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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

DONNE, RUMBA E FUMETTI LA DOLCE VITA DI PRATT E ONGARO A BUENOS AIRES

«Quando uscì il mio Romanzo d’avventura, nel 1970, Hugo era contento perché ne era il protagonista. A Hugo piaceva che parlassero di lui», racconta Alberto Ongaro, che fu per molti anni compagno d’avventure editoriali di Hugo Pratt e che firmò la sceneggiatura dei suoi primi fumetti, tra cui El cacique blanco, una storia pubblicata nel 1947 in Argentina, oggi tradotta per la prima volta in italiano da Rizzoli Lizard. «Hugo», continua Ongaro, autore di memorabili romanzi, come La partita e il recente Athos, un sequel dei Tre Moschettieri «s’era posto un obiettivo: voleva diventare il più grande disegnatore di fumetti del mondo. Era tenace e pieno di talento. Si fosse proposto di vincere il Premio Nobel, avrebbe vinto anche quello».
Ongaro e Pratt si conobbero per caso a Venezia, dov’erano nati entrambi, Pratt nel 1927, Ongaro nel 1925. Erano «i primi mesi del dopoguerra e stavo camminando in piazza San Marco», dice Ongaro, «quando vidi un gruppo di ragazzi in corteo. Mi fermai a guardarli e accanto a me si fermò anche un tale che non conoscevo. Era Hugo Pratt. Scambiammo qualche parola, e scoprimmo d’avere gli stessi gusti: Jack London, Conrad, Huck Finn, Stevenson e Dumas, i film noir, i western, Errol Flynn. Eravamo entrambi lettori dell’Avventuroso, la rivista dell’editore Nerbini che pubblicava le storie a fumetti di Mandrake e di Jim della giungla, di Flash Gordon e de L’Uomo mascherato, ma soprattutto le storie di Terry e i pirati, di Milton Caniff, che poi avrebbero ispirato le prime tavole di Hugo. Parlammo un po’ e ci separammo».
Pratt era reduce da un campo di prigionia inglese, dov’era stato confinato insieme a suo padre, fascista e «piccolo funzionario coloniale», mentre Ongaro era stato nella resistenza e insieme a suo cugino, Mario Faustinelli, aveva pubblicato giornali clandestini antifascisti. Giovanissimi, erano finiti in carcere, dove avevano rischiato «la pena di morte: il comando tedesco voleva dare un esempio, ma il patriarca di Venezia, Giovanni Piazza, convinse i tedeschi a non esasperare i veneziani fucilando due ragazzi. Uscimmo e tornammo a combattere nella resistenza. Finita la guerra, fu proprio l’esperienza maturata stampando giornali clandestini, insieme alla nostra passione per l’avventura, a suggerirci di pubblicare un giornale a fumetti. Si sarebbe chiamato l’Asso di Picche, come l’eroe in maschera di cui mi accingevo a scrivere le storie. Mio cugino era l’editore e ci metteva i soldi, io le sceneggiature e alcuni nostri amici, tra cui Dino Battaglia, Ivo Pavone e Sergio Tarquinio, avrebbero disegnato le tavole a fumetti. Fu allora che Hugo, dopo aver sentito in giro del nostro progetto, si fece vivo con una cartella piena di disegni a matita. Erano tavole ancora molto acerbe, ma si vedeva che erano opera d’un disegnatore eccezionale. Fu subito reclutato anche lui. All’inizio Mario inchiostrava le tavole di Hugo. Diceva che non sapeva dare la china. Era l’editore, e decideva lui, ma Hugo era permaloso e non la prese bene. Ci mettemmo al lavoro e pubblicammo quindici numeri del giornaletto, oggi ricercatissimi dai collezionisti. Poi ci fu una specie di miracolo».

Dalla strada agli scaffali letterari. A Buenos Aires, in fuga dalle leggi razziali di Mascellone e dei suoi manipoli, avevano trovato rifugio molti ebrei. Cesare Civita, che nei primi anni Trenta aveva portato al successo la Walt Disney Italia e fatto la fortuna del periodico Le grandi firme, aveva fondato a Buenos Aires L’Editorial Abril, che si sarebbe affermata come la principale casa editrice di fumetti dell’America latina. Gli agenti di Civita in Italia videro l’Asso di Picche nelle edicole e fecero ai suoi redattori, dice Ongaro, «una proposta che non si può rifiutare. Prima ci chiesero d’andare a lavorare in Argentina, ma alcuni di noi dovevano ancora laurearsi e così ottenemmo, per un anno e mezzo, di lavorare dall’Italia. Poi a Buenos Aires diventarono impazienti: i nostri lavori alzavano le tirature e così, per convincerci a partire per l’Argentina, ci offrirono un contratto favoloso. Quando lo mostrai al consolato argentino, per ottenere il permesso di lavoro, il funzionario di servizio mi disse che doveva esserci un errore: uno zero di troppo. Eravamo giovani e ci giravano molti soldi nelle tasche. Era un gioco. Ragazze, rumba, beveroni e fumetti. Tra i nostri amici c’erano tre fratelli, provetti musicisti, cugini del compositore Armando Travajoli. Diventammo famosi tra i giovani di Buenos Aires non soltanto per i nostri fumetti ma anche per i nostri parties. Pratt, che era un attore nato, era l’anima di tutte le feste: faceva da solo l’imitazione d’uno sbarco di marines, le scariche di mitra, l’esplosione delle bombe. Era una specie di fumetto vivente».
Alberto Ongaro non è «affatto sicuro che El cacique blanco sia la prima storia disegnata da Hugo a Buenos Aires. È passato molto tempo», dice, «e di storie ne abbiamo scritte e disegnate tante». Di sicuro c’è soltanto che ogni storia era una nota margine di quel loro primo incontro a San Marco: storie ispirate a Jack London, a Conrad e Melville, al Piccolo Principe, a Huck Finn. Ongaro restò a Buenos Aires sette anni, «Hugo di più». Avrebbero lavorato di nuovo insieme nei primi Sessanta (con Le storie dell’Ombra, un altro giustiziere mascherato come L’Asso di Picche, che uscirono su Il Corriere dei piccoli).
Ongaro, che visse a lungo in Inghilterra e che lavorò per anni a L’Europeo, avrebbe poi scritto grandi romanzi d’avventura, oggi tutti ristampati da Piemme. Pratt, a Buenos Aires, diede altre feste e scrisse le storie del Sergente Kirk, di Ticonderoga Flint e del giornalista Ernie Pike su testi di Héctor Oesterheld (più tardi autore d’un classico del fumetto moderno, L’Eternauta). Mentre Pratt dava vita a Corto Maltese, il bel marinaio, un personaggio che avrebbe traghettato il fumetto dall’inferno delle edicole agli scaffali nobili della grande letteratura, Oesterheld fu assassinato dai generali golpisti insieme alle sue quattro figlie, due delle quali incinte. Questo per dire che non tutte le storie d’avventura hanno un lieto fine, anche se tutte ne meriterebbero uno.