Alessandro Sansoni, Limes: Quel che resta dell’Italia 11/2014, 2 dicembre 2014
GEOPOLITICA DI GENNY ‘A CAROGNA TEORIA E PRASSI DEL GOVERNO DI UNO STADIO
1. QUELLA IMMAGINE È SCOLPITA ORMAI NELLE menti di milioni di sportivi, e non solo. La televisione la rimanda in onda ogni qualvolta torna d’attualità il tema della violenza negli stadi. Ci riferiamo all’immagine che ritrae l’ormai famoso capo ultrà Genny ’a Carogna (al secolo Gennaro De Tommaso), seduto a cavalcioni sulla rete di protezione a bordo campo dello Stadio Olimpico di Roma. Genny governa la folla assiepata nella curva assegnata ai tifosi del Napoli, in occasione della finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina del 3 maggio scorso, al termine di un concitato negoziato, svoltosi sotto gli occhi di milioni di telespettatori, tra il leader dei tifosi, alcuni giocatori in maglia azzurra e rappresentanti delle forze dell’ordine e delle istituzioni.
Quel giorno, nel pomeriggio, il giovane supporter napoletano Ciro Esposito era stato ferito a morte da un tifoso romanista, nel corso di un violento tafferuglio avvenuto fuori dello stadio che aveva visto coinvolte le tifoserie giallorossa e azzurra, storicamente rivali. Dopo quell’episodio, l’arbitro non riusciva ad avviare il match a causa dei continui lanci di petardi da parte degli ultrà collocati nelle due curve. Né i napoletani né i tifosi viola, avrebbero consentito di cominciare la partita se prima non si fosse saputo quali erano le effettive condizioni cliniche di Ciro.
Meno noto al grosso dell’opinione pubblica è il modo in cui i negoziati sono stati condotti, chi vi ha partecipato, dove effettivamente sono state prese le decisioni necessarie. La scena della «Carogna» troneggiante, non solo sulle teste degli ultrà napoletani ma anche su quelle di giocatori e poliziotti, avrebbe potuto avere il viola come colore preponderante sullo sfondo, se solo le telecamere avessero mostrato quanto accadeva nella curva opposta, quella fiorentina, dove peraltro i conciliaboli avvenivano con un maggior numero di negoziatori appollaiati sulle recinzioni dello stadio. Ma questa è un’altra storia.
2. La storia che ci interessa, invece, è quella della curva A dello stadio San Paolo di Napoli, dove militano (è il caso di usare questo termine) le frange più dure del tifo napoletano, assurte ormai stabilmente agli onori della cronaca dopo i fatti del 3 maggio e da assai più tempo monitorate da giornalisti e magistrati per i possibili legami esistenti tra i gruppi ultrà che la popolano e i clan malavitosi della città.
Legami inquietanti, tanto più alla luce delle immagini trasmesse dalla Rai, che ritraevano Genny ’a Carogna mentre con un semplice gesto delle mani placava la folla inferocita, emblema di uno Stato messo di fronte alla necessità di venire a patti con una controparte capace di esercitare un contropotere rispetto al monopolio della violenza e quindi dell’ordine pubblico che dovrebbe essere prerogativa inderogabile delle istituzioni repubblicane.
Un deficit di efficacia e di autorità già dimostrato in altre occasioni (basti pensare al famoso derby Roma-Lazio sospeso a causa delle pressioni degli ultrà capitolini, dopo la diffusione della falsa notizia di un bambino morto durante gli scontri avvenuti fuori dell’Olimpico) nell’ambito dei rapporti con la tifoseria estremista, reso ancor più grave dalle paventate collusioni con la criminalità organizzata.
Ma è davvero così grande il potere dei capi della curva A? E soprattutto, quali sono i veri rapporti che intercorrono tra i clan camorristici e il tifo ultrà della principale città del Mezzogiorno?
