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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

VADO, RITORNO E PAGO CARO

Due mesi fa, mentre si preparava a diventare presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker ha respinto sdegnato ogni critica alla piccola ma ricchissima nazione di cui è stato premier dal 1995 al 2013: «Nessuno è mai stato in grado di convincermi che il Lussemburgo sia un paradiso fiscale. Il Granducato adotta misure in linea con la legge europea». Poi è esploso lo scandalo Lux-leaks: 86 giornalisti del network “Icij” (per l’Italia, “l’Espresso”) hanno rivelato gli accordi segreti (in gergo, “tax ruling”) tra il fisco lussemburghese e migliaia di grandi aziende a caccia di esenzioni sulle tasse. Ma il ministro lussemburghese delle finanze, Pierre Gramegna, resta certo che l’Europa di Juncker assolverà il Granducato: «Le accuse rivolte al Lussemburgo si dimostreranno infondate. Siamo fiduciosi che la Commissione europea concluderà che nessun privilegio fiscale è stato concesso alle società che hanno chiesto i tax ruling».
I due politici hanno senz’altro ragione, nel senso che il sistema fiscale del Granducato ha sicuramente rispettato tutte le norme lussemburghesi. Il problema è che in molti casi sembra avere violato platealmente le leggi di altri Paesi, a cominciare dall’Italia. Con distorsioni e abusi sistematici delle direttive europee che regolano le imposte sulle società.
“L’Espresso” ha schedato decine di istruttorie aperte dal fisco italiano contro aziende nazionali o gruppi multinazionali accusati di essersi autoridotti le tasse, in sostanza, utilizzando apposite strutture societarie create in Lussemburgo. Il problema riguarda anche altri Stati importanti dell’Unione europea, come Irlanda, Olanda e Gran Bretagna. In tempi di crisi nera e bilanci in rosso, tutti i governi interessati respingono accuse e sospetti di voler attirare aziende straniere offrendo una sorta di elusione legalizzata delle imposte. Sta di fatto, però, che in Italia almeno 35 grandi società, finite sotto accusa per queste forme di “shopping fiscale”, hanno accettato di versare al nostro erario, per mettersi in regola, non meno di due miliardi e 545 milioni di euro solo negli ultimi cinque anni.
Si tratta di un bilancio parziale, perché riguarda solo i gruppi di maggiori dimensioni e comprende solo le somme già incassate dallo Stato italiano attraverso indagini fiscali recenti e conoscibili. Al conto si potrebbero aggiungere altri 897 milioni contestati solo ad alcune delle stesse 35 grandi aziende, ma non ancora riscossi. Mentre molte altre inchieste, anche penali, sono ancora segrete. In questo elenco, inoltre, non rientrano le accuse di frode internazionale per nascondere capitali all’estero, magari in paesi offshore, come quelle che hanno portato a sequestrare alla famiglia Riva il miliardario “tesoro dell’Ilva”: i casi qui considerati, invece, riguardano solo i benefici ottenuti in Europa alla luce del sole. Vantaggi che il fisco italiano considera abnormi, ma che per Lussemburgo, Olanda o Irlanda, sono del tutto legali.
I RE DELLA MODA
Molte grandi firme del made in Italy hanno “ottimizzato” le tasse spostando in altri Paesi europei, soprattutto in Lussemburgo, le società che commercializzano marchi e licenze, le tesorerie finanziarie o le casseforti personali dei proprietari. Al primo posto nella classifica delle riscossioni, almeno per ora, c’è il gruppo Prada, che l’anno scorso ha versato al fisco italiano circa 470 milioni. L’istruttoria riguardava la quotazione della grande casa di moda alla borsa di Hong Kong, che ha fruttato ricchissime plusvalenze, incassate all’estero tramite società olandesi e lussemburghesi. Un caso aperto da una verifica della Guardia di Finanza, che nel luglio 2013 sequestrò i computer del commercialista milanese del gruppo. Ora la stilista Miuccia Prada e il marito manager Patrizio Bertelli non solo hanno sanato la pendenza fiscale con quel versamento record, ma hanno anche riportato in Italia la catena societaria di controllo, come precisa la società a “l’Espresso”.
In questi mesi anche il gruppo Armani ha regolarizzato i suoi rapporti con l’estero saldando all’erario italiano circa 270 milioni: nel mirino c’erano i flussi finanziari a favore di tre gruppi di società consociate tra l’Europa e Hong Kong.
