Aldo Nove, Sette 5/12/2014, 5 dicembre 2014
LA CALLIGRAFIA RITROVATA SUI CORPI
Tutti pazzi per i tattoo. Sempre più sorprendenti. Ricordo che era uno dei cavalli di battaglia della Settimana enigmistica, il gioco dei puntini numerati da congiungere. Qualcuno ha avuto l’idea di trasformarlo in tatuaggio, quasi a marcare la distanza tra l’idea di una cosa e la sua rappresentazione o, più semplicemente, cercando l’originalità a tutti i costi e inventando “il corpo enigmistico”. Il tatuaggio, da antichissimo segno tribale, ha attraversato nel corso dei secoli tante vicende quante ne sono toccate in sorte all’uomo, e alla sua pelle. Da simbolo dell’unione dell’individuo al suo gruppo d’appartenenza a radicale segnale di differenziazione.
L’esplosione del tatuaggio di questi ultimi anni ha però caratteristiche nuove. Il gruppo a cui si fa oggi riferimento è innanzitutto quello dei tatuati, in una forma di autoreferenzialità in cui il primo messaggio è il tatuaggio stesso e non quello che esibisce. Da qua il bisogno sempre più scontato di “farsi un tatuaggio” e di renderlo il più possibile “personale”. Non per quello che dice, o meglio mostra, ma per il fatto stesso che è richiesto da un impulso sociale. Il livello zero è dunque “essere tatuati è alla moda”. Così fiorisce un’industria fiorente che diventa cultura popolare, con un vertiginoso incremento quotidiano di attività che propongono tatuaggi fino al moltiplicarsi delle trasmissioni televisive e delle riviste a tema. In un mondo postmoderno, in cui mode e stili si accavallano senza soluzione di continuità, nel flusso indifferenziato di immagini che tutto travolge, diventa sempre più difficile distinguersi dal gruppo dei pari. È sempre più difficile, quindi, avere un tatuaggio originale, o dei tatuaggi originali. Da qui lo sbizzarrirsi di forme sempre più inverosimili, fino a arrivare a una sorta di ricerca del nuovo che ricorda che ripercorre le tappe dell’arte contemporanea della seconda metà del scorso secolo. Dall’iper-realismo del braccio che attraverso il tatuaggio esibisce, con verosimiglianza assoluta, i muscoli e le ossa che stanno sotto la pelle, al concettualismo delle parole riproposte in chiavi sempre più complesse, dall’anagramma fino all’esempio da cui sono partito, quello dei puntini indelebili da unire per vedere spuntare un’immagine che invece, al primo lavaggio, sparirà.
Ferita di senso. Il corpo come ultimo, residuale “impero dei segni”. Un corpo al contempo svalutato e reso ultimo baluardo di un’identità debole e quindi da rafforzare attraverso un proliferare di “altro”. Gabbiani inguinali, Padre Pio sul torace, demoni sulla schiena. Ma anche caleidoscopiche fantasie cromatiche di nuovi “corpi-musei”. Con il tatuaggio ritorna anche la “calligrafia”: scriviamo sempre peggio o in modo automatizzato. Sulla pelle, la parola scritta ritorna a essere non solo contenuto, ma anche forma. A volte i tatuaggi sono dei veri e propri capolavori. Sempre, lasciano il sospetto che il corpo, da solo, non è più capace di esprimersi. Diceva un grande poeta, Ghiannis Ritsos, che la vita è “una lunga ferita nell’inesistenza”. Il tatuaggio decora, sulla viva pelle, quella ferita di senso.