Se si vogliono analizzare da una prospettiva realista i rapporti di forza nel nostro paese, conviene rifarsi alla lezione impartitaci dalla scuola giuridico-politologica dell’Università Cattolica milanese, quella dei Gianfranco Miglio prima e dei Pierangelo Schiera poi, ispirata dai grandi studiosi tedeschi Otto Hintze e soprattutto Otto Brunner, con i loro fondamentali concetti di «costituzione materiale» e «poteri di fatto presenti sul territorio». La debolezza dello Stato italiano ha infatti storicamente invitato attori informali, a cominciare dalle mafie, a esercitare poteri di fatto sul territorio nazionale. A un grado minore, anche il tifo organizzato finisce per esercitare un potere, abbastanza puntualmente localizzabile (lo stadio) e circoscrivibile all’ambito dell’interesse sportivo, ma non privo di una sua compattezza che lo rende spendibile anche in altri ambiti.
Qualunque storico dell’antica Roma o dell’impero bizantino, ad esempio, conosce bene la capacità di mobilitazione sociale e politica di cui disponevano le tifoserie organizzate degli ippodromi. I «bianchi», i «rossi», i «verdi» non solo la facevano da padroni in quelle arene, ma spesso costituivano un’efficace massa di manovra per gli agitatori politici o gli aspiranti usurpatori del potere imperiale. La capacità di aggregazione e l’uso della violenza erano il loro valore aggiunto. Nulla di nuovo dunque sotto il sole. Anche da questo punto di vista le leggi della «lunga durata» si fanno valere nel contesto italiano.
Ancora oggi nel nostro paese le tifoserie calcistiche rappresentano una platea disponibile alle sollecitazioni degli attori politici e degli aggregatori di clientele elettorali. Questo conferisce al tifo organizzato una sua capacità di negoziazione e ne alimenta la coesione e l’attrattività, basata anche su un notevole potenziale economico. Il tifo degli ultrà presenta simboli e codici propri, non assimilabili a quelli di altre entità, anche territorialmente sovrapposte o legate all’esercizio della violenza. Questo vale anche per i rapporti tra i gruppi della curva A del San Paolo e i clan camorristici.
Il tifo napoletano vanta alcune peculiarità. Innanzitutto il Napoli è l’unica squadra di calcio italiana ad avere non una, ma due curve governate dai gruppi ultrà. La curva B è la storica sede del vecchio Commando Ultrà, il principale gruppo della tifoseria azzurra, guidato negli anni Ottanta dal leggendario Gennaro Montuori, detto «Palummella», di cui si ricordano ancora oggi le spettacolari scenografie dell’«era Maradona». «Palummella», oltre alle innegabili doti di organizzatore, dimostrò all’epoca notevoli qualità imprenditoriali, inaugurando la stagione dei rapporti a doppio filo con la proprietà della società calcistica. Relazioni lucrose per i capi ultrà, grazie alla gestione informale del merchandising, all’offerta» di servizi alle società calcistiche (le pulizie dello stadio, per esempio), all’organizzazione delle trasferte. Fu proprio l’eccesso di pratiche «mercantilistiche» a determinare, nel corso dei primi anni Novanta, la nascita dei gruppi ultrà della curva A.
Il modello di questi nuovi soggetti, che si presentavano come portatori dell’autentica «mentalità ultrà» (sostegno incondizionato e disinteressato alla squadra e attitudine allo scontro violento contro le altre tifoserie) furono i Fedayn, un piccolo gruppo particolarmente aggressivo e selettivo, anch’esso ubicato in curva B (ancora oggi), la cui filosofia è sintetizzata nella sigla Eam (Estranei alla massa), capeggiato negli anni Ottanta e Novanta, tra gli altri, da Massimo ’o bandito (Massimiliano Amato), arrestato nel 2012 in Spagna per traffico di cocaina. I Fedayn erano e sono tutt’oggi considerati l’élite del movimento ultrà sotto il Vesuvio. A loro spetta lanciare il «primo coro» prima dell’inizio delle partite al San Paolo.
Occorre notare un’altra caratteristica peculiare dei supporter napoletani: la frammentazione dei gruppi. A parte la Juventus, che ha una tifoseria molto segmentata dal punto di vista geografico, con club attivi in varie parti d’Italia e organizzati in base alla loro provenienza, solo i tifosi napoletani della curva A si identificano in base alla loro estrazione territoriale, con la differenza che nel loro caso l’identità è data dal quartiere di origine.
