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 2014  dicembre 02 Martedì calendario

ROMA - Il suo nome è legato in modo indissolubile agli anni ’70 del secolo scorso. Anni di attentati, di stragi, di depistaggi

ROMA - Il suo nome è legato in modo indissolubile agli anni ’70 del secolo scorso. Anni di attentati, di stragi, di depistaggi. Di trame nere e di tentativi golpisti. Anni dominati dal terrorismo, con agguati spietati tra estremisti di destra e di sinistra. Di ideali e speranze naufragati in una strisciante lotta armata e poi affogati nel sangue. Anni che la Storia ha definito "di piombo": dove le pallottole hanno sostituito le parole, i morti ai vivi. Fino al connubbio sempre più stretto, fatto di affari e politica, tra una destra eversiva e una malavita di periferia che finì per servire gli interessi di Cosa nostra e i suoi referenti finanziari. La storia di Massimo Carminati, 56 anni, milanese di nascita ma romano di adozione, si sviluppa proprio in quel periodo. Giovane, silenzioso, discreto, immerso nella piccola borghesia dell’epoca, frequenta subito gli ambienti dell’estrema destra e dopo aver militato in organizzazioni come il Fuan e Avanguardia nazionale, aderisce in pieno ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari: la banda più decisa politicamente e più efficace da un punto di vista militare della galassia terroristica fascista. Stringe subito amicizia con i suoi compagni di liceo, l’Istituto paritario Federico Tozzi del quartiere di Monteverde: Alessandro Alibrandi, figlio di un noto giudice della Capitale, Franco Anselmi, ex missino e fondatore dei Nar, e Valerio Fioravanti, promettente attore poi condannato in via definitiva per la strage alla stazione di Bologna (2 agosto del 1980, 85 morti e 218 feriti) assieme alla sua compagna Francesca Mambro. Un gruppo compatto, immerso nella militanza attiva, già disposto a tutto. A colpire, uccidere, morire. Hanno un loro punto di ritrovo, come succedeva spesso all’epoca. Non c’erano internet e i cellulari; per vedersi bisognava uscire di casa e incontrarsi in un posto che si presidiava stabilmente. Una piazza, un incrocio, un bar. La base di Carminati e dei suoi amici era il "Fungo": una torre alta e moderna nel quartiere Eur sulla cui cima spicca un ristorante che domina la città. All’epoca era noto per essere un ritrovo di neofascisti. Faceva parte di quei tanti luoghi che trasformavano Roma, come molte città, in un territorio a macchia di leopardo: alcune presidiate dai ragazzi di sinistra, altre da quelli di destra. A metà degli anni ’70, il Fungo era anche frequentato dagli elementi di quella che sarebbe diventata una delle bande più potenti a Roma e in Italia: la Banda della Magliana. Fu in questo luogo che Massimo Carminati inizia il suo doppio percorso della militanza neofascista e della malavita organizzata. Ricorda Daniele Bianchessi nel suo libro "Un attimo... vent’anni": "Pur partecipando solo marginalmente a scontri e sparatorie della miniguerra che ha insanguinato la Capitale intorno al 1977 fra estremisti di destra e di sinistra, Carminati gode di grandissimo prestigio. Probabilmente perché è la persona dell’ambiente di destra maggiormente legata già allora alla malavita romana, alla nascente Banda della Magliana". Valerio Fioravanti lo stima. Per il suo profilo criminale, per le conoscenze che aveva accumulato nel corso degli anni, per la sua dimestichezza con gli ordigni esplosivi e per la disponibilità di armi che vantava. Tutti elementi che lo rendevano un militante perfetto per gli obiettivi che i Nar si prefiggevano. Il gruppo compie la prima delle tante rapine per autofinanziarsi. I traveller cheques trafugati nel caveau della Chase Manhattan bank dell’Eur vengono affidati a Franco Giuseppucci, boss della Banda della Magliana, che provvederà a riciclarli. I legami tra neofascisti