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 2014  dicembre 03 Mercoledì calendario

Notizie tratte da: Nicholas Kulish, Souad Mekhennet, Il dottor morte, Mondadori Milano 2014. Mohamed Doma era il figlio dei proprietari dell’hotel Kasr-el-Madina del Cairo

Notizie tratte da: Nicholas Kulish, Souad Mekhennet, Il dottor morte, Mondadori Milano 2014.

Mohamed Doma era il figlio dei proprietari dell’hotel Kasr-el-Madina del Cairo. Quando, raggiunto al telefono, sente il nome di Tarek Hussein Farid, disse “Amu”, che in arabo significa “zio”.

La vecchia borsa di cuoio, conservata nel magazzino del negozio di abbigliamento della famiglia Doma, era stipata di carte: lettere, richieste di permesso di soggiorno e ricevute di bonifici. C’è la copia di un testamento che divide i beni tra i due figli, molti ritagli di articoli che parlano del nazismo e di Israele, e pagine scritte a mano che riassumono, per poi confutarle, le accuse dei crimini più brutali commessi nel lager. Quasi tutta la corrispondenza è firmata Aribert Ferdinand Heim. È questo il nome, non quello di Tarek Hussein Farid, con cui il mondo lo conosce. Aribert Heim non è solo il nome di battesimo di un convertito all’Islam che viveva appartato in un alberghetto del Cairo. Heim è stato un medico delle Waffen-SS, il corpo speciale hitleriano, che ha lavorato nei lager ed è stato ricercato per crimini di guerra dal 1946.

Nel fare i conti col proprio passato violento, quello della Germania non è stato un percorso lineare: nell’immediato dopoguerra la ricerca dei criminali nazisti è stata lasciata alle forze d’occupazione alleate, che l’opinione pubblica tedesca accusava di imporre la giustizia punitiva dei vincitori. Quando poi l’attenzione degli Stati Uniti si è spostata alle tensioni con l’Unione Sovietica, molti ex nazisti sono stati ingaggiati come spie, e se gli americani erano disposti a ignorare il passato, i tedeschi erano felici di adeguarsi. Negli anni Cinquanta, quelli del miracolo economico, la maggioranza della popolazione voleva solo dimenticare, e i pochi che continuarono la lotta per la giustizia ricevettero più insulti che applausi; quando, nei decenni successivi, il clima generale virò a favore del pentimento per i crimini dell’Olocausto, la responsabilità veniva diluita nel calderone di una colpa collettiva anziché individuale.

Le forze di spedizione alleate compilarono un elenco dei sospetti criminali di guerra, il Center registry of war criminals and security suspects (Crowcass). La prima stesura comprendeva 70.000 nomi. Gli americani avevano già imprigionato 7,7 milioni di militari tedeschi. Per distinguere, tra questi, gli esponenti delle SS, pensarono di controllare la presenza di un tatuaggio del gruppo sanguigno all’interno del braccio sinistro. Ma il metodo non era perfetto: due dei criminali nazisti più noti, Adolf Eichmann e Joseph Mengele, non erano tatuati e riuscirono a fuggire.

Il 29 giugno 1945 gli alleati autorizzarono il rilascio di tutti i prigionieri non appartenenti alle categorie soggette all’arresto automatico, come le SS e i criminali di guerra. Tra gli internati figurava anche Heim, che nel campo di Carentan, in Francia, aveva curato egregiamente i prigionieri feriti, guadagnandosi la stima dei colleghi medici e dei superiori americani. Il suo nome non compariva nell’elenco degli americani, ma avendo militato nelle Waffen-SS, era soggetto ad arresto immediato. Interrogato, dichiarò di esservi stato arruolato contro la sua volontà, ma sarebbe certamente andato incontro al processo, se non fosse stato per un’omissione: dei posti in cui aveva prestato servizio durante la guerra, mancava (per sbaglio?) la cittadina austriaca di Mauthausen.

Arthur A. Becker era un ex prigioniero dei lager assoldato come investigatore del War crimes investigation team 6863 dell’esercito americano. Interrogò Josef Kohl, sopravvissuto a Mauthausen, dove si era occupato delle pratiche burocratiche in infermeria: “Il medico del campo, il dottor Heim, aveva l’abitudine di esaminare i denti dei prigionieri. Uccideva immediatamente con un’iniezione quelli che avevano i denti sani, ne tagliava la testa e la metteva per ore nel crematorio finché tutta la carne era bruciata e restava solamente il cranio, che lui e i suoi amici tenevano come decorazione sulla propria scrivania”. “Che altro può dirmi di questo dottor Heim?” “Quando selezionava un prigioniero per i suoi esperimenti, prima aveva cura di interrogarlo a fondo, in particolare sulla sua famiglia, per sapere se i congiunti avevano i mezzi per sopravvivere se lui non ci fosse stato più. Accertato questo, praticava operazioni chirurgiche su persone sane. Le convinceva con parole dolci che si trattava soltanto di un piccolo, innocuo intervento e che, appena guariti, sarebbero stati liberati. Poi li sottoponeva alle operazioni più complesse allo stomaco, al fegato e persino al cuore, fino a provocarne la morte”.

Prima che i nazisti organizzassero i campi in Polonia, Mauthausen era l’unico di classe III, la prigione più dura, concepita per “Vernichtung durch Arbeit”, lo sterminio tramite il lavoro.

Il 29 marzo 1946 a Dachau si aprì il processo alle SS: sessantuno imputati alla sbarra; Heim non c’era, mentre era accusato l’ex direttore sanitario di Mauthausen, Eduard Krebsbach, che ammise di aver destinato circa 200 malati di tubercolosi all’iniezione letale e di aver, per ordine del comandante del campo, selezionato 2000 prigionieri per le camere a gas. Disse di aver obbedito agli ordini praticando, come sanciva la dottrina nazista, l’eutanasia su “malati senza speranza”.

