varie, 1 dicembre 2014
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 1 DICEMBRE 2014
Giovedì scorso l’Opec, organizzazione che riunisce dodici Paesi esportatori di petrolio, ha deciso di mantenere una produzione giornaliera pari a 30 milioni di barili. Non è passata la richiesta di un taglio per fronteggiare il crollo del prezzo del greggio, che in cinque mesi ha perso il 35% passando da 115 dollari ai 70 di oggi [1].
Il vecchio cartello di Paesi che garantisce il 40% del petrolio prodotto nel mondo ha fatto qualcosa che non tutti avevano previsto: è rimasto fermo. Ha deciso di non agire, di fronte a un eccesso di produzione mondiale che il Venezuela stimava in due milioni di barili al giorno. Senz’altro il primo responsabile della scelta è stato Ali Al-Naimi, ministro del petrolio dell’Arabia Saudita e, come tale, mente e voce del primo produttore del pianeta. Il regno sunnita del Golfo, che da solo vale circa 12 milioni di barili al giorno (ma ne estrae solo 9), ha deciso che il prezzo può scendere ancora [2].
La turbolenza è appena cominciata, né si sa come e dove finirà. Fino ad agosto, e da quattro anni, i prezzi non si erano molto discostati dall’area dei 100 dollari al barile, soglia di sicurezza per tutti i produttori. Sia quelli Opec, che hanno bilanci statali non certo immacolati, sia i non Opec (tra cui Stati Uniti e Russia), di rilevanza crescente sullo scacchiere geopolitico [3].
Sul calo della domanda di energia si fa sentire la frenata dell’economia europea, quella della Cina e la svolta americana: la rivoluzione del fracking, il gas e il petrolio estratti dalla roccia di scisto, avvicina ormai gli Stati Uniti all’obiettivo dell’autosufficienza nell’energia. Fubini: «Se questi sono i fatti, non sono così univoci da mettere d’accordo chi li osserva da Washington o dalle capitali europee. A spiegare la scelta saudita di lasciar cadere le quotazioni, in fondo, non basta la certezza che le soglie di profitto per Riyadh restano comunque elevate: produrre un barile nel deserto della penisola arabica costa appena 12 dollari. Quando in gioco è il prezzo del greggio, anche la politica entra sempre nell’equazione» [2].
Nelle banche d’affari di Wall Street da settimane si stanno così facendo strada anche letture legate ai rapporti dei grandi produttori Opec con la Russia e gli Stati Uniti. Negri: «I sauditi stanno orchestrando da alcuni mesi una manovra con conseguenze assai gradite agli americani: creare altri problemi a Russia e Iran, due Stati nemici e sotto sanzioni che dipendono per i loro bilanci da gas e petrolio. I proventi energetici contano per il 60% del bilancio di Teheran, per il 50% in quello di Mosca» [4].
Non tutti gli analisti sono convinti però che le scelte dell’Opec rappresentino davvero un favore all’America. Qualcuno sospetta il contrario. La mossa di Al-Naimi potrebbe mirare a mettere fuori mercato parte della nuova concorrenza statunitense. A seconda degli impianti, gli idrocarburi estratti dalla roccia di scisto in America producono redditi a prezzi fra i 40 e i 115 dollari. Per i sauditi, tenere il greggio a 70 significa sperare di spiazzare parte della nuova produzione americana. La stessa estrazione di greggio dalle sabbie bituminose in Canada, sostenibile solo a 80 dollari, finirebbe per costare centinaia di miliardi di perdite alle compagnie occidentali che vi hanno investito. Così l’Opec con i prezzi bassi spera di rallentare lo sviluppo della nuova generazione di tecnologie occidentali che stanno rendendo il vecchio cartello sempre meno decisivo [2].
