Raffaella Fanelli, Oggi 3/12/2014, 3 dicembre 2014
IL CAPITANO ULTIMO: «MACCHÉ TRATTATIVA»
[Capitano Ultimo, Colonnello Sergio De Caprio]
Roma, dicembre
Niente fotografo. E si metta delle scarpe basse». L’ok all’incontro mi arriva così, dopo mesi di mail e di telefonate. IL colonnello Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, l’uomo che ha messo dietro le sbarre Totò Riina, mi dà appuntamento al Parco della Mistica, sulla Prenestina, nella riserva che ha creato all’estrema periferia di Roma, un’oasi di beneficenza fra campi rom, cassonetti strapieni di spazzatura e auto perennemente in coda. «In questo parco, fra i miei ragazzi, continuo a combattere la mafia, perché la battaglia non si fa solo con le armi ma anche con la preghiera: servire gli altri senza volere niente in cambio è un modo di pregare, di essere cristiani pur essendo peccatori. La lotta alla mafia è quella che si fa per strada giorno per giorno, accanto ai poveri. Quando diventa uno strumento di lobby non è antimafia, è un’altra cosa e noi dobbiamo starci ben lontani».
Ha pantaloni militari e sneakers ai piedi, un giaccone mimetico e alle mani un mezzo guantino nero. «Il guanto con le dita mozzate era ed è un simbolo di povertà. Sono un mendicante non un eroe», dice, ma ci vorrà poco a capire che non è molto intenzionato, di fronte alle accuse, a porgere l’altra guancia.
Nella sua comunità, ospita persone con alle spalle storie drammatiche. A dare loro coraggio ci sono educatori, volontari e anche alcuni rapaci. «Vede questi tre falchi? Il contatto con loro è un toccasana per i ragazzi più difficili».
Cosa pensa di quello che è diventato il nostro Paese?
«Mah, io penso poco, non sono un opinionista, sono un mendicante di onestà, di libertà, di giustizia, e quindi di questo Paese io non penso. Io lo amo totalmente».
Cos’è combattere la mafia?
«Ribellarsi all’indifferenza, all’egoismo, all’ambizione personale. È credere nei giovani e nella loro purezza, è fare qualcosa per un altro senza volere niente in cambio».
C’è un episodio, un momento in cui ha avuto paura?
«Tante volte ho avuto paura: paura di arrendermi, di far vincere l’ambizione o l’egoismo. Paura di far vincere l’amarezza».
E paura di essere ucciso?
«Chi ha fede ha solo paura di vivere male, indegnamente».
Ultimo mi mostra orgoglioso i laboratori della sua casa d’accoglienza: pelletteria, falconeria, pasticceria, la scuola di cucina e di pizzeria, il laboratorio di ferro battuto e quello di arte bianca. Sento un battito d’ali sopra la testa e vedo un’aquila reale, gigantesca, planare sulla spalla di Ultimo. «I nostri ragazzi devono imparare a volare da soli, a puntare in alto, onesti e fieri. Devono ritrovare la libertà, la stessa delle aquile e dei falchi che alleviamo», dice. E racconta: «Abbiamo accolto, inviate dal Comune di Roma, una ventina di persone con disagio psichico e sociale. Nella nostra Casa, al Parco della Mistica, si insegna con l’esempio. Se i ragazzi vedono un giovane carabiniere venire qui per prendersi cura dell’orto, per fare il pane o tagliare l’erba, senza volere niente in cambio, il messaggio passa. Come carabinieri, qui chiudiamo un cerchio: non solo arrestiamo chi commette un reato, ma insegniamo ai figli dei detenuti a non ripetere gli errori dei genitori. E mai ci sono arrivati i contributi di chi con la lotta alla mafia ha fatto i soldi! Mi piacerebbe mettere a confronto la loro dichiarazione dei redditi con la mia, e quella dei carabinieri straccioni, così tutti saprebbero chi è che trae profitto dalla presunta trattativa».
Appunto, la trattativa, gli inconfessabili accordi di cui farebbe parte anche la mancata perquisizione del covo di Riina. Così il Capitano Ultimo, leggenda per l’Arma e per gli italiani (anche grazie alla fiction con Raoul Bova nei suoi panni), è poi stato indagato quasi come amico dei mafiosi.
