Pietro Piccinini, Tempi 12/2014, 4 dicembre 2014
CI VEDIAMO IN TRIBUNALE
[Corrado Clini]
CORRADO CLINI NON CI STA a farsi processare a mezzo stampa. Dopo quasi 25 anni di lavoro al ministero dell’Ambiente, di cui uno e mezzo da ministro, un brutto giorno si è svegliato e ha scoperto che da manager pubblico apprezzato in Italia e all’estero qual era, lo avevano improvvisamente ridotto a carne da macello mediatico-giudiziario. Arrestato il 26 maggio scorso in via cautelare per presunte tangenti intascate, secondo la procura di Ferrara, nell’ambito di un progetto finanziato dal suo dicastero in Iraq, nei mesi successivi è stato raffigurato da quotidiani e tv come un trafficone che per anni ha sperperato denaro dei contribuenti in paesi esotici senza altri motivi plausibili se non quello di accumulare bei milioni per sé, per la compagna e per gli imprenditori amici. Al programma iracheno, quello della presunta mazzetta per la quale è stato rinviato a giudizio a Roma (dove nel frattempo è stata trasferita per competenza l’indagine ferrarese), i giornali hanno iniziato ad aggiungere al conto di Clini decine di altri progetti promossi e finanziati dal ministero dell’Ambiente all’estero, prevalentemente in Cina e Montenegro, e che sarebbero «finiti nel mirino degli inquirenti» come sospette coperture di altri interessi illeciti.
Tutte accuse che l’interessato ha appreso giorno dopo giorno dalla stampa e che in questa intervista respinge con decisione come «false» e «ridicole». Non solo. La notizia è che Clini ha deciso di passare al contrattacco sporgendo una dura querela al tribunale di Roma contro l’ambasciatore italiano a Pechino Alberto Bradanini, vero responsabile, secondo l’ex ministro, di una lunga serie di «informazioni false finalizzate a screditare la cooperazione ambientale Italia-Cina e a diffamare il mio lavoro». Sono le informazioni su cui è stato costruito in buona parte anche il servizio di Report andato in onda su Rai Tre il 16 novembre e dedicato proprio a Clini e alla compagna Martina Hauser, a sua volta sotto indagine.
Clini non ha paura di affrontare il giudizio. Anzi, in seguito all’arresto si è dimesso da tutti gli incarichi al ministero (era tornato alla direzione generale dopo la parentesi al governo) non tanto per far venir meno il rischio di reiterazione del reato e riottenere così la libertà personale, quanto per potersi «difendere in maniera completa» davanti al giudice senza creare problemi al ministero. «Mi sarei dimesso anche se fossi stato parlamentare o ministro», dice a Tempi. «Ho fiducia nella magistratura e non è un’affermazione generica: io confido che nel momento in cui ci sarà il confronto sugli atti e sui fatti questa campagna che è stata montata contro di me emergerà per quello che è. Sono molto sereno. Mi dispiace solo che sia stata interrotta in maniera violenta un’esperienza originale, per niente allineata ai luoghi comuni dell’ambientalismo ma con risultati eccezionali per la promozione dello sviluppo sostenibile. È noto che lo stile e i contenuti del mio lavoro erano in aperto contrasto con chi ha ricavato vantaggi politici e personali dall’ambientalismo di lotta e di salotto. Il 26 maggio, il giorno in cui mi hanno arrestato, avrei dovuto firmare un contratto per coordinare le iniziative della presidenza dell’Unione Europea su clima ed energia, tematiche cruciali per l’Europa gestite negli ultimi anni dalla Commissione europea con un approccio regolatorio e ideologico che avevo ripetutamente criticato e che aveva isolato l’Europa nel contesto internazionale. Forse la prospettiva di un mio impegno europeo dispiaceva a troppi. Comunque io non sto lì a martellarmi per questo, perché ho avuto la forza dell’affetto e della solidarietà di un sacerdote decano dell’ecologia italiana, il professor Antonio Moroni, che ho avuto il tempo di salutare dopo la mia liberazione e qualche ora prima della sua morte. E insieme a lui i miei cinque figli, quattro più una acquisita, la mia compagna, la madre dei miei figli, i tanti amici che mi hanno visto lavorare senza mai chiedere. Adesso sono impegnato a ricostruire la verità».
Ricostruire la verità sulla presunta tangente irachena non è servito a molto però. Nonostante le spiegazioni diffuse quando a metà novembre è stato rinviato a giudizio, i giornali hanno continuato a scrivere che i soldi entrati nel suo conto in Svizzera erano di origine sospetta. E Report ha mandato ugualmente in onda l’intervista al procuratore di Lugano che ha ancora aperta su di lei un’indagine per riciclaggio.
