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 2014  dicembre 03 Mercoledì calendario

INTERVISTA A ROBERTO GERVASO

L’uomo che mi apre la porta ha solo una vaga somiglianza con l’idea platonica di Roberto Gervaso – secca e un po’ petulante – che avevo nella testa. Gli anni – sono 77 – l’hanno fatto più morbido e ora tutto in lui sembra rotondo, finalmente coerente con la famosa montatura dei suoi occhiali. «Non mangio niente e ingrasso. Io che ero abituato a vestire Caraceni adesso devo andare nei negozi di taglie forti. Che orrore».
Mi dice quasi subito che ogni persona ha una nota dominante, e che un bravo giornalista è quello che la sa trovare e raccontare, ma non completamente – «Al lettore non bisogna dire tutto, se no si annoia».
Sarei qui per parlare del suo ultimo libro Ho ucciso il cane nero, in cui il giornalista e scrittore racconta della depressione che ciclicamente l’ha accompagnato nella vita, ma molto di più gli preme farmi vedere il suo «stupendo cappotto di vero casentino rosso con il collo di pelliccia. Bellissimo». A Roma non fa ancora abbastanza freddo per portarlo e comunque sua moglie Vittoria si vergogna ad andare in giro con lui vestito così, quindi i piccoli défilé casalinghi per gli ospiti sono, momentaneamente, la sua unica soddisfazione.
Mi sembra evidente che dall’ultimo attacco di depressione è uscito brillantemente. «Ma continuo a prendere i miei “ricaptatori della serotonina”, le mie goccine. Solo 14, per tenere a bada la paura che torni. Prendo quelle e un sacco di altre medicine. Ah, che bello! Lo vuole anche lei un antibiotico?».
All’ora di pranzo mangeremo sul divano col piatto sulle ginocchia perché il tavolo è, appunto, ingombro di farmaci. «Ho anche un monte Everest di esami: ecografie, prelievi, referti. La salute è uno stato provvisorio che non lascia presagire niente di buono, cara mia».
Dove non ci sono medicine ci sono libri. Ne ha 25 mila stivati in alcuni container, gli altri sono sparpagliati nelle sue varie case. Impossibile calcolarli. Mentre mi dice che legge sempre e solo classici gli indico perplessa quello che ha accanto sul divano: l’ultimo di Bruno Vespa. «Ma questi me li mandano per recensirli. Di solito quelli che recensisco non li leggo mai. I libri li devi leggere se li vuoi stroncare, se ne vuoi parlare bene basta che tu dia un occhio alla bandella, sia 
amico dell’autore e tu abbia bisogno di un favore in cambio».