Ammonta a 56 milioni, invece, la somma sborsata dalla famiglia Marzotto per chiudere la pendenza fiscale sulla società lussemburghese Icg, creata per incassare i profitti della vendita del gruppo Valentino al fondo Permira. Quest’ultimo ha poi rivenduto la stessa casa di moda a un gruppo del Qatar. Sempre Permira ha versato al fisco italiano altri 70 milioni per una vertenza sui flussi finanziari con il Lussemburgo e le isole britanniche.
Altri due fondi esteri molto attivi nelle scalate a grandi aziende italiane hanno aderito in questi anni ai verbali notificati dal nucleo di Milano della Finanza: Apax ha versato 12 milioni, Bc Partners altri 17.
Anche Domenico Dolce e Stefano Gabbana, pienamente assolti dalla Cassazione nel processo penale, hanno versato circa 40 milioni di Iva, contestata dal fisco italiano alla loro struttura lussemburghese. Resta invece aperto un contenzioso-bis da 340 milioni per le imposte sui redditi. Nel 2004 infatti, per gestire i marchi D&G, era stata creata in Lussemburgo la società Gado, che pagava solo il 4 per cento di tasse. Comunque il verdetto fiscale definitivo riguarderà solo il passato: anche i due stilisti infatti hanno già rimpatriato le loro ex lussemburghesi.
Intanto Bulgari, acquistata nel 2012 dal gruppo francese Lvmh, ha versato 42 milioni al fisco nazionale: sotto accusa c’era lo spostamento, in una tesoreria del Granducato, di una robusta quota dei profitti incassati in Italia.
EDITORIA E INTERNET
Tra le indagini in corso, le più importanti riguardano i colossi della rete, che raccolgono miliardi in tutto il mondo attraverso società lussemburghesi o irlandesi, pagando tasse minime. Ad esempio Google, che in Italia ha entrate pubblicitarie stimate in oltre un miliardo, nel 2013 ha versato al nostro fisco meno di due milioni, Apple 4,8 milioni, Amazon 840 mila euro, Facebook 170 mila, eBay zero. In casi come questi l’arma dei nostri inquirenti è il concetto di «stabile organizzazione»: quando un gruppo estero sostiene che in Italia ha solo uffici di rappresentanza o società di servizi, il fisco può ribattere che si tratta di una vera azienda, non dichiarata. Per questo l’Agenzia delle entrate ora ha denunciato Apple alla Procura di Milano, che ha aperto un’inchiesta per evasione: sotto accusa 225 milioni di tasse non pagate, nel solo biennio 2011-2012, su un presunto imponibile di oltre un miliardo. La Guardia di Finanza sta indagando anche su Amazon, Google e altre società di Internet, ma queste istruttorie sono ancora segrete.
Per ora eBay è l’unico big di Internet che ha dovuto liquidare 4 milioni al fisco italiano per i soli profitti del 2009. Intanto la sede fiscale del gruppo si è spostata in Svizzera. E la nostra Agenzia delle entrate continua ad approfondire.
Stessa situazione per la Walt Disney, che in Italia si presenta come società di servizi: senza ammettere alcuna colpa, la società americana ha comunque sborsato all’erario italiano circa 25 milioni.
Apple, interpellata da “l’Espresso”, dichiara che «paga ogni dollaro ed euro di tasse dovute», «è continuamente oggetto di verifiche in tutto il mondo» e in Italia ha già vinto un processo fiscale per gli anni 2007-2009, per cui è «sicura che l’accertamento in corso giungerà alla stessa conclusione». Google definisce «normale che un’azienda sia sottoposta a controlli fiscali» e chiarisce di aver pagato «2,6 miliardi di dollari di tasse, pari al 20,4 per cento degli utili, solo nei primi nove mesi del 2014, la maggior parte negli Stati Uniti», mentre in Europa «rispetta le normative di tutti i Paesi» e ha stabilito la sede in Irlanda per beneficiare degli «incentivi fiscali utilizzati da molti governi per attrarre investimenti che creano lavoro e crescita: se ai politici non piacciono queste leggi, hanno il potere di cambiarle». La Disney invece precisa che «le maggiori imposte corrisposte» riguardano «transazioni con società del gruppo sottoposte a tassazione piena negli Stati Uniti e in Gran Bretagna».
Negli anni d’oro dell’editoria, anche le aziende italiane hanno aperto società lussemburghesi. Il gruppo Cir (editore de “l’Espresso”) ha chiuso la relativa vertenza versando all’erario italiano 12 milioni. Mentre Mediaset per la sua lussemburghese ha pagato 21 milioni.