Ma l’interesse strategico di Washington a raggiungere l’indipendenza energetica è troppo importante rispetto a logiche di mercato di medio periodo, per cui lo shale oil non verrà mai abbandonato. Bussi: «La sola idea che Riyadh abbia imposto agli altri membri dell’Opec di mantenere invariata la produzione, provocando così il crollo dei prezzi del greggio per mettere all’angolo i produttori di shale oil negli Stati Uniti è davvero risibile. Come se Riyadh non fosse da sempre la più stretta alleata di Washington. Come se fosse finita da un giorno all’altro la storica rivalità fra Arabia Saudita e Iran, uno dei Paesi produttori, insieme a Russia e Venezuela, destinati a soffrire di più per il crollo dei prezzi. È vero che la mossa saudita darà fastidio allo shale oil americano. Ma i vantaggi che il crollo dei prezzi può dare a Washington rendono sopportabile qualche piccolo effetto collaterale» [5].
Il boom del petrolio da fracking dei pozzi americani, che ormai vale oltre 3 milioni di barili di greggio al giorno, quasi il 3 per cento della produzione mondiale, ha saturato l’offerta mondiale di petrolio, a cominciare da quella americana. Ricci: «Grazie al fracking, gli Usa, storicamente i maggiori acquirenti di greggio sul mercato mondiale, hanno visto le loro importazioni crollare. Quelle dai paesi dell’Opec sono al livello più basso degli ultimi 30 anni» [6].
E se il calo del prezzo del petrolio costringerà a sacrificare i giacimenti di shale più costosi e le società produttrici più piccole (ma l’America e i suoi consumatori se ne faranno più di una ragione), i paesi Opec africani rischiano invece la bancarotta statale. Libia, Nigeria, Algeria, ma anche Iran e Iraq hanno parità dei conti ben sopra i 100 dollari, e pagano dazi salati, anche in termini di produzione, ai loro instabili sistemi politici. Venezuela ed Ecuador hanno guai simili [3].
Nel caso dei produttori tradizionali, il problema non è il costo di estrazione del greggio, normalmente assai basso. È che i soldi del petrolio servono a far quadrare i bilanci. Ricci: «Due terzi degli incassi dello stato nigeriano vengono dal petrolio e, per far quadrare il bilancio pubblico, il grande paese africano avrebbe bisogno di una quotazione del greggio a 128 dollari al barile, altro che 70. Per colmare la differenza, nelle casse pubbliche ci sono solo 40 miliardi di dollari. In una situazione analoga ci sono Libia, Iran, Venezuela. Solo gli emirati del Golfo non hanno queste apprensioni. Gli stessi sauditi avrebbero bisogno di un prezzo più alto dell’attuale, ma un rapporto debito/pil al 2,7% e riserve per 750 miliardi di dollari gli consentono di poter reggere ancora a lungo la guerra dei prezzi» [6].
Petrolio e gas sono fondamentali per la Russia, di cui costituiscono il 70% delle esportazioni. Metà delle sue entrate fiscali dipende dagli utili delle compagnie energetiche. Non per nulla a Mosca qualcuno incomincia a sussurrare che la caduta dei prezzi del greggio è la vera sanzione punitiva in grado di mettere in ginocchio il Paese. Ricci: «C’è una regola che in Russia ha sempre funzionato in modo implacabile: quando sale il prezzo del petrolio si rafforza anche il leader del Cremlino (lo si è visto nell’ultimo decennio con Putin), quando il prezzo cala il potere traballa (è successo con Gorbaciov e poi con Eltsin). A partire dal marzo di quest’anno, in coincidenza con l’invasione della Crimea, il costo del greggio ha iniziato la sua corsa all’ingiù. Ogni calo di un dollaro implica una perdita per Mosca di 1,7 miliardi. E gli scenari per il 2015 non promettono nulla di buono» [6].
Non è detto però che chi produce i barili di greggio abbia pensato a fare anche i coperchi. Negri: «La manovra di mettere alle corde Russia e Iran per rendere più malleabili Putin e gli ayatollah potrebbe non funzionare. Con il greggio a 10 dollari il governo del moderato Mohammad Khatami venne messo alle strette e a prevalere poi fu Ahmadinejad, esponente della linea dura dei Pasdaran. La situazione potrebbe ripetersi se il presidente Hassan Rohani non porterà a casa qualche risultato. Se Rohani fallisce, a Teheran vedremo altre facce al comando e ci ricorderemo di questo vertice Opec» [4].
