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 2014  novembre 29 Sabato calendario

LE IMPUNITE REGOLE DEL RATING UTILI RECORD E ZERO RIFORME


A un osservatore poco attento potrebbe sembrare che questi siano stati anni d’inferno per le grandi agenzie di rating. Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, le cosiddette tre sorelle, hanno subito attacchi pubblici dalle massime autorità e sono state additate come corresponsabili del precipitare della crisi finanziaria. I loro giudizi troppo generosi sui derivati costruiti su mutui ad alto rischio americani hanno danneggiato la loro immagine e, per un periodo limitato, hanno pregiudicato i loro margini di profitto. Le cause legali promosse negli Stati Uniti e in Italia, si dirà, sono state un colpo difficile da attutire.
In realtà le tre sorelle sono alive and kicking, vive e vegete. L’anno scorso i ricavi ottenuti da servizi sul rating hanno sorpassato i livelli pre-crisi, notava l’Economist, e quest’anno si prevede un’ottima annata vista l’esigenza degli operatori di orientarsi nei marosi europei.
Le proposte di riforma delle agenzie di rating dagli Stati Uniti all’Europa hanno dato risultati insoddisfacenti. In America con il Dodd Frank Act, un complesso di riforme del sistema finanziario post-crisi, si demandava alla Sec, l’autorità che vigila sulla Borsa americana, di stringere la regolamentazione: un processo non ancora ultimato. L’Unione europea ha creato la European Securities and Markets Authority per vigilare sulla loro condotta. L’ex commissario europeo per il Mercato interno, Michel Barnier, mentre in Parlamento esponenti del partito socialista gridavano al «complotto anglosassone», propose di creare un meccanismo a rotazione cambiando ogni due o tre anni l’agenzia che dà un giudizio su una emittente privata (banche in particolare) coinvolgendo a turno altre 10 agenzie formalmente indipendenti. Sui rating sovrani, cioè sugli Stati, Barnier avanzò la proposta choc di un blackout dei giudizi in «circostanze eccezionali» come pesanti turbolenze in Borsa. Negli Stati Uniti e in Europa le lobby finanziarie contestarono simili provvedimenti evidenziandone le controindicazioni, in particolare l’aumento della volatilità dei mercati derivante dall’incertezza di non avere più un arbitro (per quanto discusso o considerato inaffidabile).
Il Financial Stability Board, sotto la presidenza di Mario Draghi, oggi presidente della Banca centrale europea, incoraggiò le autorità a ridurre la dipendenza delle agenzie i cui giudizi «portano a risposte “meccanicistiche” da parte degli attori di mercato» coi declassamenti che possono «amplificare la prociclicità e causare sconvolgimenti sistemici». Il suggerimento di Draghi? «Rimuoverle o sostituirle».
D’altronde la storia delle tre sorelle è «la storia di un colossale fallimento» (Henry A. Waxman, ex presidente della Oversight and Government Reform Committee, commissione d’inchiesta della Camera dei rappresentanti statunitense). Dalla tripla A, il giudizio massimo, alle banche più esposte ai mutui a rischio, alla completa agibilità data alla Grecia fino al 2007, e via via indietro nel tempo fino a sviste clamorose come il crollo borsistico dei primi del Novecento che non venne previsto.
A farne le spese in questi anni sono gli Stati sovrani. Recep Tayyip Erdogan a settembre ha reagito minacciando l’agenzia Moody’s, rea di avere parlato di «rischio politico» dopo pressioni governative sulla Banca centrale. Nel 2013 il presidente della Turchia aveva diffidato S&P dal rilasciare giudizi, licenziandola, per avvalersi solo di Moody’s e Fitch. Il rapporto incestuoso tra gli Stati sovrani che pagano le agenzie per emettere rating sul loro merito di credito è stato criticato anche in Italia. L’Espresso si chiedeva perché Roma debba pagare 200.000 euro l’anno per ricevere sentenze delle “big three”, scelte a turno con gara «semipubblica», quando i loro giudizi, se avventati, comportano conseguenze disastrose. È il caso dei voti di S&P e Fitch rilasciati nell’estate orribile del 2011 (fino al gennaio 2012) che, secondo la Corte dei conti, hanno provocato un danno erariale da 120 miliardi di euro. La procura di Trani ha chiesto il rinvio a giudizio per cinque tra manager e analisti di S&P per grave manipolazione del mercato. In America è stato chiesto a S&P un risarcimento di 5 miliardi di dollari per i suoi rating a dir poco largheggianti sui derivati (i funzionari sapevano di vendere robaccia). Le agenzie si riparano dietro al primo emendamento della costituzione americana, replicando che le loro esternazioni sono frutto del libero pensiero e che la libertà di parola è insindacabile: una scappatoia diventata sempre più stretta. L’inchiesta di Trani ha infatti il merito di avere inchiodato le agenzie alle loro responsabilità davanti all’autorità giudiziaria, come un qualsiasi attore economico inetto o negligente. E la responsabilità civile offre incentivi a impedire o prevenire condotte dannose (sarà per questo che i giudizi sono più accorti?).
Tuttavia l’oligopolio resta. Le tre sorelle controllano il 95 per cento del mercato.
A livello globale le iniziative indipendenti sono molteplici: la londinese CreditSights copre vasti settori industriali, l’Economist Intelligence Unit valuta gli Stati sovrani. La cinese Dagong, formalmente distaccata dal governo di Pechino dal 1997, ha l’obiettivo dichiarato di intaccare il monopolio delle anglosassoni. Dal 2012 ha stabilito il suo quartier generale europeo a Milano grazie ai servigi dell’ex presidente del consiglio Romano Prodi: la risonanza mediatica è notevole ma non è entrata nell’Olimpo delle agenzie certificate dall’Unione europea. Piuttosto qualcuno dovrebbe fare un monumento alla Dbrs, piccola agenzia canadese accreditata insieme alle “grandi”. La Bce infatti può accettare come “collaterali”, cioè prendere a prestito titoli in cambio di una garanzia da parte delle banche prestatrici, solo quei bond che hanno rating uguale o superiore a A-assegnato da almeno una delle agenzie, altrimenti dovrà applicare al prestito un tasso superiore al 5 per cento del valore di mercato. Provvidenziale è stata la sua “A” data all’Irlanda e pure la “A low” che tuttora assegna all’Italia. Dunque non tutti i signori del rating fanno danni.