Simon Wiesenthal, sopravvissuto per miracolo a quattro anni di Mauthausen, nel 1947 fondò il Centro di documentazione ebraica a Linz insieme ad altri superstiti che, come lui, non volevano arrendersi al calo di interesse per la caccia ai nazisti da parte degli Stati Uniti.
Pesava meno di cinquanta chili. Era sfuggito alle camere a gas. Negli ultimi giorni, ridotto al lumicino, era finito nella baracca riservata ai morti e ai moribondi. Quando il campo venne liberato dalle truppe americane, si offrì volontario per dare la caccia ai criminali e gli fu risposto di rifarsi vivo quando avesse riacquistato le forze.

A Vienna un altro superstite, Tuviah Friedman, aveva aperto un centro ebraico di documentazione. Con Wiesenthal si scrissero quasi 200 lettere nel 1947, scambiandosi informazioni e testimonianze.

Nel ’31 Heim si trasferì da Bad Radkersburg a Vienna, per studiare il latino all’università. Per pagarsi gli studi giocava nella squadra professionista di hockey Eissport Klub Engelmann. Ebbe successo e fu convocato in nazionale. “Giovane e talentuoso difensore” lo definì il giornale “Sport-Tagblatt” nel 1936, anno in cui prese parte alle Olimpiadi. Nel ‘37 si trasferì a Rostock, in Germania, e si iscrisse al partito nazionalsocialista insieme al fratello maggiore Josef.

Josef Heim, paracadutista, morì nel 1941 a Creta, catturato e massacrato dalle forze neozelandesi del Commonwealth che difendevano l’isola: gli avevano strappato le unghie, cavato gli occhi e spaccato i denti, raccontò un commilitone alla madre.

Aribert Heim fu liberato nel 1947 dagli americani, dopo quasi tre anni di detenzione in diversi campi di prigionia, nell’ambito della cosiddetta “amnistia di Natale”.

Persilschein era il “certificato di denazificazione”, l’operazione di pulizia dal nazismo e i suoi crimini: il Persil era un detersivo per il bucato molto noto in Germania, mentre schein significa sia “certificato” che “apparente, fasullo”.

Nel marzo 1948, la Spruchkammer di Heibronn-Neckarsulm esaminò il caso Heim: il medico compilò un questionario in cui scrisse di essersi arruolato nelle Waffen-SS contro la sua volontà e ignaro dei loro intenti criminali e obiettivi. Aveva raccolto testimonianze sulla sua affidabilità politica: una vedova presso cui alloggiava da tirocinante e il personale di un campo di prigionia americano avevano speso per lui parole di elogio. In un momento in cui dal mondo politico provenivano pressioni per una rapida risoluzione della “denazificazione”, il caso del medico non fu indagato a fondo. La sentenza di assoluzione collocava Heim nella categoria dei Mitläufer, i seguaci.

Il Centro di documentazione di Berlino nacque nel 1945 in un bunker prima utilizzato come posto di sorveglianza dai nazisti, in cui venne ritrovato lo schedario generale del partito.
Da quel momento vi confluirono tutti i documenti raccolti e in alcune carte si legge che Heim era stato ispettore nei lager e aveva prestato servizio a Buchenwald, ma non vi è nulla sulla sua presenza a Mauthausen.

Nel 1948 Karl Kaufmann, sopravvissuto a Mauthausen, scrisse all’Associazione di hockey su ghiaccio di Vienna elencando le “terribili barbarie” compiute dal medico nel lager: lo aveva visto uccidere iniettando “benzina nel cuore, con un cinico sorriso sulle labbra” e chiedeva alla società notizie sulla sua residenza. Il documento fu inviato alle autorià austriache che convocarono l’ex internato: “Partecipava alle punizioni corporali dei prigionieri, che prevedevano da venticinque a cento frustate, ma anziché picchiare sulle natiche come facevano gli altri, mirava sempre ai reni, per cui molti morivano di emorragia interna”.

I Diavoli Rossi, la squadra di hockey di Bad Nauheim, avevano un difensore austriaco alto quasi un metro e novanta, che i compagni chiamavano eisenhart (duro come il ferro) o Kleiderschrank (armadio) che lavorava in una clinica locale come assistente del primario. Era noto per alcune strane abitudini: non si faceva mai fotografare con la squadra e si informava se qualcuno gironzolasse fuori dello stadio o intorno agli spogliatoi.

Nel ’48 Alfred Aetner fu assunto in polizia, con la mansioni di vigile di quartiere in bicicletta.

Nel ’49 Kaufmann venne interrogato dal tribunale di Linz: “Una volta il dottor Heim aveva squarciato da cima a fondo, senza anestesia, l’addome di un giovane ebreo praghese, poi ne aveva esaminato gli organi e prelevato un pezzetto di fegato e la cistifellea”. Gli ebrei, giovani e vecchi, venivano uccisi comunque, mentre quelli appartenenti ad altri popoli, erano eliminati se “deboli o inabili al lavoro”. Rupert Sommer confermò le dichiarazioni di Kaufmann: “Con il sorriso sulle labbra e a braccia conserte aveva detto a un giovane ebreo: ‘Devi morire anche tu. Tua moglie è bella?’”. Karl Lotter definì Heim “un assoluto massacratore. Aveva un odio particolare per gli ebrei, li uccideva tutti. Arrivava a mettersi accanto alle vittime con il cronometro per vedere quali fossero le soluzioni migliori, le più rapide ed economiche. La cosa più atroce era che Heim parlava cordialmente con le vittime e poi le ammazzava iniettando sostanze nel cuore”.

Il ministero degli Interni austriaco conosceva l’indirizzo di Aribert Heim. Non si sa come il medico abbia scoperto che il cerchio si stava stringendo. Sua sorella Hilda lavorava al tribunale di Graz e forse aveva avuto sentore delle indagini in corso e l’aveva avvisato. Heim si dileguò prima dell’arrivo della polizia.