Leonardo Maugeri, docente ad Harvard e guru indiscusso del settore: «Quando si parla di petrolio, è forte la tentazione di immaginare chissà quali retroscena torbidi e perversi. Qualche volta ci sono, beninteso, ma stavolta no: l’Opec si trova davvero spiazzata» [7]; «Ci troviamo di fronte a un superciclo di investimenti dell’industria petrolifera mondiale, partito nel 2010. In questi quattro anni sono stati spesi circa 2.500 miliardi di dollari complessivamente, dalle national oil company e dalle major, una cifra enorme destinata a scoperta e sviluppo di nuove riserve di petrolio e gas.
Lo chiamo superciclo perché tutto ciò è avvenuto a seguito di un ciclo già robusto di investimenti avviato dal 2003 in poi. La conclusione è che ora sta entrando nuova capacità produttiva frutto di questi investimenti passati». Insomma, per ora di petrolio ce n’è in abbondanza [8].
La caduta dei prezzi del greggio significa anche una caduta dei prezzi della benzina e del costo dei trasporti e «dovrebbe essere quindi trattata come un taglio delle tasse per i consumatori» (Peter Dragicevich, strategist di Commonwealth Bank of Australia) [5].
E se Ed Morse, capo della ricerca sulle commodity di Citigroup il mese scorso aveva calcolato che un Brent a 80 dollari al barile è l’equivalente di un taglio alle tasse di 600 dollari all’anno per una famiglia americana proprietaria di un’automobile, figuriamoci che vantaggio si avrebbe se i prezzi si fissassero intorno ai 70 dollari al barile [9].
Una vera e propria manna per i consumatori Usa, nel momento in cui la Federal Reserve ha terminato il programma di acquisto di asset, quel famoso QE che è servito a fare salire le borse, ma i cui effetti sull’economia reale sono sempre più messi in discussione [9].
Bussi: «Con i prezzi del petrolio crollati di oltre il 30% dal mese di giugno, finalmente arriva davvero qualcosa anche nelle tasche della gente comune, i cui risparmi sulla benzina potrebbero essere utilizzati per altri consumi, magari superflui, dando così la spinta necessaria a rendere davvero solida e sostenibile la ripresa Usa. Si potrebbe quindi dire che la numero uno della Fed, Janet Yellen, abbia passato il testimone degli stimoli all’economia americana all’immarcescibile ministro del Petrolio saudita, Ali al Naimi» [5].
Bisogna infine ricordare che il crollo dei prezzi può stimolare i consumi in Cina ancora di più che negli Usa, visto che Pechino è molto più dipendente di Washington dalle importazioni di energia. Anche il colosso asiatico sta rallentando e la mossa saudita può impedire che la frenata si trasformi in una disfatta [9].
Per l’Italia, il calo della bolletta petrolifera è senz’altro una buona notizia destinata a migliorare l’anda-mento dei conti commerciali (la benzina cala poco a causa del contemporaneo rafforzamento del dollaro e soprattutto perché, in Italia, il suo prezzo è composto per il 60% da tasse fisse) [8].
Bertone: «Ma l’Europa rischia una vittoria dimezzata: si riduce la bolletta petrolifera e non il distacco dagli Stati Uniti. Gli Usa, grande produttore e grande consumatore, stanno sfruttando l’energia a basso prezzo (meno della metà di quel che pagano le aziende europee) sia per poter competere meglio sui prezzi che per attrarre nuovi investimenti: raffinerie, industrie chimiche, impianti per l’alluminio e acciaierie, produzioni ormai tabù nella vecchia Europa e più convenienti in Usa rispetto alla Cina, ove la forza lavoro costa sempre di più. Insomma, a vincere questo round sono stati gli Usa, grazie al sostegno garantito dall’Arabia Saudita. Sapremo presto a quale prezzo» [8].
Note: Note: [1] Francesca Basso, Corriere delle Sera 28/11; [2] Federico Fubini, la Repubblica 29/11; [3] Andrea Greco, la Repubblica 28/11; [4] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 28/11; [5] Marcello Bussi, MilanoFinanza 29/11; [6] Maurizio Ricci, la Repubblica 25/11; [7] Eugenio Occorsio, la Repubblica 29/11; [8] Ugo Bertone, Libero 28/11; [9] Francesco Colamartino e Jessica Longarini, MilanoFinanza 28/11.