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 2014  dicembre 04 Giovedì calendario

CHE FINE HANNO FATTO I CATTOLICI

Non solo sempre meno numerosi e non solo sempre più secolarizzati. C’è tanto altro da dire sui cattolici latinoamericani e sui loro conterranei protestanti, ci sono un sacco di scoperte sfiziose nell’indagine sulla religiosità dei latinoamericani realizzata dal Pew Research Center di Washington e diffusa a metà di novembre. I commenti della stampa italiana si sono concentrati sulla flessione percentuale dei cattolici sul totale degli abitanti del continente a vantaggio dei protestanti e dei non affiliati e sulle loro opinioni eterodosse in materia di dottrina morale e di diritto canonico. Mentre scendevano dal 92 al 69 per cento della popolazione sudamericana adulta fra il 1970 e il 2014 (una flessione media di mezzo punto percentuale all’anno), i cattolici assorbivano gran parte dei valori secolari, fino a dichiararsi, in molti paesi, in maggioranza favorevoli a riforme radicali della dottrina morale e della disciplina canonica cattolica includenti la legittimità del ricorso agli anticoncezionali (16 paesi su 19), l’accettabilità del divorzio (13 paesi su 19), l’introduzione dell’ordinazione sacerdotale femminile (8 paesi su 19) e del clero sposato (9 paesi su 19). Donne prete e sacerdoti sposati sono l’opzione prevalente di una minoranza di paesi ma di un numero assoluto di cattolici maggioritario, in quanto ottengono la maggioranza nei paesi più popolosi: nel solo Brasile i favorevoli all’ordinazione femminile sarebbero il 78 per cento, mentre maggioranze di cattolici favorevoli al clero sposato si trovano in Brasile, Argentina, Cile e Venezuela. In Argentina e Uruguay maggioranze assolute di cattolici sono favorevoli al matrimonio fra persone dello stesso sesso, in Cile e Messico lo sarebbero maggioranze relative.
Dati piuttosto scioccanti, ma per nulla gli unici interessanti della ricerca. Per esempio la secolarizzazione dei percentualmente calanti cattolici andrebbe letta in contrappunto con l’ortodossia dottrinale dei sempre più numerosi protestanti, cresciuti dal 9 al 19 per cento di tutti i latinoamericani fra il 1970 e il 2014. Che si tratti del matrimonio fra gay o del sesso fuori dal vincolo coniugale, della condanna del divorzio e dell’aborto legale, dell’omosessualità attiva o dell’uso degli anticoncezionali, i protestanti si mostrano intransigenti là dove i cattolici si rivelano lassisti. Se in alcuni paesi la maggioranza di tutti i cristiani continua a mostrarsi statisticamente contraria al matrimonio fra persone dello stesso sesso, è perché sono i protestanti a far pendere da quella parte la bilancia. Ma il ritratto del protestante sudamericano come un tipo da una parte moralmente conservatore e dall’altra sedotto dal Vangelo dell’abbondanza, cioè dalle promesse di miracoli, ricchezza e salute delle Chiese pentecostali, non corrisponde alla realtà così come emerge dall’indagine. Al contrario, mediamente i protestanti prendono più seriamente i contenuti spirituali e morali della loro fede di quanto facciano i cattolici, e sono anche più socialmente impegnati di loro.