e criminalità emergente della Capitale diventano sempre più stretti. Non c’è solo il denaro rubato da ripulire. Ci sono le armi che servono per gli agguati contro i nemici politici e gestite dalla malavita. Alcune, poi ritrovate in un garage nei sotterranei del ministero della Sanità a Roma, trasformato nella Santabarbara della destra terroristica, saranno rinvenute sul treno Taranto-Milano: solo dopo si scoprirà che si trattava di un tentativo di depistaggio dalle indagini sulla strage di Bologna. Depistaggio portato avanti da due altissimi esponenti dei nostri Servizi segreti, da tempo deviati dai loro compiti costituzionali, e nel quale fu coinvolto lo stesso Carminati, poi assolto nel processo d’appello. Non sarà l’unica assoluzione per il mercenario dei Nar. Chiamato il "guercio" per una brutta ferita all’occhio sinistro provocata da un colpo di pistola esploso dai carabinieri nel tentativo di catturarlo, Massimo Carminati è sempre uscito indenne dai tanti processi che lo accusavano di reati pesantissimi. Nonostante molti pentiti lo abbiano indicato tra gli autori di attentati e agguati mortali, su di lui la magistratura non è mai riuscita a trovare prove in grado di inchiodarlo. Così è accaduto per l’episodio più oscuro di quella stagione: l’omicidio di Mino Pecorelli, direttore del settimanale Op Osservatorio Propaganda, iscritto alla P2 e legato ai Servizi segreti. Assassinato con tre colpi di pistola a Roma la sera del 20 marzo del 1979, il giornalista, famoso per i suoi ricatti che lanciava attraverso le pagine della rivista, si è portato nella tomba i tanti segreti che custodiva. Aveva appena stampato l’ultimo numero con un titolo eloquente, quello che anticipava lo scandalo delle tangenti ai partiti: Gli assegni del Presidente. Secondo Antonio Mancini, pentito della Banda della Magliana, "fu Massimo Carminati a sparare assieme a Angiolino il Biondo, Michelangelo La Barbera, un killer di Cosa Nostra. Il delitto era servito alla banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere". L’assassinio di Pecorelli era un favore a Cosa nostra. Il cemento che avrebbe sancito l’alleanza con i clan di Palermo. Solo nel 1998, dopo una grande operazione della polizia, grazie alle rivelazioni di numerosi pentiti dalle Magliana, Carminati fu condannato in secondo grado a 10 anni di reclusione. Del "guercio" non si è più sentito parlare. L’ex militante dei Nar, affiliato a pieno titolo nella banda più aggressiva e pericolosa della Capitale, emigra all’estero. Probabilmente in Giappone, terra di rifugio per molti terroristi neri latitanti. Poi, con la stessa discrezione e cautela di sempre, rientra nella Città Eterna e inizia a tessere le vecchie amicizie. Grazie anche alla conquista del Comune di Roma da parte della destra di Gianni Alemanno al quale la destra omicida di un tempo presenta il conto. Chiede favori e li ottiene. Con incarichi, prebende, assunzioni. Il nuovo sindaco si circonda dei personaggi che aveva conosciuto e di cui si era sempre circondato. Gli ideali sono gli stessi ma i tempi sono cambiati. Basta pistole, attentati, pistole e agguati. Ora girano tutti in doppio petto: è il momento degli affari. Miliardi da incassare subito e in modo facile. Carminati conquista spazi e territori. Impone la sua autorità rimasta intatta, gestisce i traffici di cocaina che aveva invaso i quartieri bene della Capitale, i prestiti a strozzo, l’assegnazione dei grandi appalti pubblici. Trovando il giusto equilibrio tra i nuovi gruppi criminali che si erano fatti largo nel deserto lasciato dalla ormai dissolta Banda della Magliana e i clan siciliani e calabresi sempre più attivi a Roma grazie ai loro referenti politici. Una spartizione perfetta. Scandita da una pace che ha consentito, fino a ieri, la gestione del più grande business affaristico politico-criminale del nuovo secolo.