Nel 1948 Heim conobbe la sua futura moglie, Friedl Bechtold, tedesca di famiglia benestante, anche lei medico. Lei sapeva che era stato nelle Waffen-SS, ma anche parecchi ragazzi della sua classe vi avevano militato, poi Aribert era medico: per uno che salvava vite, che importanza aveva che uniforme indossava?

Nel ’50, con Friedl da poco incinta, il governo austriaco emise un mandato di cattura per Heim: il documento riportava però il nome errato (Heribert anziché Aribert) così come il luogo di nascita, Ingstfeld invece di Bad Radkersburg. Sembrava sparito nel nulla: nella clinica dove aveva lavorato gli inquirenti non trovarono documenti sulla sua attività. Eppure c’erano. Sarà stata una svista o il favore di qualche collega?

Negli anni Cinquanta la Cia arruolava ex nazisti per utilizzarli come informatori. Adolf Eichmann si era rifugiato prima in Austria e poi in Italia, dove si era procurato un passaporto della Croce Rossa intestato a Ricardo Klement. Con il nuovo nome era salpato a Genova diretto a Buenos Aires. Lì si sentiva al sicuro, tanto da farsi raggiungere da moglie e figli. Anche il famigerato “angelo della morte” di Auschwitz, il dottor Mengele, si era dileguato allo stesso modo. Appena liberato come prigioniero di guerra aveva lavorato in una fattoria bavarese, poi era salpato per l’Argentina.

Nel 1953 Aribert e la moglie si trasferirono in una villa bianca nella cittadina termale di Baden-Baden. Heim aveva il suo studio di ginecologo in centro. Vivevano con i due figli piccoli e la servitù un’agiata esistenza borghese. Praticavano sport e trascorrevano le vacanze in Svizzera e in Italia.

I tedeschi erano accolti a braccia aperte non solo in America latina, dove emigrarono a frotte, ma anche in Egitto, dove erano impiegati presso il ministero della Guerra come consiglieri militari. I membri del movimento Ufficiali liberi, che organizzò il colpo di Stato che nel 1952 inaugurò l’era Nasser, avevano simpatizzato per la Germania nazista nella speranza che la sua vittoria ponesse fine all’influenza coloniale britannica nel loro paese. Si diceva persino che ex SS si erano arruolati nei servizi segretti del Cairo e contribuivano alla creazione di lager per gli oppositori del regime.

A metà degli anni Cinquanta il numero dei nazisti incriminati era prossimo allo zero. Il processo di denazificazione era cessato.

Nel 1958 Aribert Heim comprò a uso investimento un palazzo di 31 appartamenti nel centro di Berlino, al 28 di Tile-Wardenberg-Strasse. Poco lontano, in quello che era stato il numero 7-8 di Levetzowstrasse, sorgeva un tempo una grande sinagoga, data alle fiamme nella Notte dei cristalli. I nazisti avevano trasformato quel tempio distrutto in un punto di raccolta per gli ebrei da deportare. Nel ’55 era stata abbattuta. Restava solo una targa.

“Soltanto i vitelli più stupidi vanno in cerca del proprio macellaio” rispose Bernd Fischer a chi gli chiese spiegazioni sull’omissione del suo passato nel Partito nazista e nelle file delle SS.

Nel 1956 un testimone dichiarò alla polizia che il dottor Hans Eisele, quando era medico nelle SS, aveva ucciso in un lager almeno duecento prigionieri. L’aveva visto con i propri occhi commettere gli omicidi con iniezioni di Evipan-Natrium. Eisele continuò a esercitare la sua professione e solo tre settimane dopo il commissariato trasmise le carte al magistrato. All’inizio il medico si difese, scrisse persino una lettera a un quotidiano. Poi qualcuno del governo lo avvisò che il suo arresto era imminente e lui, scampato già a due condanne a morte, scappò in Egitto. Bonn chiese l’estradizione ma Il Cairo non la concesse, con il pretesto che i reati erano già prescritti.

L’Ufficio centrale delle amministrazioni giudiziarie di Stato per l’accertamento dei crimini nazisti iniziò la sua attività il 1° dicembre 1958. Uno dei primi a presentarsi al lavoro nella neonata unità di caccia ai nazisti fu il poliziotto trentaquattrenne Alfred Aedtner.

Il giudice ebreo Fritz Bauer era stato prigioniero del campo di Heuberg. Nel ’56 emanò un ordine di cattura per Adolf Eichmann. Aveva saputo da un informatore che viveva in Argentina ma era consapevole che le probabilità di arrestarlo ed estradarlo erano poche: c’erano così tanti nazisti nella polizia, nel sistema giudiziario e tra i funzionari statali, che Eichmann sarebbe stato avvisato. Decise quindi di arrivare a lui chiedendo aiuto ai servizi segreti israeliani, che ne portarono a termine la cattura con una spettacolare operazione. L’11 maggio 1960 “Ricardo Klement”, sceso dall’autobus, tornava a casa dopo il turno di lavoro alla fabbrica Mercedes-Benz. Passò davanti a un auto in panne e i due uomini che cercavano di ripararla lo chiamarono. In un attimo Eichmann si trovò a terra, venne infilato nel veicolo e portato in una casa sicura. Lo interrogarono, lo drogarono, gli misero una divisa della linea aerea israeliana El Al e lo portarono a bordo di un jet, spacciandolo per un pilota sbronzo che rientrava in patria. L’Argentina denunciò la violazione della propria sovranità. Eichmann fu processato in Israele nel 1961 con i riflettori del mondo puntati addosso. Fu il primo e unico nazista condannato a morte, venne impiccato. Rifiutò il cappuccio e gridò: “Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò”. Il corpo fu cremato e le ceneri disperse in mare.

