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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

TOLSTOJ, GRANDE NARRATORE DELL’UOMO CHE SI DESTREGGIA TRA LE FALSITÀ DELLA VITA

Mentre scende la notte, nello smisurato palazzo di Mosca (neppure suo figlio ne conosce tutte le stanze) il vecchio conte Bezuchov si avvicina inesorabilmente alla morte. È stato uno dei grandi magnati dell’età di Caterina, è forse l’uomo più ricco di Russia, proprietario di 40.000 anime, come si chiamano in russo i servi della gleba, innumerevoli amanti e innumerevoli figli, tutti illegittimi, la fiera testa leonina di chi è abituato a un potere sconfinato. Ma persino per lui, dopo il sesto colpo apoplettico che l’ha colto all’ora di cena, dopo la settima estrema unzione, non vi è più altro esito. «Questa notte, non più tardi», dice il capo medico, il fatuo dottor Lorrain che sta seduto «in leggiadra posa sotto il ritratto di Caterina» e non nasconde «un sorriso professionale di compiacimento» per le proprie virtù previsionali. Il dottor Lorrain è solo uno degli infiniti comprimari che si aggirano per il palazzo e popolano la scena, vasta fino all’eccesso, della morte del conte. Una folla di cortigiani, ecclesiastici, parenti, militari, medici che gremisce la splendida sala di ricevimento, semibuia, e si apre solo per lasciar passare il settantenne comandante della guarnigione venuto a rendere omaggio all’illustre aristocratico («Com’è giovanile!...», commenta una signora) o il parente di maggior prestigio, il principe Vasilij. E accanto un’altra folla, di servitori questa. Vecchi domestici che fanno la calza, guardaportone che spargono per terra la paglia per attutire il rumore delle carrozze, garzoni che trasportano secchi per oscuri meandri, camerieri che servono il tè, cameriere che spostano tinozze. Tutti sotterraneamente eccitati da quello che sta per avvenire, tutti nello stesso tempo estranei, lontani, quasi a difendersi.

Al capezzale. Ma non è la morte di un gran signore la vera protagonista di questa notte, bensì una partita spietata che ha come posta la favolosa eredità del conte. La combattono da una parte gli eredi presunti – la moglie del principe Vasilij e le tre principessine Mamontov, lontane parenti che si sono interessatamente assunte l’assistenza del moribondo – e dall’altra uno dei suoi figli illegittimi, Pierre, con accanto a guidarlo e proteggerlo la vecchia e poverissima principessa Anna Michajlovna (la quale intravede futuri benefici per suo figlio). Il punto è che il conte, prossimo alla fine, ha scritto una lettera allo zar in cui lo prega di riconoscere Pierre, da lui specialmente amato, come suo figlio legittimo e di conseguenza erede unico e universale. Ma la lettera non è riuscito a recapitarla. Nelle ombre del palazzo, mentre il conte muore, tra le due fazioni si svolge una guerra violenta e crudele – che alla fine culminerà in una colluttazione fisica – per trovare il documento e impossessarsene. Gli uni per consegnarlo, gli altri per distruggerlo.
Solo il principe Vasilij, cortigiano potentissimo, e la principessa Anna Michajlovna, un’intelligenza superiore con le scarpe scalcagnate, capiscono ciò che sta avvenendo e ne vedono, con lucidità machiavellica, tutte le implicazioni. Tra i due la vince Anna Michajlovna, il viso pallido e molliccio sempre bagnato di false, falsissime lacrime. Mentre il volto del principe non regge alla tensione, si incrina, si crepa. «Le sue mascelle cominciarono a contrarsi nervosamente ora da un lato ora dall’altro, conferendo alla sua faccia un’espressione sgradevole che non affiorava mai quando egli si trovava in un salotto».
Tutti gli altri non capiscono, non si rendono conto. E per questo, in un certo senso, conservano una loro innocenza, preservati dal loro essere inconsapevoli. Non capiscono le principessine e soprattutto Ekaterina, la maggiore, «con la vita troppo lunga rispetto alle gambe, magra e rigida... coi suoi sporgenti occhi grigi... e i capelli eccezionalmente lisci, come se fossero appiccicati alla testa e ricoperti di lacca». Crede che il proprio legittimismo conservatore possa preservarla, che Pierre «un bâtard», un bastardo, come dice con noncurante disprezzo, non potrà mai ereditare. E quando il principe Vasilij le spiega reiteratamente la situazione reagisce sdegnata e offesa, accusando il morente e il mondo di nera ingratitudine: come se questo servisse a qualcosa. Ma non capisce neppure Pierre, beneficiario da ultimo di una immensa e insperata fortuna. Prelevato quasi a forza da Anna Michajlovna, trascinato al palazzo, fatto entrare sul retro da un ingresso di servizio, abbandonato in un salotto (dove peraltro si addormenta), condotto sempre da Anna Michajlovna, che incessantemente gli suggerisce che cosa dire, alla stanza del padre, da ultimo riportato nella sala di ricevimento dove tutti lo guardano, molti lo omaggiano, un aiutante di campo gli raccoglie un guanto senza che lui assolutamente comprenda il perché. Grande, grosso, goffo e inopportuno, Pierre si aggira spaesato «in un tale stato di confusione mentale che alla parola “colpo” gli venne fatto di pensare al colpo prodotto da qualche urto e gli ci volle del tempo per capire che quel “colpo” era una malattia».