L’intervista del procuratore di Lugano è scandalosa. Soprattutto perché non ha detto la verità. Lui ha aperto un’indagine su di me nel 2012, mentre ero ministro, perché avrei versato su un conto svizzero tangenti in cambio di un finanziamento del ministero in Kenya. Una storia totalmente falsa, di cui si era occupata la procura della Repubblica di Roma sulla base di una denuncia contro di me. La procura, nel 2008, aveva archiviato. Ma nel 2012 il gruppo parlamentare dell’Idv ha presentato un’interpellanza contro di me e contestualmente il procuratore di Lugano ha aperto l’indagine. Una coincidenza che è più di una traccia.
Ma la domanda resta: perché ha dei soldi in Svizzera?
Sono io che ho fornito spontaneamente al procuratore di Lugano tutte le informazioni sul mio lavoro, tra l’agosto del 2004 e il marzo del 2011, a supporto della formazione di una organizzazione non governativa in Iraq. Le stesse informazioni le ho date alla magistratura italiana. Come dimostrano i documenti che ho fornito, il lavoro si è svolto al di fuori del mio ruolo istituzionale, ed è stato finanziato con fondi iracheni e internazionali diversi da quelli del ministero dell’Ambiente italiano. Si è trattato di un lavoro riservato, e sempre per le stesse ragioni di riservatezza è stato deciso che la copertura delle mie spese – sulla base di tariffe internazionali – fosse assicurata attraverso una banca di Lugano.
Perché tutta questa riservatezza? Il contesto in cui ho cominciato a lavorare non era proprio dei più semplici. C’era ancora il governo provvisorio e la situazione era molto confusa. Il tentativo era quello di raccogliere il meglio della società civile irachena impegnata nell’ambito dello sviluppo sostenibile e convogliarne le energie verso un processo di sostegno alla democrazia “dal basso”, improntato all’idea prevalentemente americana delle fondazioni e delle Ong. È stato un lavoro svolto in condizioni difficili, che non consentiva pubblicità sul mio ruolo. I risultati sono importanti: Nature Iraq ha assunto un ruolo di riferimento per il processo di pacificazione e riqualificazione “sostenibile” del paese, riconosciuto con il prestigioso “Green” Goldman Prize nel 2013. Io sono un cristiano ma non riesco a trattenere la rabbia contro chi ha voluto trasformare questo grande lavoro in Iraq in un’azione criminale. Riguardo ai pagamenti che ho ricevuto, sulla base della relazione conclusiva redatta da Nature Iraq, stavo predisponendo la procedura per la dichiarazione dei redditi in Italia ma la procura di Lugano è arrivata prima e mi ha bloccato il conto. I soldi sono in Svizzera.
Quindi non è vero che li ha trasferiti in Italia «con gli spalloni»?
Abbiamo già dimostrato ai magistrati come i soldi che entravano nel mio conto corrente a Roma erano in realtà regolarissimi rimborsi ministeriali. Quella degli spalloni è una storia inventata ed è clamorosa. Come si può inserire una cosa del genere in un atto di accusa e renderla perfino pubblica (è girato pure il numero del mio conto corrente) senza aver fatto una verifica? È un segnale abbastanza chiaro del tipo di approccio che è stato dato a questa vicenda. Del resto la stessa Corte di cassazione, quando ha dichiarato l’incompetenza della procura di Ferrara, non ha risparmiato osservazioni critiche.
Veniamo al cosiddetto “sistema Clini”: lei di fatto è accusato di aver finanziato attraverso il ministero dell’Ambiente una miriade di progetti «senza gare d’appalto», allo scopo di favorire aziende “vicine”.
Altra accusa ridicola e infondata. Basta leggersi anche solo superficialmente le procedure che sono state seguite per capirlo. In Italia ho promosso circa 2.200 progetti. La gran parte realizzata attraverso bandi pubblici che hanno riguardato imprese, amministrazioni pubbliche, enti locali. 252 di questi progetti sono stati finanziati dall’Europa: 300 milioni contro un cofinanziamento del ministero di 3 (un rapporto di uno a cento, non male). Poi ho sottoscritto 50 accordi di programma con enti di ricerca, università e imprese, che sono stati cofinanziati per lo sviluppo di tecnologie innovative: accordi in virtù dei quali sono nati nel nostro paese centri di eccellenza e programmi di alta formazione. Ecco, il sistema Clini è questo. Una rete di eccellenze grazie alla quale l’Italia è riuscita a diventare leader di progetti europei di importanza enorme.