Nel corso della sua vita tranquilla a Baden-Baden, nel 1962, Heim ricevette un questionario in cui le autorità gli chiedevano informazioni sul tipo di servizio svolto in guerra, in particolare a Mauthausen. Si rivolse a uno dei più noti studi legali di Francoforte, specializzato nella difesa dei nazisti: quello dell’avvocato Hans Laternser e del suo pupillo Fritz Steinacker. Quando bussò alla porta dello studio, Aribert fu accolto proprio da quest’ultimo. “So che stanno conducendo indagini sul mio conto e io le conferisco l’incarico di rappresentarmi”.

Heim confessò alla moglie Friedl di avere una figlia illegittima, ma fu una confessione parziale. Le disse di aver firmato il certificato di nascita di una neonata senza padre perché sapeva che la madre aveva avuto rapporti con i suoi colleghi delle SS. La sua firma aveva consentito alla donna di entrare nel programma Lebensborn per la promozione della razza ariana, che le garantiva un sussidio statale.

Nella notte Heim bussò alla camera della governante e la svegliò. Disse che “doveva partire, che aveva fretta e che probabilmente non l’avrei più rivisto”. Le chiese di aiutare la moglie, “in particolare con i bambini”.

La legge tedesca non consente di incriminare per complicità i parenti stretti che aiutano i familiari a sottrarsi alla giustizia. Da genitori, fratelli e figli non si pretende collaborazione. I legami di sangue sono ritenuti più forti della lealtà del cittadino verso lo Stato. E lo furono certamente nel caso di Heim.

La notizia che Erwin Schüle, direttore dell’Ufficio centrale, aveva avuto la tessera del Partito nazista e aveva militato nelle SA, le truppe d’assalto, provocò una certa schadenfreude in tutti coloro che non gradivano i processi ai nazisti.
I tassisti si rifiutavano di trasportare Aedtner e i suoi collaboratori alla sede centrale dell’unità investigativa e questi erano costretti a dare l’indirizzo di una via vicina.

“A vent’anni dalla fine della guerra non è arrivato il momento di farla finita con la denazificazione?” chiese durante un comizio il deputato conservatore Franz Xaver Unertl. La domanda fu accolta, secondo lo “Spiegel”, da applausi “fragorosi”.

Aribert Heim arrivò a Tangeri attraverso la Spagna. Si sentiva tranquillo perché la città era piena di stranieri, ma presto si accorse che non era il luogo adatto per una residenza semipermanente, data la grande presenza di ebrei. La sorella Herta e la suocera, Käthe Bechtold, lo raggiunsero per aiutarlo nella sua condizione di fuggiasco. Herta era convinta che, se fosse dipeso da lui, Aribert sarebbe rimasto in Germania ad affrontare il processo, ma la suocera aveva insistito per risparmiare a moglie e figli il trauma.

Circolavano molte voci su gruppi che si diceva aiutassero i nazisti a fuggire: nell’immaginazione popolare formavano una cupola chiamata Odessa, un’organizzazione di SS il cui ramo Die Spinne, incaricato di farli espatriare, era diretto da Otto Skorzeny, comandante hitleriano che aveva liberato Benito Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso.

Nel 1963 lo “Spiegel” mise in copertina la foto del lancio di un missile nel deserto egiziano, titolando “Missili tedeschi per Nasser”: “Nel luogo in cui migliaia di anni fa un esercito di schiavi costruì le piramidi per il primo faraone, ora cinquecento armieri tedeschi ben pagati costruiscono le armi per il nuovo faraone Nasser”. Golda Meir, ministro degli Esteri israeliano: “Se i fabbricanti di armi tedeschi completeranno la loro opera, Nasser avrà i mezzi necessari per una guerra di annientamento contro Israele”. Gli israeliani affidarono al Mossad una serie di azioni segrete e attentati per ostacolare il programma missilistico egiziano.

I tedeschi del Cairo vivevano nei quartieri esclusivi di Helwan e Maadi, mangiavano al Löwenbräu e andavano al cinema Rivoli; le signore indossavano la gonna e giravano a capo scoperto, agli ufficiali dell’esercito i bar servivano alcol.

Quando due ispettori di polizia bussarono alla porta di Herta Heim, non fecero neanche in tempo a spiegare il perché della visita che lei li interruppe: “Sono colpevole perché mi chiamo Heim?”. Quando le chiesero dove fosse il fratello: “Andatevene. Vorrei non sentirmi più chiedere queste cose. In questo paese non esiste il reato di parentela”.

In Egitto il medico nazista si interessava di turismo e del potenziale della costa per i flussi di turisti tedeschi e inglesi. A tale proposito scrisse una relazione che inviò al governo egiziano e all’ambasciatore tedesco. Comprò un terreno sul mare ad Alessandria.

Nel 1967 Friedl chiese il divorzio. Heim, scaduto il passaporto, non voleva correre rischi rinnovandolo e incaricò l’avvocato di chiedere alla moglie di mandare i figli a vivere al Cairo, ma lei rifiutò.

Nel 1973 Alfred Aedtner assunse il comando della sua unità di caccia ai nazisti. A quel tempo “snidare Aribert Heim era ormai il suo unico scopo” raccontò un collega, anche perché le testimonianze che andava raccogliendo in giro per l’Europa si stavano rivelando insoddisfacenti.

Heim al Cairo condusse una vita molto appartata, diffidando di chiunque mostrasse interesse per lui. Si spaventò di certo molto quando incontrò una donna che aveva lavorato nella farmacia al pianterreno dell’edificio di Baden-Baden dove aveva lo studio di ginecologo. La farmacista, apparentemente non meno sorpresa di lui, gli disse: “Herr doctor Heim, cosa ci fa qui?”. Lui continuò a camminare fingendo di non conoscerla.