Sono passati più di vent’anni da quando il Capo dei Capi è finito in carcere, e la squadra di nove carabinieri che lo arrestò è stata smantellata. «Uomini valorosi con cui ho avuto il privilegio di vivere combattendo. Solo a loro va il mio rispetto più profondo, solo da loro ho imparato molto di più di quanto abbia potuto insegnare, solo per loro i sacrifici di una vita hanno avuto un senso. Sono e saranno nel mio cuore, per sempre».
De Caprio, che ricordo ha di quel 15 gennaio 1993?
«Un giorno importante perché è stato la conclusione di un grande lavoro fatto insieme ai miei carabinieri nell’esclusivo interesse del popolo e della giustizia».
C’è stata una trattativa Stato-mafia?
«Tutto può essere nella vita, ma secondo me non c’è stata. Sicuramente quella attribuita al capitano Giuseppe De Donno e al tenente colonnello Mario Mori non è stata una trattativa ma un approccio di due ufficiali di polizia giudiziaria verso un pregiudicato. Col solo scopo di acquisire notizie utili a distruggere Cosa Nostra. Un approccio che avrebbero potuto tenere segreto. Eppure di loro iniziativa hanno consegnato Vito Ciancimino all’autorità giudiziaria di Palermo riferendo di tutti i contatti che loro avevano avuto con questa persona. Più trasparenza di così... Questo “losco accordo” è stato svolto da due ufficiali di polizia giudiziaria che alla fine non è che hanno dato un passaporto a Ciancimino per farlo espatriare in Sudamerica: no, lo hanno consegnato alla Procura della Repubblica di Palermo. Che poi non ha saputo o voluto gestirlo al meglio. Però ascolta il figlio che parla di lui. Una cosa fantastica, secondo me».
A chi conviene, secondo lei, parlare di trattativa Stato-mafia?
«Tutti quei dirigenti di Cosa Nostra sono in carcere, sconfitti: il buon senso, non l’acume o la dotta cultura delle lobby radical chic, ma solo il buon senso, ci dice che a rivendicare la trattativa dovrebbero essere gli uomini di Cosa Nostra per ottenere degli sconti di pena. Ma il fatto sconvolgente è che questa trattativa viene ipotizzata dai pm, da una Procura. Ed è incredibile, perché, di fatto stanno svolgendo un’azione che oggettivamente minimizza il ruolo di Cosa Nostra e che quindi la favorisce. Ed è gravissimo».
Non crede che i magistrati di Palermo, con il processo-trattativa, stiano cercando di dare un nome ai politici amici dei mafiosi?
«La mafia non ha un partito politico, può forse aver avuto dei politici di riferimento. Uomini vigliacchi come loro. Ma De Donno e Mori non c’entrano con questo schifo. Noi abbiamo distrutto il vertice di Cosa Nostra. Riina cerca di vendicarsi, e il fatto grave è che ha dei fiancheggiatori che uno non si aspetterebbe mai».
A chi si riferisce?
«A lobby radical chic evidentemente molto trasversali a tanti poteri forti. Reagiscono all’arresto e alla decapitazione della mafia corleonese. L’arresto di Riina ha dato fastidio alle lobby condizionate dalla mafia».
La non perquisizione del covo di Riina è reato: lei comunicò in procura questa sua decisione?
«Io ho proposto una scelta investigativa. Se altri volevano fare la perquisizione avrebbero dovuto dirlo: nel momento in cui un magistrato assume la direzione delle indagini compete a lui. A me nessuno ha mai detto di farla, né io mai mi sono rifiutato di eseguire alcuna disposizione dell’autorità giudiziaria. Se altri, cioè il pubblico ministero di turno quel giorno, ha omesso di fare una perquisizione è un suo problema. Io ho proposto di seguire i fratelli Sansone che avevano dato ospitalità a Riina e che non erano conosciuti in quel momento. Seguendoli avremmo potuto disarticolare tutti i collegamenti politici e imprenditoriali di Cosa Nostra. Una scelta accettata. Poi se ci hanno ripensato non lo so, e non è un problema mio. Sta di fatto che la perquisizione non era una cosa che dovevo fare io. E sta di fatto che rivelare ai giornalisti la casa di Riina è stato un grosso favore reso a Cosa Nostra. Se poi nel momento in cui, accettata la mia ipotesi, avessero voluto comunque impedire l’asportazione di documenti o di altro, avrebbero dovuto impormi per iscritto di perquisire tutte le persone che uscivano da quella casa. Ma questo non è stato fatto».
