezionista americana incontrata ad un party mi disse: “Baruchello adoooro il suo plexiglas: se potessi lo porterei al collo come un gioiello!”. Da quel momento non ne ho fatti più. “Se quella se lo vuole mettere al collo”, ho pensato, “ci deve essere qualcosa che non torna in quel lavoro”».
Questa attitudine anarchica le arriva da Duchamp? Fu un padre spirituale per lei, non è vero?
«Semmai uno zio. Duchamp non poteva essere padre di nessuno. È stato un tombeur de femmes e forse qualche figlio in giro ci sarà pure stato, ma non era provvisto di senso paterno».
Come lo ha conosciuto?
«Ho fatto di tutto per conoscerlo. Un collega mi dice che Duchamp è a Milano, prendo un aereo e lo raggiungo in un ristorante. Era il 1963 e Duchamp non era mica così famoso. Ma io, avendo letto la raccolta di suoi scritti “Marchand du sel” che mi aveva passato Sebastian Matta, ne ero rimasto profondamente colpito. Ero timido e mi feci forza. “Scusi se la disturbo, sono un pittore italiano e vorrei conoscerla”. Di fronte a me c’era un uomo generoso, disponibile, attento soprattutto a chi faceva il suo stesso mestiere e giocava a scacchi con lui. Ebbi subito l’impressione di aver trovato un parente stretto. Ho una sua foto mentre monta i miei quadri in una galleria e una sequenza di un film di Warhol in cui è seduto di fronte a un mio lavoro. Fu un amicizia fatta di tanti pensieri e tanti discorsi. Ma gli devo soprattutto di avermi trasmesso la determinazione nel sostenere un proprio linguaggio personale anche quando è difficile imporlo».
Dunque per molti anni la sua vita professionale è stata una lotta. Chi erano i suoi alleati?
«Molto più francesi che italiani. Molto più i filosofi, da Lyotard a Derrida, che i critici. E molti giovani artisti. Da tutti loro mi son davvero sentito sostenuto».
Quando si è accorto dell’improvviso successo?
«Non c’è un momento preciso. Ci sono tante cose che si accumulano e poi precipitano fuori dal contenitore. Negli ultimi tempi ho fatto un censimento e mi sono accorto di aver pubblicato ben diciotto libri. Sono tappe. Anche se non hanno avuto un circuito commerciale hanno aperto il terreno alle mostre importanti: la Biennale a Venezia, Documenta e prima ancora la retrospettiva alla Galleria Nazionale di Roma - perché è lì che Carlos Basualdo ha visto il mio lavoro e mi ha invitato nel suo museo a Philadelphia. È così che partono telefonate, contatti proposte... La rete. E una quantità di impegni che all’improvviso ti travolge. Sono stanco, adesso! Il mio lavoro è sempre stato complicato dal fatto che non ho assistenti. Non delego, disegno con china e penne da scuola elementare, elaboro pensieri, costruisco immagini. Sono cose che non si possono affidare a una factory. Chissà: forse anche questo ha ritardato la riconoscibilità del lavoro».
O forse lei è arrivato sulle cose troppo presto. “Verifica incerta” è film/collage del 1964. Ben venticinque anni prima di “Blob”. L’Agricola Cornelia anticipa tutte le nuove correnti di arte collettiva e comportamento. Il suo “archivio delle idee” è un simbolo per i giovani curatori che amano tuffare la testa nelle carte e nei palazzi enciclopedici?
«Certo più enciclopedici di me ne girano pochi. Però tocca a voi cronisti e critici dare una spiegazione. A voi che guardate la realtà, la collegate e la sovrapponete. Io mi sento amato da quei giovani curatori alla ricerca di personalità coerenti persino controcorrente. Quelli che per capire cosa è stato il Novecento dei loro padri vanno a scoprire chi è rimasto fuori dal sussidiario. E guarda caso proprio Maurizio Cattelan e Massimiliano Gioni vanno a segnalare il mio nome tra i 100 artisti di “Cream” (celebre volume di Phaidon del 1998, sulle più influenti personalità dell’arte contemporanea scelte dai curatori emergenti, ndr). Fu uno degli inizi».
Baruchello e Cattelan: un amore corrisposto...
«È un essere unico al mondo. Lo adoro. Credo che nel generare un’idea usi un meccanismo simile al mio. Istintivo, visivo, improvviso, non ragionato. Siamo persone di invenzione, cerchiamo il bordo del sapere e dell’essere. La differenza è che lui nel realizzare la sua idea si affida ad artigiani e manovalanze esterne, mentre io amo la manualità perché fare immagini è dieci volte il piacere di scrivere un libro. È molto erotico».
Consiglierebbe oggi a un giovane artista una carriera simile alla sua?
«Consiglierei il coraggio. La forza di non vendersi alle correnti vincenti sperando di essere accettati dai loro generali. La convinzione di essere nel giusto e non avere mai paura del ridicolo. Il resto fa parte del risico della vita, in cui il talento spesso c’entra poco».