Antonio Pennacchi, Limes: Quel che resta dell’Italia 11/2014, 3 dicembre 2014
AJMONE FINESTRA E IL PIANO REGOLATORE DI LATINA
AJMONE FINESTRA (1921-2012) fu sicuramente un fascista. O meglio, più che fascista, lui diceva d’essere un soldato. Partito volontario per il fronte balcanico a nemmeno vent’anni – prima come sergente, poi sottotenente e tenente dei bersaglieri – dopo l’8 settembre 1943 aderì alla Rsi e continuò a combattere fino all’ultimo anche lì collezionando, tra Rsi ed ex regio esercito, una medaglia d’argento al valor militare, due di bronzo, due croci di guerre italiane, due croci tedesche di prima e seconda classe, e una promozione sul campo a capitano. Quando si consegna infine agli americani a Novara, il 2 maggio 1945, con tutto il suo reparto, egli è a capo del battaglione «M» Venezia Giulia.
Aveva ventiquattro anni. Gli americani lo rinchiusero subito nel Fascist criminal camp di Coltano, da cui però evase. Lo riacciuffarono solo nel 1946 e lo processarono per «crimini di guerra», prima a Forlì – dove però venne assolto con formula piena – e poi a Novara, dove in prima istanza gli diedero 16 anni e otto mesi e solo in appello, nel 1949, lo assolsero anche lì dalle accuse più gravi e condannarono soltanto per «collaborazionismo», su cui era però intervenuta l’amnistia Togliatti. Tornò libero a Littoria – che oramai era però divenuta Latina – tra la fine del ’49 egli inizi del ’50.
Poi tutta una vita nel Msi. Di mestiere faceva l’insegnante di educazione fisica ed il fisiokinesiterapista. Passò tutti gli anni Cinquanta a farsi ogni anno corsi di superspecializzazione in Austria e in Inghilterra. Fu un precursore e certe tecniche le introdusse lui, qui in Italia. Fondò un istituto di fisiokinesiterapia che oggi a Latina – tra palestre, sport, fitness, piscine, calcetti e mazzi vari – è un’industria da settanta dipendenti. Ma soprattutto il Msi.
Fu deputato regionale, due volte senatore della Repubblica e infine – subito dopo tangentopoli, quando oramai non se lo aspettava proprio più, assuefatto anche lui all’incontrastato dominio democristiano – due volte sindaco di Latina dal 1993 al 2002.
È stato un grande sindaco. Alcune le ha sbagliate ed altre le ha azzeccate, ma oramai e entrato nel mito, nella pur breve storia della città. E ci è entrato probabilmente più per le battaglie che ha perso, che per quelle che ha vinto e, prima su tutte, quella del piano regolatore.
Era il 2000-2001 quando scoppiò il casino (questa storia la racconta anche il film Latina Littoria di Gianfranco Pannone).
Finestra – a capo di una giunta An e Forza Italia – aveva affidato la redazione di un nuovo piano regolatore all’architetto bolognese Cervellati, storicamente vicino all’ex Pci. Anche l’assessorato alla cultura lo aveva dato a un uomo che veniva da sinistra, l’architetto Francesco Tetro, perché lui era così; se s’innamorava di una cosa, gli fregava assai se era di destra o di sinistra: «È giusta e basta».
Al momento però di votare il piano Cervellati, il consiglio comunale si fece venire i mali di pancia. Soprattutto quelli di Forza Italia – legati da sempre ai costruttori – ma pure gli altri, gli An suoi e la sinistra ufficiale.
Il povero Nando Cappelletti – il suo più stretto collaboratore, l’ufficiale d’ordinanza diciamo – si dimise subito e voleva che si dimettesse anche Finestra: «Andiamo alle elezioni anticipate, così sul piano regolatore decide il popolo».
Poi dice i fasci.
Finestra era più politico però, credeva lui, e alla fine riuscì a convincere un po’ dei suoi – e qualcuno pure dell’opposizione di sinistra – a votargli il piano. Ed era tutto contento quando, nel 2002, arrivò al termine del suo mandato: «Ce l’ho fatta».
