Paolo Valentino, Corriere della Sera 5/12/2014, 5 dicembre 2014
SE PUTIN RISFODERA I TEMI DEL NOVECENTO
Ci sono tutti i toni, le suggestioni, i colori e perfino gli stilemi della Guerra fredda, nel discorso di Vladimir Putin sullo stato della Federazione Russa. Parte per il tutto, la riscoperta del concetto di containment, il contenimento che l’Occidente avrebbe «perseguito per decenni, se non per secoli, ogni qual volta ha sentito che la Russia stesse diventando troppo forte». Nella narrazione del leader del Cremlino, l’annessione della Crimea, da lui definita «storico ricongiungimento», e gli eventi in Ucraina, il colpo di Stato ipse dixit, sono stati soltanto una scusa per gli Stati Uniti e i loro alleati: «Se non fossero successi, avrebbero tirato fuori un altro pretesto».
Ci sono pochi dubbi che a una prima lettura, la requisitoria antioccidentale e grande russa di Putin racconti una scelta di contrapposizione con l’Occidente, in nome di un orgoglio nazionale che, con le sue parole, «per alcuni Paesi europei è visto come un lusso, ma per la Russia è una necessità». E che oggi le speranze di riprendere il filo di un dialogo, men che meno immaginare una ripartenza, siano impalpabili.
Ma se è questo lo stato delle cose, forse noi occidentali dovremmo riflettere sulle concrete conseguenze delle sanzioni, efficaci sul piano economico ma all’evidenza non in grado almeno fino a ora di ridurre a più miti consigli il leader del Cremlino, anzi. Qui non si tratta di toglierle o allentarle senza contropartite tangibili nell’atteggiamento di Mosca in Ucraina, ma di ragionare strategicamente sul fatto che l’embargo stia producendo un effetto politico esattamente opposto a quello sperato.
Fa bene l’Occidente a mantenere una linea di fermezza, sul fronte del rispetto della piena sovranità dei popoli e dell’integrità delle nazioni. Ma la durezza dei toni del discorso di Putin forse suggerisce che lo strumento debba essere ripensato e affinato. Anche perché, perfino tra le linee della retorica e della chiusura di Vladimir Vladimirovich è possibile intravedere qualche spiraglio. Come ha notato il New York Times , il leader moscovita ha anche detto che la Russia non vuole restaurare la cortina di ferro, che il Paese è aperto al mondo e che «non sarà mai preda della paranoia e del sospetto, cercando nemici dappertutto». Non c’è alcun regalo da fare all’uomo del Cremlino. Si tratta piuttosto di metterlo alla prova, senza cedimenti, ma in maniera più articolata di un embargo che sicuramente sta facendo danni enormi all’economia (e al popolo) della Russia, ma ha prezzi altissimi anche per le imprese europee.
Nella seconda e più ampia parte del discorso, tutta dedicata all’economia, Putin non ha nascosto l’impatto gravissimo che le sanzioni, combinate con il crollo dei prezzi dell’energia, stanno avendo sul suo sistema Paese. Ma evocando un concetto ben noto in Occidente, quello secondo cui una crisi è un’opportunità troppo buona per essere sprecata, ha detto che la Russia dovrebbe approfittare delle sanzioni per rinnovare la propria economia, diminuendo la sua dipendenza dalle importazioni. E ha proposto una sanatoria per il rientro dei capitali dall’estero, minore interferenza statale nelle attività di piccole e medie imprese, un blocco delle aliquote fiscali per 4 anni. Non è detto che la scommessa gli riesca, ma l’approccio di Putin conferma che anche nel lungo periodo l’effetto politico, in questo caso politico-economico delle sanzioni, non sia così scontato. In ogni caso, lo ricordava Tony Blair nell’intervista al nostro giornale, nelle relazioni internazionali dev’essere possibile conciliare la fermezza sui valori, e sull’Ucraina non sono ammessi sconti, con la necessità di continuare la collaborazione ovunque nel mondo questa possa contribuire a raffreddare i troppi focolai di crisi: abbiamo visto la scorsa settimana a Vienna, nei negoziati nucleari con l’Iran, quanto la Russia sia parte indispensabile di ogni soluzione positiva.