INDUSTRIE MULTINAZIONALI
In questi casi tra le pratiche sotto accusa c’è il “transfer pricing”: prezzi e costi ricaricati, nei rapporti tra società dello stesso gruppo, per trasferire i profitti italiani alla casa madre o comunque all’estero. Per uscire da una vertenza di questo genere il gruppo americano Verizon ha saldato al fisco italiano 41 milioni. Arcelor Mittal, che opera nel nostro paese attraverso una holding lussemburghese, ha pagato 47 milioni. Altri 38 sono arrivati da Glencore, che ha la base fiscale in Svizzera. Mentre Ikea Italia, che a Lugano ha la centrale europea per gli acquisti, è al centro di indagini fiscali non ancora concluse, per somme che al momento si aggirano sui 100 milioni di euro.
Nell’ottobre 2014 il patron di Luxottica, Leonardo Del Vecchio, ha staccato un assegno di 146 milioni per chiudere un contenzioso sui dividendi incamerati in Lussemburgo dalla sua società-cassaforte Delfin. La stessa holding di famiglia aveva già versato al fisco italiano altri 235 milioni per sistemare una pendenza del 2009 nata proprio dal trasloco della capogruppo dall’Italia al Lussemburgo.
Il gruppo Techint della famiglia Rocca ha sanato con 25 milioni una questione fiscale maturata nel 2010: sotto tiro la tassazione di oltre mezzo miliardo di dividendi che dall’Italia, via Lussemburgo, risalivano a tre società delle Antille Olandesi, capeggiate dalla San Faustin di Curaçao. Dopo il 2010 la catena di controllo del gruppo, a cui fanno capo le italiane Techint, Tenova e le cliniche Humanitas, è traslocata dai Caraibi in Lussemburgo.
Proprio da qui è tornata in Italia, nel 2012, la holding Sintonia della famiglia Benetton, che negli stessi mesi ha chiuso una lite tributaria su quella società lussemburghese girando al nostro fisco quasi 20 milioni di euro.
Tra le «stabili organizzazioni in Italia», invece, il primato spetta alla tedesca Bosch, che ha versato ben 324 milioni. E poi ha subito la beffa di non vedersi riconoscere in Germania quelle tasse italiane.
Anche Wind ha avuto grossi problemi per il travaso di ricavi a favore di consociate estere, in particolare lussemburghesi, attive nel periodo in cui era controllato dal magnate egiziano Sawiris. Dopo essersi opposto a rilievi per oltre un miliardo, il gruppo si è messo in regola con il fisco italiano versando, in totale, circa 200 milioni.
Fastweb invece ha composto le sue vertenze tributarie con circa 70 milioni, che si aggiungono alle somme sborsate dal suo ex azionista Silvio Scaglia, assolto da ogni accusa penale per l’affare Mokbel: un assegno di 63 milioni, calcolato sulle plusvalenze da lui incassate in Lussemburgo mentre si dichiarava residente a Londra.
BANCHE E FINANZA
In questo ramo molte indagini scottanti sono ancora in corso. Tra quelle più recenti e non più segrete spiccano le verifiche fiscali su una società irlandese di Mediolanum, sotto tiro per 344 milioni di redditi esentasse, che le Fiamme Gialle considera imponibili. Il gruppo fondato da Ennio Doris precisa di considerare tutte le accuse «illegittime», di averle contestate anche attivando un «arbitrato europeo» e comunque, per prudenza, ha «già accantonato a bilancio circa 60 milioni».
La banca Fortis è invece al centro di un caso notevole di “dividend washing”: ci sono società offshore che sembrano vendere azioni di società italiane proprio alla vigilia della distribuzione dei dividendi, abbattendo così le tasse a poco più dell’1 per cento; ma subito dopo le ricomprano. Il tutto, grazie a un contratto speciale che in pratica consente di spartirsi quel “risparmio fiscale”. Alla fine la banca, che agiva per conto di ricchi clienti, è scesa a patti impegnandosi a riconoscere all’erario un totale di 240 milioni. Mentre pochi giorni fa l’italiana Azimut, «solo per uscire dall’incertezza e senza alcun riconoscimento» di colpe, ha chiuso una vertenza sul “transfer pricing” accettando di sborsare 117 milioni. Tutte le società citate in questo articolo, interpellate da “l’Espresso”, dichiarano di aver sempre rispettato la legge e di non aver mai realizzato alcuna evasione o elusione delle tasse. Nessuna, però, ha smentito le cifre che risultano già riscosse dall’erario.
Il grafico in queste pagine mostra le società con attività nel Granducato o in altri paesi dell’Unione Europea finite nel mirino della Guardia di Finanza. Per ciascuna sono indicati gli importi già versati al Fisco italiano per chiudere le controversie o le somme contestate dagli investigatori nei procedimenti tributari ancora in corso.
ha collaborato Alfredo Faieta