Chi segue la liturgia settimanale?
Che si tratti della frequenza settimanale del luogo di culto, della preghiera personale, del digiuno quaresimale, della lettura delle Scritture, della partecipazione alle attività della congregazione o del pagamento della decima, cioè del sostegno economico alla propria Chiesa, i protestanti sopravanzano sempre i cattolici. In Argentina solo il 15 per cento dei cattolici va a Messa tutte le settimane, mentre partecipano al servizio liturgico settimanalmente il 55 per cento dei protestanti; in Brasile la percentuale dei cattolici frequentanti è un po’ più alta col 37 per cento, ma quella dei protestanti è addirittura massiccia: 76 per cento. In Cile, Perù, Venezuela, Ecuador, Argentina, Uruguay e Porto Rico i cattolici che versano una quota fissa del loro reddito alla Chiesa sono ovunque meno del 20 per cento, negli stessi paesi i protestanti che lo fanno oscillano fra il 41 e il 71 per cento. Tranne che a Panama (56 per cento), in nessun paese la maggioranza assoluta dei cattolici pratica digiuni durante la Quaresima, mentre in tutti i paesi tranne Cile, Argentina e Uruguay i protestanti che digiunano costituiscono la maggioranza assoluta del loro insieme.
Ma non è solo sullo specifico religioso che i protestanti si dimostrano più impegnati dei cattolici. Gli atteggiamenti nei confronti della povertà e del bisogno materiale riservano sorprese. L’interpretazione un tempo dominante secondo cui le Chiese protestanti latinoamericane sarebbero composte da ricchi egoisti privi di coscienza sociale e da poveracci motivati principalmente dalla speranza di beneficiare di miracoli e di vantaggi economici va in crisi quando si analizzano attentamente alcune evidenze statistiche dell’inchiesta. La grande maggioranza dei cristiani sudamericani di ogni confessione crede nella necessità di aiutare i poveri e di portare a loro Cristo. Quando però le risposte alla povertà vengono messe in alternativa fra loro, cioè viene chiesto se la prima cosa da fare coi poveri sia portare loro Cristo oppure aiutarli materialmente, la consueta divaricazione fra cattolici e protestanti riemerge: per la maggioranza dei cattolici, aiutare materialmente i poveri viene prima dell’annuncio del Vangelo, viceversa per i protestanti. In Argentina solo il 18 per cento dei cattolici ritiene che il modo più importante di aiutare i poveri sia di portare loro Cristo, mentre lo afferma il 51 per cento dei protestanti; divari superiori ai 30 punti percentuali fra cattolici e protestanti su questo argomento si registrano anche in Colombia, Bolivia, Perù e Paraguay. All’inverso, i cattolici che considerano priorità assoluta l’aiuto caritatevole ai poveri sono più dei protestanti che la pensano in questo modo in tutti e 19 i paesi sondati, anche se le differenze sono meno accentuate e si collocano fra i 10 e i 26 punti.
Ma la vera sorpresa emerge quando si chiede ai seguaci delle due confessioni se loro personalmente aiutano i poveri non solo con l’elemosina ma con varie forme di impegno. In tutti i paesi, i protestanti che dichiarano di avere preso parte ad attività caritative verso i poveri negli ultimi dodici mesi sono percentualmente più numerosi dei cattolici. I fedeli della Chiesa di Roma non ci fanno una bella figura: in maggioranza affermano che aiutare concretamente i poveri è più importante che annunciare loro Cristo, ma quando poi si tratta di mostrarsi coerenti con quello che dicono, si fanno bagnare il naso dai protestanti. I quali, evidentemente, non sono quegli spiritualisti disincarnati che si vorrebbe far credere. In particolare, in Venezuela e in Messico i protestanti coinvolti nell’aiuto umanitario sono rispettivamente il 27 e il 25 per cento in più dei cattolici. Lo stesso trend si osserva se si chiede alle persone se la loro Chiesa aiuta la gente a trovare un lavoro: dappertutto i protestanti rispondono “sì” più spesso dei cattolici. Il paese con la differenza più forte è l’Argentina, dove il 70 per cento dei protestanti risponde affermativamente alla domanda, contro il 37 per cento dei cattolici. Non ci sono invece differenze significative, tranne che in un paio di paesi, fra le risposte dei cattolici e quelle dei protestanti quando gli si chiede se la loro Chiesa cerca di convincere il governo ad aiutare i poveri.