Nel 1975 Aedtner andò a Vienna per interrogare un ex internato, il 73enne Karl Lotter, per cinque anni a Mauthausen come inserviente di infermeria: “In sala operatoria il personale calzava zoccoli di legno. Heim aveva piedi così enormi che il falegname del campo aveva dovuto costruirne un paio apposta per lui. Aveva una cicatrice sulla guancia. Trattava abbastanza bene il personale dell’infermeria”. Riferì alcuni casi di crudeltà: a un ragazzino ebreo sul tavolo operatorio il medico aveva detto che doveva morire perché erano stati gli ebrei a scatenare la guerra; un prigioniero che l’aveva chiamato assassino mentre gli praticava l’anestesia, fu ucciso con un’iniezione al cuore, e a un giovane in buone salute fu squarciato l’addome per estrarne l’intestino.

E’ il 1975 quando Rüdiger Heim compì vent’anni e decise di fare visita al padre, di cui conservava solo ricordi sbiaditi. Lo avvisò dell’arrivo con una lettera fermoposta e lo attese ogni giorno dalle 11 alle 15 nel bar all’aperto dell’hotel Nile Hilton. Quando Aribert lo raggiunse, i due, per timore di essere riconosciuti, non si abbracciarono né chiamarono per nome. Il figlio fu travolto da una fila di domande sulla madre, sul fratello, sui suoi studi in medicina. Un’altra domanda aleggiava nell’aria: perché suo padre era in Egitto? Era un nazista? Era una questione che il giovane non sapeva affrontare, quindi tacque. Nel mezzo della notte, nell’hotel Mena House di Giza, Rüdiger fu svegliato dai colpi alla porta di un uomo che, in inglese, diceva: “Apri. E’ la mia stanza, fammi entrare”. Il ragazzo lo invitò ad andarsene e lo sconosciuto così fece. Forse un equivoco innocente, un turista confuso, un soldato sbronzo, o un ladro, ma la mattina dopo Aribert fece trasferire il figlio in un hotel meno lussuoso e conosciuto dagli europei, lo Scarabee Hotel. Il dottor Heim abitava al Karnak Hotel, di cui possedeva una quota.

Per giorni padre e figlio visitarono insieme la capitale egiziana, passeggiando e conversando. Fecero anche un viaggio in treno ad Alessandria, dove Aribert aveva investimenti immobiliari e numerose conoscenze. Il giovane Rüdiger non trovò mai il coraggio di chiedere il perché della fuga.

Nel 1976 Alfred Aedtner si recò a Berlino sulle tracce degli investimenti immobiliari che garantivano ad Aribert Heim una latitanza agiata. Gli inquirenti sapevano dell’esistenza del condominio in Tile-Wardenberg-Strasse, ma lo avevano preso in considerazione solo come possibile nascondiglio. Aedtner voleva sapere dove andavano i soldi degli affitti. Presso lo studio che gestiva l’immobile (e versava il denaro a Herta Heim) il poliziotto potè visionare messaggi di Aribert in cui si preoccupava della manutenzione dell’immobile e delle riparazioni, impartendo istruzioni.

Alfred Aedtner fece visita al Centro di documentazione ebraica di Berlino, dove scoprì, nel fascicolo che riguardava Aribert Heim, l’esistenza di una figlia illegittima del medico austriaco, nata nel 1942, Waltraut Böser (il nome era in realtà Waltraud). Destinataria del contributo mensile in denaro era stata la madre, Gertrud Böser. Il poliziotto riuscì a trovarla: viveva a Innsbruck e non aveva visto Heim dopo la nascita della bambina; lo credeva disperso in guerra, ma non informò mai la figlia di quella visita.

Il superstite Franz Kuczera affermò di aver visto Heim “strappare la pelle al cadavere di un prigioniero tatuato”.

Dopo il rientro in Europa, Rüdiger Heim restò in contatto col padre, che nelle lettere lamentava lo scarso aiuto della sorella, dalla quale avrebbe desiderato ricevere visite e corrispondenza più frequenti. Per il medico la vita al Cairo non era facile: le infrastrutture del paese erano carenti, come anche i trasporti e le linee telefoniche, e la città era sovraffollata.

Herta Heim riceveva gli introiti degli affitti del condominio berlinese di proprietà del fratello. Il fisco le chiese di fornire le prove che a usufruire di quelle entrate era Aribert, altrimenti avrebbe dovuto pagare una multa di 10.000 marchi. Aribert Heim, indagato e clandestino, non poteva recarsi in un tribunale tedesco a dimostrare la propria identità. Per risolvere il contenzioso, l’avvocato Steinacker volò al Cairo e gli suggerì di firmare una dichiarazione in cui precisava di essere lui, non la sorella, il percettore degli affitti berlinesi. In tribunale il legale avrebbe dichiarato che Heim aveva scritto e firmato il documento in sua presenza. Nel caso in cui ai giudici non fosse stata sufficiente la sua parola, Steinacker gli fece registrare un nastro in cui dichiarava di essere in vita e di essere destinatario legale delle somme.

Al Cairo Heim leggeva e ritagliava articoli su Cristo e Hitler. Ma il suo interesse ruotava attorno a due eventi storici. L’attacco di un gruppo paramilitare sionista contro il villaggio della Palestina britannica Deir Yassin, in cui l’Irgun e il Lehi avevano ucciso duecento arabi, donne e bambini inclusi, e avevano fatto sfilare i prigionieri per le vie di Gerusalemme ovest. Menachem Begin, leader dell’Irgun, non era stato improgionato né costretto alla clandestinità, ma si preparava a diventare primo ministro. Il secondo fatto era il massacro dei civili vietnamiti nel villaggio di My Lai: di venticinque tra soldati e ufficiali implicati, solo uno, William L. Calley, era stato giudicato colpevole di omicidio e la sua condanna aveva suscitato sdegno nell’opinione pubblica americana. Aveva solo obbedito agli ordini.

Nella Tredicesima tribù, Arthur Koestler sostiene che gli ebrei non discendono dal popolo di Israele, ma da una tribù turca, i cazari, che si era convertita al giudaismo. Una teoria che rafforzava la tesi di illegittimità dello Stato di Israele, che entusiasmò i lettori del mondo arabo e interessò Aribert Heim.

