Tino Oldani, ItaliaOggi 5/12/2014, 5 dicembre 2014
LA RIPRESA USA E LA RECESSIONE EUROPEA SI SPIEGANO ANCHE CON LA VELOCITÀ DELLA FED E LA LENTEZZA DELLA BCE
Da quanti mesi Mario Draghi, presidente della Bce, va promettendo che è pronto a mettere in campo «misure non convenzionali, se necessarie» per rilanciare l’economia europea? Francamente, da troppo tempo. Dal suo celebre monito «whatever it takes» del luglio 2012, con cui si disse pronto a qualsiasi misura pur di difendere l’euro dagli speculatori, sono trascorsi più di due anni, eppure il supercannone di Francoforte non è mai entrato in funzione, paralizzato dai contrasti interni alla Bce. Uno stallo che si sta rivelando mortale per l’economia europea, in preda a una recessione sempre più diffusa. Ciò che serve nei momenti di crisi, infatti, è l’esatto contrario, ovvero una grande velocità nel decidere e nell’agire. Il confronto con gli Stati Uniti è quanto mai eloquente.
«L’economia Usa non sarebbe dove si trova oggi senza la velocità con cui la Fed ha introdotto il quantitative easing e operato gli stress test all’inizio del 2009, costringendo le banche a ricapitalizzarsi. Gli europei devono ancora fare quello che abbiamo fatto noi». Così spiegava ieri su Repubblica il numero due della Fed, Stanley Fisher, banchiere ed economista di lungo corso, nonché docente con cui Draghi preparò la tesi al Mit (Massachusetts Institute of Technology). La sottolineatura del fattore velocità da parte di Fisher non è affatto casuale, e chiama in causa sia la politica monetaria delle banche centrali, sia la politica fiscale e normativa che viene condotta dai governi.
L’esempio americano aiuta a capire. Dopo lo scoppio della crisi finanziaria (2007), negli Usa sia il governo che la Fed si sono dati sùbito da fare. La Fed di Ben Bernanke è stata molto rapida, e a partire dal 2009 ha messo in campo due misure chiave: il «quantitative easing», che ha iniettato nel sistema più di tremila miliardi di dollari per consentire alle banche di fare ripartire il flusso del credito alle imprese; più gli stress test, che hanno obbligato le banche a ricapitalizzarsi. In parallelo, nel 2010 il governo Usa e il Congresso hanno varato la «Volcker rule», per separare le banche commerciali da quelle speculative, nel tentativo di porre un argine agli eccessi speculativi delle banche «too big to fail».
A giudicare dai risultati («l’economia Usa è tornata a crescere stabilmente fra il 2 e il 3%», ricorda Fisher), i provvedimenti della Fed sono stati più veloci e più efficaci di quelli del governo. Anzi, si può dire che il merito della ripresa economica Usa sia merito quasi esclusivo delle misure imposte dalla banca centrale americana (quantitative easing e stress test), in quanto la «Volcker rule» è rimasta di fatto sulla carta. Il motivo lo spiega bene l’economista Luigi Zingales nel suo «Manifesto capitalista» (Rizzoli), dove racconta che questa legge è di una «lunghezza sconcertante»: 2.319 pagine, a cui sono seguiti 67 documenti interpretativi. Una follia normativa, se paragonata alla legge Glass-Steagall (37 pagine in tutto), che aveva introdotto la prima separazione tra banche commerciali e banche d’investimento nel 1933, dopo la Grande crisi. Tale lunghezza, spiega Zingales, è stata voluta dalle banche, con lo scopo di agevolare il lavoro dei lobbisti e degli avvocati nel trovare un’infinità di scappatoie giuridiche per rallentare l’applicazione della «Volcker rule», che nei fatti è rimasta lettera morta.
Torniamo all’Europa. Anche qui, tra i due soggetti che hanno in mano la governance dell’economia Ue (la Bce e la Commissione), la seconda sta facendo peggio del governo Usa, distinguendosi per lentezza e divisioni. Il filosofo Jurgen Habermas, coscienza critica dei socialdemocratici tedeschi, in un’intervista recente a L’Express, descrive l’Europa comunitaria come il teatro di «una rissa continua, dove tutti sono contro tutti, e il termine solidarietà sembra appartenere a un altro continente». Uno scenario che invece di produrre governabilità, dice Habermas, sta alimentando l’euroscetticismo, fino al punto che «il populismo sta conquistando anche i governi». Un processo negativo, in cui la Germania non è esente da responsabilità. Anzi: «In nome dei propri interessi, il governo di Berlino rifiuta di recuperare i ritardi in materia di solidarietà, e non sa decidersi a correggere la propria ostinata politica di risparmio, mentre gli stessi economisti tedeschi chiedono più investimenti». Risultato: invece dell’unione politica sognata dai fondatori dell’Ue, conclude Habermas, si assiste alla rinascita dei nazionalismi.
Che una simile tendenza possa essere invertita dal piano Juncker, che dispone di 21 miliardi sui 300 promessi, ben pochi sono disposti a crederlo. È solo l’ennesimo libro dei sogni. Per la ripresa dell’economia, non rimane che sperare nella Bce di Draghi, che vorrebbe iniettare nel sistema mille miliardi di euro acquistando titoli di Stato. Lo promette da mesi. Sarebbe ora che anche lui aumentasse la velocità dell’azione, passando dalle parole ai fatti e chiarendo una volta per tutte se il vero ostacolo è l’opposizione tedesca al quantitative easing europeo, o altro. In gioco, c’è il futuro dell’euro e dell’Europa unita, oppure il loro fallimento.
Tino Oldani, ItaliaOggi 5/12/2014