Era il secondo mandato però – l’ultimo, non si poteva più ricandidare – e la nuova giunta An-Udc-Forza Italia testé eletta, si fece subito bocciare il piano dalla Regione per alcune micro questioni procedurali, senza ovviamente più presentare alcun ricorso od eccezione. Cassato e basta. E a Latina è tuttora in vigore il vecchio piano Piccinato, tanto caro alla speculazione. L’eterno e trasversale partito – come si suole dire – di calce e mattoni.
Littoria era nata nel 1932-34 – su disegno di Oriolo Frezzotti – per una previsione di 50 mila abitanti da raggiungere chissà quando. Aveva pianta ottagonale ed era concepita come «città di servizio» al territorio, appena bonificato e cosparso dalla estesissima rete dei poderi agricoli dei coloni, a cui l’Opera Combattenti aveva assegnato le terre tolte alla grande proprietà latifondista.
Quando nel 1944-45 cade il fascismo però, e anche a Littoria arriva giustamente la democrazia, subito le si cambia nome in Latina e si indicono le elezioni. Il primo sindaco a capo di una giunta democratica – di sinistra – sarà un repubblicano iscritto al Pri; ma tutti quelli che verranno dopo saranno solo e sempre, fino a Finestra appunto, democristiani. Anzi, pure l’ex primo sindaco repubblicano finirà per passare alla Democrazia cristiana, diventandone capogruppo in consiglio comunale.
A partire dal 1944-45, in ogni caso, la politica edilizia ed urbanistica non viene più determinata da quella funzione generale e collettiva di città di servizio al territorio, ma da una logica imprenditoriale e speculativa di mero «fare» edificatorio. Ad una visione pianificata della città come coordinato organico complessivo – o meglio: corporativo, lo chiamavano i fasci al tempo loro – subentra un’indiscriminata brama liberistico-capitalista: «Famo un palazzo qua, famo un palazzo là, famo tutti i palazzi che riuscimo a fa’».
Dal 1944-45 sino a tutto il 1972 questa ideologica brama – costruire per costruire, anche con arbitrii formali e continue lottizzazioni fuori piano – si realizza nel crudo succedersi dei fatti, senza razionalizzazioni a monte. L’intera politica cittadina è governata e fatta anche in prima persona – addirittura in giunta o in consiglio comunale, senza infingimento alcuno – direttamente dai costruttori edili e dagli immobiliaristi; lo stesso ex primo sindaco repubblicano era già lui un costruttore.
La storia però non è che processualità in atto, ed ogni processo storico – compreso il nostro – comporta per sua natura elementi e connotazioni anche di segno opposto. Non tutto fu quindi soltanto negativo, c’erano anche «stati di necessità» e ragioni aggettivamente positive che lo avevano determinato: la ricostruzione dopo la guerra; il bisogno della città appena nata di costituirsi quanto prima come «massa critica» anche in termini edilizi; e poi le industrializzazioni della Cassa per il Mezzogiorno e le conseguenti nuove immigrazioni che la portarono nel 1960 a raggiungere già, e superare, i 50 mila abitanti previsti originariamente da Frezzotti e dai Padri fondatori. Resta, però, che fu un crescere convulso. Non collettivamente coordinato. Privatistico.
Quel pragmatico «fare» arcaico-mercantile trovò infine forma e ideologizzazione compiuta nel 1972 con il piano regolatore «Piccinato&C.». Inglobate tutte le lottizzazioni e le avventure fuori piano, ci si slanciò verso i 130 mila abitanti – quali abbiamo adesso – e pure oltre. Seguendo i dettami della cosiddetta «urbanistica internazionale» Piccinato s’avventò contro i fondamenti concettuali e le forme stesse della vecchia città di bonifica – contro Littoria – negandola, annullandola e svilendola sino all’umiliazione. Alle geometrizzazioni della vecchia città radiale e dell’intero Agro Pontino, la nuova città di Piccinato giustappone un tessuto primario di strade a linee curve, che produce oltretutto una costante perdita del senso di orientamento: tu non sai mai dove stai. La cancellazione dei secolari percorsi di via Lunga, via Persicara e via dell’Agora, già sentieri delle vecchie Paludi rivivificati dai poderi della bonifica, è tesa a cancellare – mediante ripetute interruzioni e sbarramenti con blocchi edilizi – l’opera e il ricordo della bonifica stessa, considerata in toto «fascista». E la cinica premeditazione di queste obliterazioni – il disvelamento dell’animus revanscista ed antilittoriano che informa il piano Piccinato – si fa manifesta in quel monstrum di 37 piani per 127 metri d’altezza chiamato «torre pontina»; una bomba urbanistica ad orologeria, deflagrata in questi ultimi anni.