E i progetti sovvenzionati all’estero? Il Corriere della Sera ha scritto di «finanziamenti che potevano essere utilizzati in maniera strategica sul territorio italiano» ma che «per volontà di Corrado Clini» sono stati «in realtà dirottati altrove per interessi personali».
Ma noi mica abbiamo speso soldi all’estero perché ci è venuto in mente così. La legge 120/2002, che ratifica il Protocollo di Kyoto, da attuazione agli impegni assunti dall’Italia, e dagli altri paesi dell’Unione Europea, nell’ambito delle Nazioni Unite. In particolare, la legge stabilisce che l’Italia deve partecipare alle iniziative internazionali per «la promozione nei paesi in via di sviluppo di programmi per l’adattamento ai cambiamenti climatici, il trasferimento di tecnologie a basse emissioni o emissioni zero, la promozione delle migliori pratiche sostenibili nell’energia, nei trasporti, nell’agricoltura, nella gestione delle foreste, nella gestione dei rifiuti». Dunque nessuna “turbata” per trasferire risorse all’estero, ma un obbligo dell’Italia. Questo è il contesto nel quale sono stati promossi 350 progetti di cooperazione ambientale internazionale, di cui 300 nell’ambito di accordi bilaterali (120 in Cina, 85 nei Balcani, 45 nel sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente, 30 in Brasile e America Latina, 20 nelle piccole isole del Pacifico) e 50 in Africa, Asia e America Latina attraverso accordi con le istituzioni multilaterali (agenzie Onu, Banca Mondiale, Global Environment Facility). I programmi e i progetti sono stati individuati e proposti congiuntamente dai nostri partner e dal ministero, nell’ambito degli obiettivi indicati dagli accordi e sulla base delle priorità ambientali dei paesi coinvolti. Il ministero ha trasferito i fondi alle autorità dei singoli paesi e alle istituzioni multilaterali, che hanno avuto la piena responsabilità della gestione dei programmi e progetti secondo le regole e le procedure locali. Insomma, il ministero non ha gestito l’assegnazione di incarichi, ovvero appalti, per la realizzazione dei progetti della cooperazione ambientale internazionale.
Si metta nei panni dello spettatore di Report è ben strano che tanti di questi progetti siano stati assegnati ad aziende così vicine, se non proprio riferibili, a Martina Hauser.
È falso. Totalmente falso. Parliamo delle imprese italiane, oltre 450, che hanno partecipato ai progetti in Italia e nel mondo. Le cito per tutte la Fiat, che grazie al nostro lavoro e con fondi cinesi ha realizzato a Pechino, tra il 2003 e il 2013, la più grande fornitura di veicoli puliti per il trasporto pubblico: un successo che nel 2003 è stato presentato dal presidente Ciampi. Non mi pare che la proprietà della Fiat o delle altre 450 imprese sia riconducibile a me o alla mia compagna. Questa storia delle società che farebbero riferimento a Martina Hauser o a me è una storia ridicola.
E la Co2Print citata da Report?
Co2Print è una piccola impresa costituita da un gruppo di esperti che ha collaborato per anni – senza vincolo di esclusività – con una società pubblica che partecipa ai programmi del ministero dell’Ambiente: ingegneri e chimici con dottorato di ricerca, sottopagati e a un certo punto rimasti senza compensi per mesi. Così si sono messi sul mercato della consulenza ambientale. Guardiamo i numeri: su 210 imprese che hanno partecipato al Programma nazionale per la valutazione dell’impronta ambientale, sono 10 quelle che hanno richiesto i loro servizi. Dieci su duecentodieci. È ridicola l’idea presentata da Report che Martina Hauser andasse dalle imprese a proporre loro finanziamenti del ministero per avere in cambio contratti per questa piccola società. Ed è straordinaria l’impudenza con la quale la conduttrice, a fronte di numeri molto chiari e pubblici, dichiari sostanzialmente che c’era sotto un ricatto. È falso e per questo procederemo contro Report.
Ma perché ricorrere ai paradisi fiscali?
Io non so nulla di paradisi fiscali.
E riguardo alle società della sua compagna?
