Francesco Cancellato, Linkiesta 2/12/2014, 2 dicembre 2014
IN CINA CROLLANO I PREZZI E IL MONDO IL TREMA
Ordos è una città mineraria della Mongolia Interna, la provincia più settentrionale della Cina, e si trova a due passi dal grande deserto del Gobi. Forse non ne avete mai sentito parlare, della Mongolia Interna, ma in questi ultimi anni ha avuto una crescita economica da record. Per dire, oggi la sola Shanghai può vantare un Pil pro capite superiore a quello degli abitanti di Ordos.
Nel 2003, dopo aver fatto un bel po’ di soldi con l’edilizia, alcuni costruttori di Ordos hanno deciso di costruire Kangbashi, un nuovo, gigantesco distretto edilizio che avrebbe dovuto ospitare trecentomila abitanti e fare di Ordos una delle più importanti e prestigiose città cinesi. Il problema è che oggi a Kangbashi ci abitano circa in 30mila, secondo le generose stime dei politici locali. In altre parole, è vuota.
Kangbashi non è che una delle centinaia di città fantasma disseminate nelle province del “paese di mezzo“. E i 161 miliardi dollari spesi per costruirla non sono che una piccola frazione dei 6,8 trilioni di «ineffective investiments», come li chiama il Financial Times, che sono stati posti in essere negli ultimi vorticosi decenni di crescita cinese. Il caso di Kangbashi è utile, tuttavia, per spiegare come l’attuale deflazione cinese non dipenda dal calo del prezzo del petrolio, o dal calo della domanda interna, ma da cause molto più profonde. E, allo stesso modo, molto più preoccupanti.
Cominciamo dall’inizio: i prezzi alla produzione, in Cina, sono al trentaduesimo mese di calo e tra settembre e ottobre di quest’anno sono scesi di 2,2 punti percentuali. Nello stesso periodo, quelli al consumo sono aumentati di un misero 0,5%, con un tasso annuo medio che attualmente è pari all’1,6%, il punto più basso da settembre 2010. Tanto per dare un metro di paragone, tra il 1986 e il 2014, i prezzi sono aumentati a un tasso del 5,72%.
Il motivo è facilmente intuibile: la Cina è malata di sovraproduzione, con un’offerta che supera di gran lunga la domanda. Colpa delle pressioni sui governanti locali affinché nella loro provincia il Pil cresca più che altrove. Pressioni che loro trasferiscono ai loro sottoposti e alle imprese. In realtà, è da qualche anno che il Governo centrale non rende conto più solamente della crescita del prodotto interno lordo, ma prima che il funzionariato periferico si abitui alle nuove regole, dovrà passare parecchia acqua sotto i ponti.
Ce ne fregherebbe il giusto, della deflazione cinese, se non fosse che la cosa ci riguarda da molto vicino. Già nel 2002, Huriko Huroda, allora ministero delle finanze giapponese e ora governatore della banca centrale del Sol Levante, avvertiva che far entrare la Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio sarebbe stato un suicidio, in quanto avrebbe aggiunto, con i suoi prezzi bassi, una «grande forza deflattiva» nell’economia globale. Un paper del 2006 della Federal Reserve americana gli dava sostanzialmente ragione, affermando tuttavia che l’economia cinese era ancora troppo piccola per avere un impatto sul resto del pianeta. Ora, l’economia cinese è la seconda del pianeta.
Perché la deflazione cinese è un problema, direte voi? Perché l’economia cinese è fortemente orientata all’export. Se i prezzi alla produzione scendono, i mercati occidentali, come il nostro rischiano di essere invasi da merce sempre più a basso costo. Se, allo stesso modo, scendono i prezzi al consumo, i prodotti che esportiamo in Cina si troveranno a dover fronteggiare le aspettative di un mercato persuaso che i prezzi si abbasseranno, prima o poi. C’è di più: se i prezzi alla produzione si abbassano, facendo crescere i costi di finanziamento reali alle imprese cinesi – in deflazione è sempre il debitore che ci perde, perchè il denaro costa di più – aumenterà la possibilità che gli imprenditori si rivolgano al “sistema bancario ombra” della Repubblica Popolare, settore finanziario parallelo a quello ufficiale, con tassi d’interesse molto elevati e spesso fuori controllo. Il rischio che il fragile sistema del credito ufficiale possa saltare, se i prezzi continueranno a scendere.
Dobbiamo cominciare a preoccuparci, quindi? Un po’. Di sicuro, stanno cominciando a preoccuparsi i governatori delle banche centrali: dal buon Huriko Huroda, che si trova di fronte all’avveramento delle sue fosche previsioni di un decennio fa, sino a Janet Yellen della Federal Reserve e, ovviamente, Mario Draghi della Bce. La ricetta, per ognuno di loro, è la medesima: stampare moneta. Per Huroda significa continuare a farlo, per la Yellen significa non smettere, per Draghi cominciare.
E la Cina? Secondo Bloomberg, per il presidente della repubblica popolare Xi JInping questa situazione potrebbe rivelarsi vantaggiosa, alla fine dei conti: «Lo shock dei prezzi che cadono – osserva – potrebbe dare a Xi la forza per spostare i vettori di crescita dalle esportazioni e dagli eccessivi investimenti ai consumi e alla domanda interna». In altre parole, facendo diventare la Cina un economia adulta, facendo crescere i salari e investendo nella crescita del potere d’acquisto dei suoi abitanti. Ovviamente, se riuscirà a evitare che si scateni il panico.