Nel 1977 Alfred Aedtner affittò un appartamento a Francoforte, davanti alle finestre dello studio legale che rappresentava Heim. La data dell’udienza per la causa con il fisco si stava avvicinando e l’investigatore poteva tenere gli occhi incollati sull’ufficio di Steinacker, che avrebbe dovuto consegnare il nastro registrato dal suo cliente, a riprova del fatto che era ancora vivo. La famiglia Heim avrebbe così risparmiato qualche migliaio di marchi, ma quella prova era l’annuncio al mondo che un nazista ricercato era libero e riceveva aiuti materiali.

Nel mondo, ma specialmente in America, Simon Wiesenthal era accolto da eroe. Teneva conferenze e pubblicava libri, ed era apparso come personaggio nella letteratura e nel cinema: il romanzo Dossier Odessa di Frederick Forsyth, da cui nel 1974 fu tratto anche un film, lo cita ampiamente, e anche ne Il maratoneta con Dustin Hoffman e ne I ragazzi venuti dal Brasile di Ira Levin ci sono personaggi chiaramente ispirati a lui.

Wiesenthal scrisse al presidente della comunità ebraica di Berlino, Heinz Galinski, per informarlo della proprietà immobiliare che garantiva ad Aribert Heim una latitanza agiata: “A quanto mi risulta, le proprietà dei criminali nazisti possono essere confiscate come risarcimento. Questa norma si applica soltanto ai beni delle persone condannate?”. O si poteva agire allo stesso modo con un latitante?

Nel 1977 la NBC iniziò a girare una serie intitolata Olocausto. La regia era stata affidata a Marvin J. Chomsky e protagonisti erano Michael Moriarty, Meryl Streep e James Woods. Nel quartiere operaio di Wedding, a Berlino ovest, fu ricostruito il ghetto di Varsavia. Benché le autorità cittadine avessero autorizzato le riprese, l’accoglienza degli abitanti non fu positiva: comparvero svastiche sulle macchine da presa, sparirono rotoli di pellicola, un passante scagliò bottiglie sul set. Quando, nel ’78 arrivò sugli schermi americani, la serie fu travolta dalle critiche, ma il suo ingresso nelle case di milioni di telespettatori ebbe un inaspettato effetto catartico che spinse l’opinione pubblica tedesca a sostenere con nuovo vigore la caccia ai criminali nazisti. I diritti furono comprati dalla tv pubblica tedesca per 600.000 dollari. La decisione fu avversata dalla destra parlamentare e da gruppi estremisti, che arrivarono persino a fare attentati e telefonate minatorie alle emittenti per impedire la messa in onda.
Le quattro puntate furono viste da trenta milioni di tedeschi.

A Bonn il Bundestag si apprestava a discutere la prescrizione dei crimini di guerra. Un sondaggio, condotto su 2800 intervistati prima che Olocausto fosse trasmessa, rivelava che solo il 15 per cento era favorevole a prolungare la scadenza dei termini. Due settimane dopo la cifra era salita al 39 per cento.

Il 5 febbraio del 1979 sulla copertina dello “Spiegel” campeggiava un’immagine di Auschwitz. All’interno un pezzo, intitolato Crimini NS: sgattaiolati via dalla porta sul retro, raccontava la storia di un medico nazista fuggito dalla Germania che viveva in un luogo segreto. L’articolo era accompagnato da una foto di Aribert e citava sia la fonte dei suoi proventi, il condominio berlinese, sia i nomi e i ruoli del suo avvocato e del suo commercialista. Rüdiger Heim scrisse al padre per informarlo e, come i congiunti nella corrispondenza chiamavano Aribert col nome in codice di Gretel, nella sua lettera si ispirò alle favole dei fratelli Grimm: “Una mattina… Gretel … decise di comprarsi uno Spiegel [specchio]. Quello che vedeva non le piaceva affatto. Se un giorno la povera fanciulla non avesse più ricevuto il pane, sarebbe morta di fame, oppure si sarebbe dovuto rifugiare nella foresta, che era piena di lupi, che l’avrebbero sbranata. Restava Rainer [l’avvocato]… doveva mettersi in contatto con lui”.

“Indignati, scioccati, sconvolti”. Così si sentivano gli inquilini del 28 di Tile-Wardenberg-Strasse quando seppero dove andava a finire l’affitto che pagavano. “Possibile che io finanzi la fuga di un criminale nazista?”. Ora acquistavano senso gli anni di incuria e le lunghe attese per le riparazioni. Non molto tempo dopo cominciarono a versare l’affitto in un conto congelato.
Inoltre, in base al vecchio statuto che permetteva di confiscare i guadagni illeciti dei capi nazisti, era possibile mettere all’asta l’immobile di Aribert Heim. Il condominio venne così valutato e il processo iniziò, ma l’accusa si trovò, senza testi in aula, a leggere le testimonianze scritte dei sopravvissuti ai lager Karl Kaufmann, Josef Kohl e Karl Lotter. Kaufmann, nel ’49 aveva scritto che Heim ordinava che gli venissero portati “dai 26 ai 30 prigionieri inabili al lavoro” e “li uccideva iniettando benzina nelle vene o nel cuore”. Kohl raccontava come il medico fosse solito commuovere le sue vittime con domande “apparentemente molto umane” e proprio allora iniettava la soluzione mortale. La testimonianza di Lotter, per il giornale “Tageszeitung” “toglieva il respiro, metteva la nausea”. Per i giudici Heim ha sostenuto il regime nazista. Doveva un’ammenda di 510.000 marchi. L’edificio venne espropriato.