Dice: «E perché mo’ sei contro i grattacieli?».
No, anzi. A me i grattacieli piacerebbero pure, se fatti bene. Ma questo è brutto. Una volta che hai deciso di farlo, chiama Renzo Piano, no? Ma soprattutto bisogna vedere – dove stanno dov’è che li pianti – i tuoi grattacieli. Non è che un posto valga l’altro.
Questo immane cazzabbubu invece – realizzato tra il 2007 e il 2010 sotto le giunte post-Finestra, ma già previsto dal piano Piccinato esattamente lì, in quel preciso posto, con la stessa mole, altezza, ingombro e cubatura – sta a ridosso della città vecchia, all’immediata prosecuzione del suo asse decumano su cui incombe minaccioso, ad annullare ogni altro skyline e prospettiva. Tu ti incammini sul viale Mazzini magari – dal Tribunale – e già ti ritrovi schiacciato da quel coso. È un fuori-scala da zero in condotta all’università, teso a svilire ed annullare – con Littoria – la torre campanaria del comune esattamente come il grattacielo Key fa col campanile e la cattedrale di San Marco. Falli da un’altra parte allora – se proprio li vuoi fare – i tuoi grattacieli.
Macché. Proprio lì. «Mo’ mi ti mangio; par che dica la città nuova di Piccinato – non-luogo assoluto – a quella vecchia e «fascista». Un citycidio studiato a sangue freddo col tecnigrafo, mentre nei nuovi quartieri ghetto – di lusso alcuni, ma sempre ghetto – questo non-luogo dai tortuosi percorsi spaesa e disorienta la gente, non fornendole neanche uno straccio di piazza o spazio pubblico di aggregazione, ma solo centri commerciali e metri cubi di calce e cemento; per non parlare dei Borghi rurali, massacrati anch’essi, in aperta campagna, da palazzi di sette od otto piani. «Eeeh», diceva un amico mio: «Ma questa la sconti, il giorno del Giudizio».
Con tutto ciò, non mi sogno di dire che anche qui ci siano solo ragioni o connotazioni negative. Anzi, se la si guarda dall’alto, pure la Latina nuova può apparire bella. È la città italiana con il massimo indice pro capite di verde, e se vai in giro in macchina con Silvano Roccato – assessore socialista all’urbanistica negli anni Ottanta, incriminato per tangentopoli ma assolto poi con formula pienissima; già coriaceo terzino del Latina in serie C nel 1951-53, più scorbutico di un Gentile o d’un Pasquale Bruno; né storpiò più lui che la polio, lo avessero incriminato per questo, lo avrebbero condannato col botto; ma se e era lui nella finale dei play-off con il Cesena per la A nel 2013-14, passavamo noi di sicuro, forza Latina forza Leone Alato; non glielo faceva fare quel cross a Marilungo, piuttosto lo squartava – se stai in giro in macchina con Silvano Roccato non puoi svoltare un angolo, che subito non dica con orgoglio: «Questo l’ho fatto fare io, quest’altro pure. Tu sei un conservatore, Anto’!»
«Conservatore io?!»
«Sì, perché tu rimpiangi la città piccolina dentro la circonvallazione di quand’eri ragazzino. Esci fuori, Anto’! Noi dovevamo crescere e la città deve crescere ancora, se vuole servizi sempre migliori fino all’eccellenza: ospedali, scuole, teatri, sport, università. Se non cresci non sei nessuno».