Per Oggi ho intervistato Salvo Riina, il figlio del Capo dei Capi. Ricordando quel 15 gennaio ha detto: «Papà uscì di casa poi tornò indietro, in cucina, per dare un bacio a mamma...». Riina sapeva, forse, del suo arresto?
«Sono cose che non so, e che a me non risultano. Ma se Riina sospetta qualcosa perché non denuncia? Non ha niente da perdere, è ormai alla fine della sua esistenza terrena. Cosa gli dovrebbe impedire, se è stato avvicinato da gente strana, da pezzi dello Stato, di fare i nomi? Di denunciarli? Avrebbe lui la possibilità di vendicarsi. Di mafiosi se ne sono pentiti a decine. Brusca, Ganci, Anselmo, persone che parlavano alla pari con Riina. Ormai sappiamo tutto, quali sono i misteri che possono ancora esserci?».
Per esempio la frase di Riina: «Borsellino lo hanno ammazzato loro».
«Riina fa il suo gioco, è un criminale, se ha fatto accordi con qualcuno è nel suo interesse parlare, ma siccome non è così allora che fa? Offende. Alla pari di queste pseudo trasmissioni televisive: offendono, nient’altro. I mafiosi sono gente comune, meschina, sono avidi di potere. Non sono dei santi, fanno i loro interessi. Eppure non sono loro a rivendicare di essere vittime di una trattativa, di inganni, sono pezzi dello Stato a ipotizzarlo. Questo è il problema».
Ma due meschini e ignoranti come Riina e Provenzano possono aver organizzato quelle stragi?
«Sì, due meschini e ignoranti che uccidono e ti dicono “se tu non fai questo io ti ammazzo”, comandano. Questo è il potere, questa è la forza: una cosa primitiva ma incisiva. Tutto il resto è sofismo, è filosofia, sovrastruttura».
Quindi l’archivio di Rima, secondo lei, non c’era.
«Io non ne ho mai avuto notizia, altrimenti lo avrei detto. Ma se qualcuno sapeva che c’era quest’archivio e non l’ha trovato quello è un criminale».
Cosa ha provato quando è stato processato, e poi assolto, per quella mancata perquisizione?
«Che Riina stava reagendo alla sconfitta».
Ma cosa ha provato lei? Rabbia, umiliazione, delusione, cosa?
«Mi faceva schifo tutto».
Mori è ancora sotto processo.
«Permanentemente direi: alla fine, invece di attaccare Riina, Provenzano, Bagarella, Messina Denaro, attaccano per vent’anni gente che ha sacrificato la sua vita per la lotta al crimine».
E Matteo Messina Denaro, come mai non riescono a prenderlo?
«Avrà fatto un patto con qualcuno che gli garantisce l’immunità».
Sul serio?
«Dovrei risponderle così ma mi viene da ridere. Non lo prendono perché è più bravo di quelli che lo cercano».
Prima mi parlava di trasmissioni tv, di salotti dell’antimafia...
«La presenza dell’avvocato di un boss in una trasmissione televisiva è un fatto gravissimo: è la conclusione di un percorso che porta il boss a eludere le restrizioni del 41-bis, uno dei punti nevralgici della presunta trattativa. Si dà al capomafia detenuto la possibilità di lanciare messaggi, anche simbolici».
Si tratta di trasmissioni e giornalisti che danno la parola ad avvocati o pentiti al solo scopo di cercare la verità...
«Come prima. Mi vien da ridere... Sono trasmissioni e persone che mi ripugnano. Che rappresentano quel mondo elitario capace di trasformare la disperazione e la rabbia degli esseri umani in propria ricchezza personale. E mi riferisco a chi ha fatto di questa presunta trattativa Stato-mafia una macchina per far soldi. A chi si è arricchito infangando. A chi di mafia non sa niente eppure ha la presunzione di mettersi in cattedra. Non ho altro da dire. Voglio solo ringraziare i servitori dello Stato, quelli che ogni giorno danno la vita e qualche volta il sangue. Quelli che non hanno mai fatto trattative con la mafia, perché con la mafia non si tratta».
Mi dica solo cos’è rimasto dell’uomo che arrestò Riina.
«La stessa rabbia e la stessa sete di giustizia».
Raffaella Fanelli