Non parlo a nome di altre persone. L’unica cosa che posso dire è che Martina Hauser non nasce mica dal nulla, non è che a un certo punto è diventata la mia compagna e perciò ha cominciato a lavorare con il ministero. Ha lavorato molti anni all’estero svolgendo attività importanti. Non per niente nel 2005 il presidente della Repubblica le ha conferito un’alta onorificenza per i servizi resi all’Italia nei Balcani. Anche Report avrebbe fatto bene a ricordare queste cose invece di costruire e vendere una immagine distorta attraverso la tv di Stato, pagando un giornalista per andare in giro a chiedere informazioni su Martina e su di me a bagnanti incontrati per strada o a testimoni con il volto coperto. Il giornalista che va davanti a una casa privata, riprende l’entrata e poi chiede al cameriere del ristorante di fronte qual è l’affitto che si paga: questa sequenza restituisce lo stile dell’inchiesta.
Idem per Augusto Pretner, l’imprenditore coinvolto con lei nell’indagine sulle presunte tangenti in Iraq?
Anche qui: io non parlo per altri, vedremo le carte in tribunale, ma è un po’ spericolato immaginare che se Pretner ha fondi in giro per il mondo questi derivino necessariamente da attività illecite commesse a danno del ministero dell’Ambiente. In Iraq la sua impresa è stata selezionata secondo le procedure locali da Iraq Foundation, ma prima aveva già una lunga e consolidata esperienza in Italia e in molti paesi, spesso con prestigiosi incarichi assegnati da istituzioni finanziarie internazionali. Voglio dire: non stiamo parlando di peracottari che vivono alle spalle dei finanziamenti pubblici.
Nemmeno un problema di opportunità rispetto al protagonismo di Martina Hauser?
Parliamone. Cosa ha fatto Martina Hauser per il ministero? Ha avuto contratti precari rinnovati annualmente, a fronte dei quali ha organizzato il gruppo di esperti che ha dato supporto tecnico ai governi dei paesi balcanici firmatari di accordi con il ministero dell’Ambiente per la realizzazione dei programmi di cooperazione ambientale. Tutte le attività della cosiddetta “Task Force Cee” sono pubblicate online. Lei non ha gestito un solo progetto, non ha gestito un soldo. È stata di supporto ai programmi che venivano sviluppati da questi paesi. E questi paesi come hanno affidato gli incarichi? Prevalentemente attraverso bandi pubblici, gare europee. Altro che affidamenti diretti «senza appalti».
Davvero le sedi estere del ministero dell’Ambiente sono vuote?
Ma quali sedi vuote. Nei Balcani avevamo due sedi presso le ambasciate di Belgrado e di Podgorica. La prima l’hanno svuotata dopo che sono stato arrestato: hanno licenziato tutto il gruppo degli esperti perché considerati “fedelissimi di Corrado Clini”. La seconda, dove c’era un’attività frenetica, è stata chiusa perché a un certo punto l’amministrazione del ministero dell’Ambiente su input evidentemente teleguidato ha deciso che non si poteva più pagare l’affitto.
Anche Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera scrive che i progetti del ministero in Cina erano «appalti fasulli». Il Corriere ha dedicato una pagina intera alla descrizione di come Clini «si intascava il 10 per cento» di tangenti sui programmi realizzati in Cina. Ma cita un rapporto della Guardia di finanza, una delle poche carte dell’indagine che ho potuto vedere anch’io, dove c’è scritto: risulta da una fonte confidenziale, che lo avrebbe saputo da un’altra fonte non identificata, che Clini prenderebbe il 10 per cento su tutte le attività svolte dal ministero in Cina. Poi c’è una nota a piè di pagina che dice: tutte queste informazioni sono da verificare. Già di per sé è singolare che cose come queste siano scritte in un rapporto delle Fiamme gialle. Ma è scandaloso che un quotidiano come il Corriere le riporti a tutta pagina. Per di più questi 20 milioni di tangenti sarebbero dovuti arrivare a me attraverso le autorità cinesi. È assurdo.
Perché ha querelato Bradanini?
Io ho deciso di denunciare l’ambasciatore italiano in Cina perché ha trasmesso notizie false che fanno la parte importante del dossier delle accuse contro di me. Io credo nella giustizia e dunque chiedo alla giustizia di verificare gli atti. Un esempio? Il grande progetto cofinanziato dal ministero dell’Ambiente e realizzato da Impregilo nell’Università Tsinghua di Pechino, la più importante della Cina, quella dove si sono formati tutti i premier compreso l’ultimo, ebbene questo edificio, che rappresenta per il paese l’archetipo della nuova edilizia ecoefficiente, è stato dichiarato dall’ambasciatore Bradanini, sulla base di informazioni raccolte da uno che non si sa bene che ruolo abbia, un palazzo inefficiente, cadente, energivoro, eccetera. Quell’edificio è stato visitato negli anni da ministri italiani non solo dell’Ambiente, è stato preso a modello dal ministro dell’Energia di Obama, il premio Nobel Steven Chu, durante una riunione del G8. Ma come è possibile che un ambasciatore d’Italia di fronte a un’opera italiana riconosciuta da tutti si permetta di dichiarare sulla base di informazioni raccolte da un passante che è un palazzo cadente? Ma chi rappresenta questo signore?