Anche Piccinato e i suoi, avevano quindi le motivazioni architettural-urbanistiche loro – i cambi di prospettiva, le zonizzazioni, il governo dei flussi di traffico, l’internazionalità – ma a me quella città pare comunque disegnata nel prevalente se non esclusivo interesse dei gruppi immobiliari e della proprietà capitalista. A Latina tutt’oggi l’unico potere sovrano che regna in città – a parte i pompieri e le forze dell’ordine – è quello dei costruttori. Altro che democrazie.
È vero come dice Massimo Rosolini – un amico mio che da giovane ha studiato alla Sorbona; il padre Nello è un poeta; con lui però, con Massimo, mi litigai per queste cose – è vero che anche nell’Ottocento l’urbanistica era determinata fortemente dalla speculazione: «Basta leggersi Roma capitale. È il liberal-capitalismo che funziona così. Solo nella città fascista fondata ex novo e nella città comunista è diverso. Ma lì c’è il piccolo particolare che il suolo è pubblico, è questo che fa la differenza».
Certo, ma «est modus in rebus» dice Orazio – c’è modo e modo anche nel capitalismo – e pure a Roma capitale, a Prati, le strade le fecero dritte e larghe e ci si orienta tuttora benissimo, con piazze, alberi, cortili e fontane. Nei quartieri nuovi al di là della vecchia circonvallazione di Latina invece – con quelle strade tutte curve – io mi perdo e non so più dove sono. Mi debbo fermare a chiedere ai passanti come fare per uscire; mi sembro ogni volta Finestra che evade dal Criminal Camp. Io voglio le strade dritte e le piazze in cui il cittadino – se si arrabbia – ha tutto il diritto e la possibilità di salire su una sedia e mettersi a strillare; di farsi un comizio, se vuole. Provaci tu, a metterti a strillare in un centro commerciale. Lì è privato – ti portano via – e ad una cert’ora tirano giù le serrande e chiudono pure. Piazza mia del Popolo invece non la chiude nessuno (o meglio, adesso ci sta pensando la nuova giunta).
Che ti debbo dire? A me pare più democratica – o almeno molto più libera e libertaria – la città fascista d’una volta che quelle che ci vanno costruendo adesso. Non solo a Latina, ma in tutti i quartieri d’espansione d’Italia e del mondo.
Nella città europea – per come si era data dal medioevo fino al Novecento fascista compreso, che l’aveva solo reinterpretata adeguandola alla modernità – tu lavoravi vicino a dove abitavi, tuo figlio andava a scuola con gli stessi compagni con cui il pomeriggio giocava a pallone in cortile o nella piazzetta lì nei pressi e tu stesso, la sera, ti vedevi con i tuoi vicini al bar o all’osteria sotto casa. Tu vivevi, e tuo figlio cresceva, integrati ambedue nella comunità urbana di cui eravate parie.
Questi adesso – come se ogni generazione, superba hybris, dovesse di botto partorire un modo nuovo di fare le città: «Fino a adesso e per tutta la storia non avete capito niente; mo’ arrivo io e ribalto il mondo» – si sono inventati le zonizzazioni: in questo posto si risiede e basta, si dorme e si vive reclusi nei residence con tanto di recinti. Per lavorare si prende la macchina e si va da quest’altra parte, nelle zone appunto in cui si lavora e basta, e nessuno ci vive; altrettanto si fa per i figli con la scuola, la palestra, la piscina o quel che sia: sempre in macchina verso altri luoghi, dove di volta in volta incontri gente con cui fai solo quella determinata cosa, poi arrivederci e grazie e ognuno al ghetto suo, mentre il vicino di casa che ti abita di fronte lo vedi sì e no alle riunioni del condominio, poiché sotto la tua casa dormitorio non c’è spesso neanche un bar, e pure per le sigarette devi prendere la macchina e attraversare l’ignoto. Vivi – te e tuo figlio – disaggregato dal contesto sociale. Alienato. Imploso e frammentato.