Come i chiaroscuri di un dipinto. Motore immobile di tutta la grande scena, di tutto il brulicare del palazzo, di tutti gli intrighi, di tutta questa lunga notte è lui, il conte che muore. Mentre le sale sono in penombra o buie, alcune rischiarate appena dai lumini davanti alle icone, lui è in piena luce, «una vivida luce rossa», al centro della sua vastissima stanza, adagiato su «una lunga poltrona alla Voltaire», circondato da «candidi cuscini non ancora gualciti», ricoperto fino alla cintola da un drappo verde squillante su cui poggiano le sue larghe mani, in una delle quali è inserita una candela «che un vecchio domestico reggeva».Tutt’intorno – anche qui – una folla. Davanti i sacerdoti «con i loro paramenti maestosi, sfavillanti e i lunghi capelli che vi ricadevano sopra»; più indietro le principessine capeggiate da Ekaterina «con un’espressione irosa e decisa»; più indietro ancora Anna Michajlovna «con una mite tristezza e una diffusa pietà dipinte sul volto» e il principe Vasilij, la cui «faccia esprimeva una tranquilla devozione e una pacata rassegnazione». In fondo una signora sconosciuta, dottori, aiutanti e la servitù di sesso maschile. «Come fossero stati in chiesa, gli uomini e le donne si tenevano separati». Nel mezzo di questa scena mondanissima noi, attraverso gli occhi di Pierre, vediamo celebrarsi il mistero della morte. Il conte è, o sembra, del tutto incosciente, ma non è all’apparenza mutato, «la testa, con la fronte e gli zigomi eccezionalmente larghi, la bocca bella e sensuale e lo sguardo freddo e maestoso, non appariva alterata dall’approssimarsi della morte». Ma mentre lo trasportano sul letto «quella testa dondolava inerte a causa dei passi ineguali dei portatori». Poi d’improvviso «i saldi muscoli e le rughe della faccia del conte furono percorsi da un fremito... la bella bocca si distorse (allora soltanto Pierre comprese come suo padre fosse prossimo alla morte) e ne uscì un suono rauco e confuso». Pare che tutto sia finito, ma mentre lo rigirano il conte posa gli occhi «sulla mano che non gli obbediva» poi «sull’espressione sgomenta di Pierre» e sul viso gli affiora «un lieve sorriso di sofferenza» che pare esprimere «un sentimento di irrisione per la propria impotenza». Ed è questo lieve sorriso – l’unica cosa vera di tutta la grande scena, della notte e del palazzo – che, finalmente, fa salire le lacrime agli occhi di Pierre.

Non suoni di violino ma d’organo. Nell’economia di Guerra e pace, la morte del conte Bezuchov non è la prima grande scena corale. È preceduta dal ricevimento pietroburghese di Anna Pavlovna Scherer e dalla festa moscovita nella casa dei conti Rostov. Ma è la prima in cui Tolstoj mette in mostra compiutamente che cosa intende per narrare. La realtà, per Tolstoj, non è una proiezione su uno schermo bidimensionale. Il racconto non è una trama, lo sviluppo lineare di una vicenda. La realtà è stratificata, si colloca contemporaneamente su diversi piani e le vicende umane sono in gran parte passaggi da un piano all’altro. Certo la maggior parte dei piani della narrazione – che sono poi i piani della vita – sono dominati dalla falsità, dal falso. Che può assumere vesti e gradazioni diverse, dalla fatuità all’esteriorità, all’ottusità, alla superficialità fino ad arrivare al calcolo, all’inganno, alla menzogna, alla malvagità.
L’uomo, ci piaccia o no, è intriso di falso, ma nello stesso tempo il falso non è un’entità assoluta, non è il male assoluto, è qualcosa di quotidiano, che ci tocca tutti, in varie forme e misure. E sono proprio le infinite forme, gli infiniti livelli del falso a costituire la materia prima, la sostanza umana del racconto. Quel che il racconto rappresenta è il nostro destreggiarci tra convenzioni, obblighi, interessi, accomodamenti, quel fitto tessuto che ogni giorno veniamo componendo. Per questo lo strumento della narrazione tolstoiana non ha l’esilità di un flauto o di un violino, ma la possanza di un organo. E sempre per questo, viste dalla distanza del narratore, le vicende umane destano un sentimento misto di compassione, di indulgenza e di sorriso, quel sentimento che siamo soliti chiamare ironia. Come in Manzoni, anche in Tolstoj l’ironia deriva insieme dalla condivisione e dalla distanza, come se tutto quel gran darsi da fare degli uomini – narratori compresi – apparisse insieme commovente e un po’ ridicolo, vista l’inesorabilità della fine. Eppure anche in questo mondo la verità può fare la sua apparizione. Un’apparizione breve, una scintilla, perché la verità non è uno stato, ma un momento, un balenio momentaneo. Come il sorriso lieve del conte Bezuchov, l’irrisione per la propria impotenza, un momento di suprema e sublime autoironia.

21 - continua