Questa non sarà una delle interviste fulminanti domanda-risposta che portavano la sua firma. Dica la verità: le tagliava lei o rispondevano così lapidari?
«Lo stile secco l’avevo imparato alla radio, lavorando al GR2 con Gustavo Selva detto Gustavo Belva. Poi l’ho portato sui giornali. I più grandi che ho intervistato – Simenon, Dalí, Lorenz, Borges – rispondevano con pochissime parole. La sintesi è la prima qualità di uno scrittore, ma anche di un vigile del fuoco. Chi dice con 10 parole quello che può dire con 5 è capace di qualsiasi delitto».
Scrive ancora molto?
«Tutti i giorni, una decina di ore, rigorosamente con la mia Lettera 22. Il computer non mi interessa, anche se stavo imparando a usare le email. Poi mi hanno rubato l’iPad. Peccato: ricevevo delle bellissime mail da Groupon».
E quando non scrive cosa fa?
«La cyclette, guardando Rai Storia. Esco pochissimo perché faccio un po’ fatica a camminare. Qualche amico viene a trovarmi, ma a me va di vedere poche persone, preferibilmente quelle che amano Voltaire. Qualche sera mia moglie organizza cene importanti che mi mettono grande malinconia. Da quando sono diventato impotente mi dedico soprattutto alla mia testa. Il desiderio, prima, mi portava via tantissime energie».
Quando è diventato impotente?
«Quindici anni fa, per un tumore alla prostata. Dovevo scegliere tra la fossa e 42 sedute di radioterapia che si sono portate via il vigore sessuale. Ma per me l’impotenza è stata un dono della provvidenza, mi ha liberato da un’ossessione».
Come conciliava questa sua ossessione con la presenza di sua moglie?
«Con la menzogna spudorata. E poi, una volta scoperto, con l’ammissione totale».
Seguita dal perdono di Vittoria?
«Perdono o vendetta, non so. Vittoria è diventata possessiva solo adesso che sono vecchio. Io vivo completamente nelle sue mani: mi dà una paghetta settimanale di 50 euro, fa tutto lei. Vivo nel terrore di imparare a fare qualcosa. Voglio solo leggere. E scrivere. Io non distinguo un cha cha cha da un valzer viennese, ma sento la musica della scrittura. E mentre scrivo faccio come faceva Montanelli, batto il piede per terra».
Eravate molto amici?
«Lui era 18 anni più grande di me, dicevano che fossi suo figlio, ma non è vero, se lo fossi lo direi. Mi ha voluto al Corriere e poi, quando sono venuto a Roma, per otto anni ci siamo visti a pranzo e a cena. Condividevamo il destino di depressi».
Anche Montanelli lo era?
«L’aveva ereditata dalla madre e ogni venti anni lo colpiva. Io gli sono stato accanto in quella del 1968, aveva 59 anni. Lo andavo a prendere a casa la mattina e andavamo a camminare allo sfinimento a Villa Borghese. Lui non dormiva mai – i depressi hanno paura di dormire per i sogni orrendi che fanno – e lo trovavo stralunato. Mi diceva: Robertino, devo sfottere il mio fisico. Voleva stancarsi camminando. Una volta mi abbracciò e si mise a piangere. Non ce la faccio più, diceva. Io non sapevo cosa rispondergli. Anche se la depressione la conoscevo non trovavo niente di consolante da dirgli».
E la sua, di depressione, quando si è manifestata?
«Tre volte nella vita. La prima da ragazzo, dopo un incontro amoroso con una donna francese, Babette. Disse che mi amava, io le risposi che era una storia impossibile. Mi disse che si sarebbe buttata nella Senna, una volta tornata a casa. Lì per lì non mi importò nulla, ma poi questo pensiero si insinuò nella mia testa fino a farmi impazzire. Naturalmente non fu questo il motivo della mia depressione: mi ammalai perché avevo una predisposizione genetica ereditata da mia madre, e perché in quel periodo i miei genitori si stavano separando, ma l’evento scatenante fu lei».
E le altre volte?
«La seconda depressione venne dopo lo scandalo P2: io ero massone, ma non avevo fatto nulla di male. Nello scontro di potere tra lo Ior e Cuccia ci andò di mezzo la massoneria di Licio Gelli. La terza, l’ultima e più terribile, è durata cinque anni, e mi è venuta quando mia moglie ha cominciato a occuparsi a tempo pieno dei nostri nipotini. Mi sono sentito abbandonato».
Che cos’è la depressione?
«Un rogo dell’anima, una sommossa della coscienza, una totale inappetenza nei confronti della vita. È come andare alla stazione ad aspettare la persona che ami e questa non arriva mai e tu non sai che cosa è successo. Sa quante volte sono stato seduto lì, dove adesso è lei, e ho pensato: adesso mi alzo e mi butto dalla finestra. Ma non avevo la forza nemmeno di fare quello».
Come ne è uscito?
«Con gli psicofarmaci. La cosa che i dieci milioni di depressi italiani devono sapere è che dalla depressione si guarisce con le medicine. È una malattia grave e importante. Preferirei combattere altri cento tumori piuttosto che ricadere in una sola depressione».
Adesso sta benissimo, mi pare.
«Io non ho più bisogno di nessuno e di niente. Solo di non prendermi la meningite, e che non mi venga l’Alzheimer. Sono un rottame che piano piano vorrebbe diventare una reliquia. Oggetto di culto e meta di pellegrinaggi».
Pensa al passato con nostalgia?
«Ho scritto 20 mila aforismi e uno dei più belli è quello sulla nostalgia che è una lacrima sul miele. Io vivo nel passato: sono quello che sono perché sono stato quello che sono stato. Il presente non esiste: mentre lo pensiamo è già passato».
Ma i ricordi non possono trasformarsi in una prigione?
«Io non sono un prigioniero dei ricordi, ne sono un fruitore. Lì ci sono le cose che mi piacciono: i classici, la musica ma solo fino agli anni Sessanta. Perché devo ascoltare Ligabue, andare a vedere una commedia sperimentale, leggere Baricco? Perché?».
E il futuro non esiste?
«Non ci penso mai. Mi stupisce, ma non mi coinvolge. Anche gli strumenti del futuro li uso per rievocare il passato. Sul mio iPad ascoltavo sempre la mia canzone preferita: Lanterna blu. “Ti porto con me a sognare all’ombra di un piccolo bar/c’è scritto lassù/lanterna blu”. ’Na cazzata, ma mi piace tanto».
Ha paura della morte?
«Non della morte come mistero, ma come possibile forma di sofferenza fisica. L’idea della morte la accetto, anche se accetterei più volentieri un invito a un ballo in maschera. La morte è un ponte o un abisso? Non lo so. Ma se guardo un colibrì, o un fiore, non posso credere che tutto sia casuale».
Allora se tutto ha un senso, quale è stato quello dei suoi anni di depressione?
«La mia depressione mi ha fatto capire che nella vita ci sono imprevisti incontrollabili, e che la volontà è gestibile fino a un certo punto».
È vero che ha un asino?
«Sì, me lo ha regalato qualche anno fa Sabrina Ferilli. Me lo ha dato dicendomi: quando lo accarezzi, pensa a me. Ma io non capisco perché non posso invece accarezzare lei e pensare all’asino».