Ma non basta. Tu nella città europea d’una volta – fino al Novecento, e in Italia fino al fascismo e poco oltre – quando uscivi di casa la mattina avevi di fronte almeno due possibilità di scelta, sulla direzione da prendere: a destra o a sinistra, da una parte o dall’altra. Varcato il tuo portone decidevi tu, poi, dove andare. Adesso invece ha già deciso Piccinato o chi per lui, con queste grandi autostrade urbane da cui si dipartono via via le derivazioni primarie, secondarie e infine – sempre più stretti – i budelli ciechi che muoiono nel «cui de sac» davanti al tuo residence-prigione. La strada finisce lì – al tuo cancello e basta – non va più da nessunissima altra parte. Tu quando esci la mattina non puoi più scegliere – anche volendo – tra destra e sinistra, da una parte o dall’altra, oppure avanti o indietro. No, devi per forza andare dove e come ha già deciso – al posto tuo – l’autorità architetturale sulla carta. Dimmi adesso – se sei capace – quale, delle due città, è la più democratica. O quanto meno la più libera, nel senso di rispettosa ed agibile dalle libertà individuali e di scelta del cittadino.
Dice: «Eeeh, ma allora ha proprio ragione Silvano Roccato, tu sei un conservatore! Questo non è che lo scotto della modernità. Il traffico, la complessità».
Ma vaffallippa a te e Roccato, va’. Dove sta scritto che per essere progressisti rivoluzionari e governare la modernità il traffico e la complessità, lo si possa fare solo con gli stradoni curvi, le stradine morte cieche davanti casa e senza assolutamente prevedere uno straccio di piazza? Ma che è, proibito con la pena di morte?
Rifammi le strade dritte, le piazze, i viali, le fontane – c’è Marco Romano, un grande urbanista amico mio, che ci ha scritto L’estetica della città – e ridammi la possibilità di scegliere, quando esco di casa. E il lavoro vicino, possibilmente. E la scuola, la biblioteca, il campetto, lo stadio, la palestra: uomo insieme agli altri uomini che conosce abitualmente. Insieme ai suoi vicini. Sbatteteveli ad sphaeras i centri commerciali, che servono sì e sono utili, ma non possono essere il denominatore assoluto della vita e della città umana. È la piazza il luogo primario della civitas. E la strada senza fine.
Il piano regolatore di Finestra voleva essere questo. La «città delle acque» lo chiamò Cervellati, e rimetteva al centro una visione di città subordinata al territorio – al suo interesse generale e collettivo – recuperando in primis la bonifica e la ruralità dei Borghi.
Ma fu una battaglia che Finestra perse. E con lui la persero – oltre alla città e a Nando Cappelletti – tutti quelli che, come l’umile sottoscritto, con loro si batterono. Ma è perdendola che Finestra s’è consegnato al mito. Avesse vinto, nessuno magari si ricordava di lui. Così invece sta – nell’immaginario «collettivo» della città, sia di destra che di sinistra – a fianco ai Padri fondatori e a Valentino Orsolini Cencelli, che contro pure il volere del Duce ideò, decise e fondò Littoria.
Ajmone Finestra sarà stato un fascista e tutto quello che si vuole, ma è anche stato l’unico sindaco nella storia democratica della città – dal 1945 sino a oggi – che si sia battuto contro la speculazione edilizia. Perse per colpa dei suoi. Tradito da An, Udc e Forza Italia.
Certo anche il suo piano regolatore – come tutti i piani – avrà avuto delle pecche. Ma bloccando le bolle e i processi speculativi non avrebbe consentito, innanzi tutto, la realizzazione di quel monstrum di «torre pontina», dei palazzi di sette piani a Borgo Podgora e, buon ultimo, lo sciaguratissimo barbarico arrembaggio a Borgo Piave: una selva di palazzi d’abitazione all’immediato ridosso della Pontina, con la chiesa però, l’asilo, la scuola, l’ufficio postale e il campo sportivo dall’altro lato dell’arteria ad altissimo traffico. Roba che manco Erode alla strage degli innocenti.
Poi dice ipolitici e i costruttori di Latina. Anche se dalle altre parti – mi sa – non è che stiate poi meglio.