Le ragioni della secolarizzazione
Un altro argomento dove le differenze di sensibilità fra protestanti e cattolici non sono particolarmente forti è l’aborto. I cattolici sono apparentemente più secolarizzati quando si parla di divorzio, contraccezione e matrimonio gay, ma sulla questione dell’aborto fanno eccezione solo il piccolo Uruguay e il Cile: il primo è l’unico paese dove i cattolici sono in maggioranza favorevoli all’aborto legale (solo il 44 per cento è contrario), nel secondo sono spaccati a metà fra favorevoli e contrari. In tutti gli altri paesi i cattolici si oppongono all’aborto legale con percentuali che oscillano fra il 74 e il 90 per cento, con la relativa eccezione dell’Argentina che è quotata al 69 per cento. La contrarietà dei protestanti va dal 66 per cento dell’Uruguay al 97 per cento del Paraguay.
Come si sarà notato, il paese che più insistentemente ricorre ai vertici delle opinioni di impronta secolarista è l’Uruguay. Il piccolo paese di 3,4 milioni di abitanti sul Rio de la Plata presenta il triplice primato di essere lo Stato sudamericano con meno cattolici (solo 42 per cento della popolazione), meno cristiani (solo il 57 per cento, contro un 43 di atei, agnostici, non affiliati e di altra religione) e dove i cattolici si dimostrano più secolarizzati, essendo in maggioranza favorevoli ai matrimoni fra persone dello stesso sesso e all’aborto legale. Addirittura solo il 49 per cento dei cattolici uruguaiani giudica che l’aborto come tale sia «moralmente sbagliato». Nei due paesi che con l’Uruguay confinano, Argentina e Brasile, i cattolici che vedono nell’aborto un chiaro male morale sono rispettivamente il 64 e l’80 per cento, nel poco distante Paraguay il 96 per cento. L’Uruguay costituisce un’autentica lezione storica per quei soloni intellettuali cattolici che teorizzano il disimpegno della Chiesa e dei cristiani rispetto alle leggi vigenti in un paese e la lontananza dal potere politico come condizione ideale per un migliore svolgimento della missione della Chiesa. L’Uruguay avrebbe potuto avere una traiettoria storica simile a quella di uno dei suoi vicini se non fosse stato per le politiche laiciste che ha coerentemente perseguito fin dal 1861, quando il governo nazionalizzò i cimiteri su tutto il territorio nazionale, sottraendoli alle chiese. Poco dopo vennero approvate leggi che proibivano alla Chiesa di avere un ruolo nell’educazione pubblica e di rilasciare certificati matrimoniali. Nel 1919 la nuova Costituzione, che sostituiva quella del 1830, sanciva la totale separazione fra Stato e Chiesa. La secolarizzazione proseguì con la rimozione dei riferimenti religiosi dai nomi di quasi tutte le città e villaggi (non restano che San Carlos e Rosario) e con l’eliminazione del nome di Dio dai giuramenti delle massime cariche dello Stato. Oggi l’Uruguay presenta i tassi di religiosità di gran lunga più bassi fra i paesi analizzati dall’inchiesta del Pew Research Center. Meno di un terzo degli uruguaiani (28 per cento) dichiara che la religione è molto importante per la sua vita, (mentre in nessun altro paese questo valore è inferiore al 41 per cento e nella maggioranza si colloca fra il 70 e l’80 per cento); solo il 29 per cento prega ogni giorno e solo il 13 per cento va in chiesa almeno una volta alla settimana. Nel confinante Brasile il 61 per cento degli adulti prega quotidianamente e il 45 per cento va in chiesa almeno settimanalmente. Gli uruguaiani pregano poco e vanno in chiesa ancora meno, ma molto spesso fanno gli scongiuri. Risulta infatti che il 53 per cento dei cattolici e il 42 per cento degli atei e dei senza religione credono nel malocchio. La media generale del paese è del 46 per cento, che è superiore ai valori registrati in paesi molto religiosi come Bolivia, Paraguay, Perù, Messico, Colombia, eccetera. Chi non crede in Dio comincia a credere a tutto, diceva Chesterton.

La moralità degli Indigeni
Un’ultima notazione la meritano i popoli indigeni dell’America latina. Nell’inchiesta del Pew Research Center non c’è nulla che si riferisca direttamente a loro:
nella nota metodologica viene indicato il numero dei rispondenti per ogni paese, ma non l’estrazione etnica degli intervistati. Qualche dato però si può estrapolare. I paesi che contano la più alta percentuale di popolazione indigena pura sono la Bolivia (45 per cento), il Guatemala (40,5), il Perù (32,5) e l’Ecuador (25). Ebbene si tratta anche di alcuni dei paesi dove maggiore è l’ostilità al matrimonio omosessuale (contrari fra il 65 e l’83 per cento), dove gli atti omosessuali sono considerati immorali (fra il 73 e il 91 per cento), si giudica l’aborto immorale (fra l’85 e il 96 per cento) e si vuole che non sia legalizzato (fra il 75 e il 92 per cento). Chissà cosa ne pensano i liberal sempre pronti a esaltare le culture indigene contro la tradizione giudaico-cristiana.