Perché Bradanini ce l’avrebbe con lei?
Non l’ho capito. So solo che fino a quando ho fatto il ministro ha mantenuto un atteggiamento prudente e apparentemente collaborativo. Ma il giorno dopo che ho lasciato l’incarico, il 3 maggio 2013, ha mandato una lettera al nuovo ministro Orlando in cui sollevava molte obiezioni sul programma di cooperazione ambientale Italia-Cina, pur avendo avuto tutte le informazioni e la possibilità di verificare di persona presso le autorità competenti. Ha messo a repentaglio i rapporti diplomatici rifiutandosi di incontrare ministri cinesi e addirittura attaccando durante una cena il ministro dell’Ambiente di Pechino. Ha lasciato intendere, come mostrano gli atti che ci sono stati consegnati dalla procura, che ci fosse una specie di cupola che coinvolgeva me e i ministri cinesi. Appalti fasulli? I progetti sono tutti lì. Alcuni hanno incontrato difficoltà perché ci sono stati terremoti e alluvioni, ma è tutto documentato dai verbali delle riunioni congiunte. È tutto pubblico. Tra l’altro a inizio novembre il ministro Galletti in visita ufficiale in Cina ha ribadito il valore della cooperazione ambientale tra i nostri paesi. Credo che questo confermi come l’ambasciatore, con la sua avventuristica iniziativa, stia agendo contro gli interessi dell’Italia. Mi dà un dolore enorme vedere come il lavoro svolto in anni da centinaia di persone e imprese italiane in Cina venga demolito da questo atteggiamento finalizzato a colpire me.
A proposito di demolizioni. L’Ilva di Taranto, mezza sequestrata e paralizzata com’è, presto non avrà più dalle banche neanche i soldi per pagare gli stipendi. Si profila il fallimento o la statalizzazione. Che idea si è fatto lei che da ministro se ne è occupato?
Ho preso in mano la questione dell’Ilva nel marzo del 2012, quando il governo Monti ha deciso di assumere un’iniziativa per scongiurare la crisi del polo siderurgico. In cinque mesi di lavoro, abbiamo completamente revisionato l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), oggetto in precedenza di molte critiche e indagini. Siamo riusciti a portarla all’approvazione e ad avere per la prima volta il consenso dell’azienda. L’Aia prevedeva in un arco di 36 mesi la ambientalizzazione del centro siderurgico con le migliori tecnologie, la conservazione dei posti di lavoro e anche un aumento della competitività, perché l’innovazione avrebbe ridotto il costo di produzione. Quando abbiamo rilasciato l’Aia, che è un atto amministrativo, cioè non ha bisogno di leggi per entrare in vigore, ci siamo trovati di fronte però all’iniziativa della magistratura di Taranto che ha sostanzialmente bloccato le produzioni a freddo, cioè praticamente l’intera attività dell’azienda. Abbiamo dovuto fare ricorso a un decreto legge per rendere l’Aia operativa, decreto poi convertito in legge dal Parlamento alla fine del 2012. Ma neanche questo è bastato. C’è stato bisogno di un intervento della Corte costituzionale. Sono passati sei mesi nei quali questa impresa è stata per altro privata della liquidità finanziaria per via di altri provvedimenti giudiziari. Insomma, quello che voglio dire è che nonostante l’impegno che l’impresa si era assunta anche dal punto di vista finanziario, sulla base di motivazioni che io non ho mai condiviso la magistratura di Taranto ha assunto una iniziativa che ha di fatto messo lo stabilimento su un binario morto. A cosa è servito? Ha migliorato le condizioni ambientali? Se l’Aia fosse stata applicata e il programma di risanamento dell’Ilva fosse cominciato nel novembre 2012 come previsto, oggi avremmo probabilmente il più grande e avanzato cantiere per la ristrutturazione ecosostenibile dell’industria siderurgica di tutta l’Europa. Abbiamo perso sciaguratamente un’opportunità straordinaria. E purtroppo la storia dell’Ilva sembra essere il paradigma di un istinto di autodistruzione che si sta mangiando l’Italia. Pensi al dissesto idrogeologico, che si aggrava di mese in mese perché le regole e i conflitti di competenza impediscono da anni di fare la manutenzione al nostro paese.