Aribert Heim, con il falso nome di Alfred Buediger, strinse amicizia con il dentista egiziano Abdelmoneim el Rifai. Gli parlò del suo studio sui cazari e sulle origini del popolo ebraico. “Era uno che cercava la verità” ha ricordato Rifai. “Si capiva che non c’era molta amicizia tra lui e gli ebrei” spiegò il figlio, Tarek.

Dopo la sentenza di condanna in primo grado, Heim iniziò a scrivere una memoria difensiva per il processo d’appello. Riteneva che contro di lui vi fosse una cospirazione sionista ordita da Wiesenthal. A dieci anni, ricordava, aveva suonato il violino in duetto con una piccola ebrea e un imprenditore ebreo era “il solo che informavo costantemente dei miei successi sportivi”. Era stato spedito a Mauthausen contro la sua volontà e poi era stato scelto come capro espiatorio. “Fra la guerra e la prigionia ho perso otto anni al servizio dello Stato, poi ho lavorato gratuitamente negli ospedali. Ho dedicato tutta la mia esistenza al miglioramento della vita dei miei simili e alla pratica del cristianesimo”. Un’autodifesa accorata che il medico non spedì mai.

Il Bundestag votò l’imprescrittibilità dei reati capitali.

Dopo la sentenza di primo grado, Rüdiger scrisse al padre: “Non preoccuparti di quello che penso. Ti accetto e sono dalla tua parte”.

In appello fu confermata la condanna per Aribert Heim. Era il 1979.

L’attenzione mediatica scoppiata sulla latitanza di Aribert Heim fece fioccare una serie di piste investigative, tutte fantasiose e infondate, molte delle quali conducevano al mondo ispanico e al Sudamerica. Ma un filo che legava Heim all’America latina, all’insaputa di Wiesenthal e Aedtner, in realtà esisteva: Waltraut viveva in Cile, paese natale del marito.

Era una bambina e stava assistendo a una partita di hockey a Kitzbühel. Afferrò al volo un dischetto finito sugli spalti e scese in campo per restituirlo al portiere della squadra di Vienna, che le disse: “Ho giocato con tuo padre”.
Nel 1962 Wartraut bussò alla porta della madre di Aribert, Anna, che neanche chiese chi fosse, tanto era evidente la somiglianza. “Non voglio disturbarvi, ma vorrei tanto vedere una foto di mio padre”. “Tuo padre è morto in Russia e non abbiamo nessuna fotografia”.

Heim si trasferì dal Cairo a Port Said, nell’hotel Kasr-el-Madina, in un monolocale spoglio con una piccola cucina e un bagno senza doccia, sia per ragioni economiche, essendogli venuto a mancare l’affitto dell’immobile, sia per motivi di sicurezza: allontanandosi dal centro avrebbe incontrato meno occidentali. Il figlio del proprietario, Mahmoud Doma, aveva un rapporto speciale con “zio Tarek”: sul tetto dell’edificio giocavano a tennis e ping pong, uscivano insieme per fare piccoli acquisti, andare allo zoo o a vedere le piramidi. Zio Tarek era in Egitto per curare il mal di schiena col clima caldo e secco, portava sempre con sé una macchina fotografica ma non voleva essere fotografato. “Perché i tuoi figli non vengono qui?” gli chiedeva Mahmoud. “Sono molto occupati e non amano l’Egitto” rispondeva lo zio.

Heim aveva più di 60 anni ma manteneva un fisico atletico grazie alla passione per lo sport: frequentava quotidianamente un circolo per giocare a squash e non usava mai l’ascensore.

Nel 1980 Heim si presentò nella moschea di al-Azhar per convertirsi all’islam. Il nome musulmano somigliava vagamente a quello austriaco: Tarek per Aribert, Fardi per Ferdinand e Hussein per Heim.

Quando, dopo la condanna, Rüdiger si recò per la seconda volta al Cairo, padre e figlio furono costretti a discutere del passato e della latitanza, e Aribert passava ore ad attaccare i suoi accusatori, battendo molto sulla brevità del suo servizio nel lager. Non solo per questo la visita fu poco piacevole per Rüdiger, ma anche perché la città era peggiorata, più caotica e osservante. Su quello che era effettivamente accaduto a Mauthausen, tuttavia, non aveva ancora certezza. Non era sicuro che il padre non si fosse macchiato di reati nel campo di concentramento, ma neppure poteva credere alle atrocità di cui veniva accusato.

Il 31 maggio 1985 la polizia tedesco-occidentale perquisì la casa del confidente della famiglia Mengele, Hans Sedlmeier, e scoprì un indirizzo di San Paolo in Brasile che poteva essere connesso con il ricercato. La polizia brasiliana si mise all’opera, ma invece del nazista trovò la sua tomba: Josef Mengele era annegato nel 1979. I cacciatori di nazisti di tutto il mondo, che per anni avevano fantasticato sulla sua fuga, provarono imbarazzo per gli anni trascorsi tra la morte e il ritrovamento.

Il colpo più duro per Wiesenthal fu la mancata assegnazione del Nobel per la pace. La sua candidatura era stata intaccata dalla competizione con l’altro superstite ebreo, lo scrittore Elie Wiesel. I due erano in disaccordo su un punto cruciale: l’importanza da attribuire alle vittime non ebree dei lager. Wiesenthal era favorevole a un’inclusione più ampia, Wiesel propendeva per l’unicità del tentativo nazista di annientare gli ebrei. Nell’ ’86 il premio andò a Wiesel.

Dopo essere andato in pensione, Alfred Aedtner si concesse alla notorietà con apparizioni pubbliche: scrisse un articolo per lo “Spiegel” e fu protagonista di un documentario, ma non aveva la stessa capacità di autopromozione né la stessa naturalezza davanti alle telecamere di Simon Wiesenthal, cui la HBO offrì 350.000 dollari per raccontarsi, e che poté scegliere l’attore che lo avrebbe impersonato nel prossimo film su di lui. La scelta ricadde su Ben Kingsley.

