Zornitza Kratchmarova, Panorama 4/12/2014, 4 dicembre 2014
LA MIA VITA DIETRO A QUESTI OCCHIALI
[Lina Wertmüller]
«Il piacere dello scandalo fa parte della natura: o ce l’hai o non ce l’hai, io ce l’ho». Così Lina Wertmüller, 86 anni, in Dietro gli occhiali bianchi, il documentario sulla sua straordinaria vita artistica al cui primo ciak, presso il Teatro dell’Orologio, a Roma, Panorama ha assistito in esclusiva. Diretto da Valerio Ruiz, 28 anni, braccio destro della regista da quando appena ventenne ebbe il coraggio di avvicinarla al Festival di Ravello e di dirle con la voce tremante «da grande voglio fare il regista», è un viaggio tra i luoghi e le persone di una leggenda del cinema italiano nel mondo. «Ma soprattutto un’occasione in più per divertirci» scherza Wertmüller accogliendoci più tardi nella sua casa affacciata su piazza del Popolo, tra decine di lampade Art déco, gigantografie del marito, l’architetto-scenografo Enrico Job, morto nel 2008, suo compagno per 40 anni. E aggiunge: «L’ironia è tutto».
Non a caso lei è nel Guinness dei primati per il film con il titolo più lungo: 179 caratteri per una pellicola lei 1979 ribattezzata poi negli Usa Revenge. Vendetta. Cos’è, un vezzo?
I produttori vogliono titoli cortissimi perché possano essere evidenziati al meglio sui cartelloni. E io li faccio lunghissimi. Così, per divertirmi.
Quindi Dietro gli occhiali bianchi non l’ha scelto lei...
No, in effetti no. È stato Valerio. A proposito di occhiali, non ha mai pensato di cambiare montatura?
Perché dovrei? Mi piace, ha un’aria balneare. E poi me la sono fatta fare su misura, in una fabbrica: il lotto minimo era 5 mila pezzi.
Tra gli aggettivi che usa più spesso c’è «anarchico». Si considera tale?
Ho una natura anarchica, semmai. Non amo le regole. E poi il significato letterale di anarchico è «il governo di nessuno». E gli artisti non possono essere governati.
Anche Federico Fellini, di cui lei fu aiuto regista nei film cult La dolce vita e 8 ½, era ingovernabile?
Altroché. Lui più di tutti. Era uno con cui saresti andata volentieri a rubare la marmellata. Quante risate! Voleva farla in barba a tutti. Si sposò Giulietta [Masina, ndr) per mettersi una zia dentro casa. E così la fece in barba pure a se stesso.
Il suo matrimonio con Enrico Job com’è stato? Chi comandava in casa? Nessuno, per carità. Sono sempre stata una grande ammiratrice di Job (lo chiama per cognome). E lui di me, penso. È stato un gran bel colpo incontrarlo. Era un genio. Sa quali sono state le prime parole che gli ho detto?
No, me le dica.
È lei Job? Lei è uno stronzo. Eravamo a casa di un amico comune, l’aspettavamo per andare a cena fuori e lui non arrivava mai. Così, quando è arrivato... In molti dei suoi film, perlopiù degli anni ’70, il sottotesto è la lotta di classe. Ha ancora senso parlare oggi di lotta di classe?
Finché ci saranno i ricchi e i poveri la lotta di classe non cesserà. La qualità media della vita si è alzata in questi decenni, per carità. Ma ho l’impressione che a livello di disuguaglianze poco o nulla sia cambiato.
Dici Lina Wertmiiller e non puoi non pensare al duo Mariangela Melato-Giancarlo Giannini. C’è qualche coppia di attori, anche su scala internazionale, che oggi li ricorda?
Non credo. Oddio, forse qualcuno negli Usa. Penso a Bradley Cooper e Jennifer Lawrence (insieme, tra gli altri, in American Hustle e Il lato positivo, ndr), ma parliamo comunque di livelli diversi. Nel 2002, in Swept Away Madonna, insieme al figlio di Giannini, Adriano, si è cimentata nel remake di Travolti da un insolito destino... che consacrò proprio il duo Melato-Giannini senior. Le è piaciuto?
Non l’ho visto. Ma dubito che mi sarebbe piaciuto. Anni fa avrei voluto fare il sequel di quella pellicola, ma non c’è stato il tempo. Mariangela Melato non c’è più. Pensi che era venuta qui a dirmi della sua malattia, ma ne parlò con il sorriso, come un fatto ineluttabile. Lei, figlia di un ghisa milanese, era così... Che destino beffardo!
Lei crede nell’aldilà?
No, ma penso che quelli che riportano tutto a un signore con la barba bianca siano fortunati. Io temo l’infinito e l’eterno perché sono finita e certo non eterna.
Che cosa pensa dello stato del cinema italiano oggi?
È pieno di vuoti: Fellini, Luchino Visconti... Non c’è stato più nessuno alla loro altezza. Per il resto, che dire? «Famo bei film» per citare Carlo Verdone.
Ha visto La grande bellezza di Paolo Sorrentino?
No. Non mi piace la faccia di Sorrentino. Ha un viso strano. Poi che abbia vinto l’Oscar per il miglior film straniero va benissimo. Siamo tutti felici.
Nel 1976 lei è stata la prima donna regista nominata all’Oscar per Pasqualino Settebellezze. Come visse quei giorni?
La verità? Quella cerimonia fu di una noia mortale. Fu una cosa bella e importante, per carità. Ma a un certo punto mi alzai per fare un giro. E poi capisco poco l’inglese, lo parlo per non farlo parlare agli altri. In generale non amo le premiazioni.
Perché i suoi film non hanno mai il lieto fine?
Davvero? Non me ne sono mai resa conto.
Qual è il suo prossimo progetto?
Finiamo il documentario, intanto. Con l’anno nuovo faremo un bel giro con Valerio nei luoghi simbolo per me, perlopiù in Italia. E poi chissà... Ho un armadio pieno di progetti. Ce n’è da lavorare. E da divertirsi.