Nel 1990 Rüdiger si recò al Cairo per assistere il padre che era appena stato operato per un tumore al retto. Il cancro era avanzato e i medici sapevano di non aver potuto rimuovere tutte le cellule maligne; Aribert sarebbe stato dimesso per poi sottoporsi a chemio e radioterapia. Nelle settimane successive il figlio visse con lui e se ne prese cura in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Il vecchio Heim era cambiato rispetto alla sua precedente visita: il processo sembrava un argomento dimenticato, mentre era aumentato il rincrescimento per non aver potuto esercitare la sua professione. Per fortuna come distrazione c’erano i mondiali di calcio; la Germania, a pochi mesi dalla caduta del Muro, vinse la coppa.

Nel 1994 Wiesentahl seppe della morte di Heim dalla lettera di un medico viennese, mezzo ebreo, Robert Braun. Era diventato amico di Aribert all’università e da lui era stato aiutato a entrare nella squadra di hockey in cui giocava: “Io ero convinto che non potesse fare male neppure a una mosca. Quanto ci si può sbagliare!”

La Western Union tedesca segnalò trasferimenti di denaro: tra il 2002 e il 2003 Rüdiger Heim aveva spedito 88.147 a Gaetano Pisano e Blandine Pellet, residenti in Costa Brava. Un corpo speciale tedesco, costituito nel 1996 per la ricerca dei latitanti, sospettò che Heim fosse ancora in vita e si nascondesse in Spagna presso la coppia di amici del figlio. I due una mattina furono prelevati da casa da poliziotti in borghese che li portarono in commissariato per interrogarli. Chiesero se avessero letto l’articolo uscito su “El Mundo”. No, risposero. Allora andate a comprare il giornale e tornate. C’era scritto di un criminale nazista che si rifugiava presso un amico italiano. “E’ uno scherzo?” chiese Pisano. Gli fu chiesto di Rüdiger: “Perché gli manda soldi?” “Perché compra molti miei lavori” fu la risposta del pittore. Poi, di fronte ai poliziotti, lo chiamò: “Sono al commissariato e dicono che tuo padre è un nazista”. “E’ vero” confermò Heim. Pisano e la compagna, da allora, vissero mesi di assedio mediatico.

Il padre era lontano dai suoi pensieri quando, nel 2006, Wartraut ne vide sul giornale la foto e lesse un articolo che ne elencava i crimini. Lei amava lo sport e la medicina, e parlava sei lingue; se era vero ciò che leggeva, aveva ereditato le sue migliori qualità da un assassino sadico. La sua casa fu assediata da giornalisti e fotografi: “Anche se mi seguirete per tutta l’eternità non troverete mai mio padre, perché io non lo conosco”.

Nel 2008 Rüdiger fu intervistato dal “Bild am Sonntag”: “Non so dove viva e non sto finanziando la sua clandestinità. E se è morto non conosco il luogo della sua sepoltura”. “Cosa farebbe se scoprisse dov’è ora?” “Griderei al mondo intero che deve consegnarsi alla giustizia e rispondere alle terribili accuse”.

Una fonte fidata della giornalista Souad Mekhennet le mostrò un fascicolo con la foto di un uomo di mezza età in giacca e cravatta. In un angolo c’era un timbro con caratteri in arabo. “Sa chi è quest’uomo?” chiese il confidente. No, rispose Souad. “E’ Aribert Heim”. L’informatore, dopo essersi fatato promettere l’anonimato, rivelò il rifugio del criminale nazista fuggito dalla Germania nel 1963.

“Gli piaceva molto leggere” ricordò Ahmed Doma, fratello minore di Mahmoud, frugando tra le carte custodite nella borsa di cuoio di Heim. Insieme alle lettere di autodifesa e al saggio sui cazari c’erano referti medici, tra cui molte analisi delle urine, e disegni del sistema urinario, digestivo e riproduttivo. Un documento parlava di carcinoide rettale, ed era firmato dal dottor Mohsen Barsoum, professore di radioterapia del centro oncologico dell’università del Cairo.

“Signor Heim, conosce la persona in questa foto?”. “Sì, è mio padre” rispose Rüdiger. “Sa da dove proviene questa fotografia?” “Credo venga da un documento egiziano, probabilmente dal permesso di soggiorno di mio padre” “Intende dire che suo padre viveva al Cairo?” “Sì, mio padre viveva al Cairo”.

Nel 1992 la malattia si era aggravata e Aribert, al telefono con il figlio, disse: “Adesso è ora che tu venga”. Non usciva più dall’albergo e ogni giorno un infermiere gli faceva visita. Sentendo la fine vicina, espresse la volontà di donare il suo corpo alla scienza, cosa vietata dalla fede islamica. Quando Rüdiger arrivò, lo trovò indebolito: “Era un moribondo, una persona condannata, che marciva lentamente dal di dentro”. Passavano molte ore al giorno guardando le olimpiadi di Barcellona. La sera del 9 agosto padre e figlio seguirono la cerimonia di chiusura dei Giochi e poche ore dopo Aribert smise di respirare. L’albergo informò le autorità. Andarono un rappresentante dell’ambasciata tedesca e un funzionario egiziano, che firmò il certificato di morte. Rüdiger e Mahmoud si recarono in diversi ospedali per rispettare le volontà del defunto, ma solo uno accettò di prendere in consegna il cadavere. Tornati in albergo, Rüdiger pregò Mahmoud di aver cura degli effetti personali del padre, che sarebbe tornato presto a prendere. Non appena il figlio partì, Mahmoud andò in ospedale a chiedere il corpo per seppellirlo nella tomba di famiglia ma, non essendo parente, ricevette un rifiuto. Così Tarek Hussein Farid finì sepolto in una fossa comune.

Nel 2009 il “New York Times” e la tv ZDF comunicarono la morte di Heim, avvenuta nel 1992 al Cairo, ma ci vollero altri quattro anni perché le autorità tedesche si decidessero a riconoscere il decesso.