Quella che inizialmente fu denominata «’a curva re’ quartierani», ossia degli abitanti dei Quartieri Spagnoli, può ospitare fino a 10 mila spettatori, di cui 800-1.000 sono definibili come veri e propri attivisti ultrà, nel senso che partecipano alle riunioni organizzative e alle trasferte, sono disponibili a intervenire durante gli scontri, indossano i gadget di riconoscimento dei gruppi. Di questi attualmente 2-300 appartengono ai Mastiffs, il gruppo di Genny ’a Carogna, espressione dei Decumani, ovvero il centro antico della città; un centinaio sono del gruppo Rione Sanità guidati da Gianluca De Marino, considerato dalla polizia come una sorta di ideologo; un altro centinaio afferiscono alla Masseria Cardone, provenienti da Secondigliano; circa 40 ultrà del Rione Traiano si riconoscono nella sigla Fossato Flegreo; altri 100 formano la Brigata Carolina, espressione della zona della Torretta sulla Riviera di Chiaia; circa 150 compongono il gruppo Sud del quartiere San Giovanni a Teduccio; i Vecchi Lions, dei quartieri Chiaia e Vomero e del Comune di Marano, sono forti di un paio di centinaia di elementi; infine ci sono le Teste Matte, un tempo molto numerose, sorte nei Quartieri Spagnoli, ma molto radicate anche a Pianura, che attualmente contano un centinaio di adepti.
Quando nel 2005 il Napoli piombò in serie C, i capi ultrà decisero di mettere da parte queste distinzioni e di sostenere la squadra tutti insieme dietro lo striscione «curva A». Oggi, infatti, sciarpe e bandiere connotate con i nomi dei vari gruppi non vengono più prodotte. Esiste una sorta di direttivo unico dove tutti i pezzi storici della curva sono rappresentati. Ma le vecchie identità permangono: i veterani ostentano con orgoglio i gadget e i tatuaggi che definivano le appartenenze del passato (solo loro possono farlo!) e le «posizioni» sugli spalti sonò le stesse di dieci anni fa.
Proprio questa forte connotazione territoriale e la suddivisione in vari gruppi hanno spinto gli osservatori e soprattutto i magistrati a teorizzare un legame diretto tra le varie organizzazioni ultrà della curva A e i clan dei quartieri di provenienza, quasi come se sugli spalti si riproducesse la geografia criminale cittadina e le varie sigle fossero una diretta emanazione delle fazioni malavitose. Non a caso l’unità della magistratura inquirente che si occupa dei crimini riconducibili allo stadio risponde alla Direzione distrettuale antimafia e le indagini sugli ultrà tendono a evidenziare le contiguità con la malavita organizzata locale, poggiandosi spesso sulle dichiarazioni dei pentiti. Ma è effettivamente così?
3. È senz’altro vero che oltre il 50% dei militanti ultrà ha precedenti penali di vario tipo, così come è assodato che esistono legami, anche parentali, tra alcuni «dirigenti» dei gruppi dello stadio ed esponenti camorristici. Eppure l’impressione che si ricava dai racconti delle nostre fonti, interne al mondo ultrà oppure operanti tra le forze dell’ordine, ci spinge a ritenere che la risposta alla domanda sia piuttosto articolata.
L’unico gruppo in cui la matrice camorristica risulta evidente, perfino nel nome, è quello delle Teste Matte, che era il soprannome del gruppo di fuoco del clan Mariano, detto dei Picuozzi, che dominò i Quartieri Spagnoli negli anni Ottanta e Novanta, dopo la sconfitta degli uomini di Raffaele Cutolo. Coloro che diedero vita nell’ultimo decennio del secolo scorso al gruppo ultrà erano effettivamente la seconda generazione delle Teste Matte spadroneggianti nei vicoli che affacciano su via Toledo. L’attività malavitosa, mista ai tafferugli da stadio, si è protratta fino ad oggi, come testimoniano i 54 arresti risalenti al febbraio 2013. Tra questi, con l’accusa di associazione a delinquere e spaccio di droga, figurano anche alcuni elementi di spicco del gruppo ultrà tra cui Paolo Pesce, vicino al clan Abbinante.
Più difficile è sostenere la stessa equivalenza per gli altri gruppi. Una cosa è rilevare come un affiliato al clan Misso quando va allo stadio si segga vicino o tra i membri del gruppo Rione Sanità, altra cosa è sostenere che questa sigla operi secondo le logiche dei Misso. Così come è inevitabile che tra gli ultrà più attivi siano riscontrabili relazioni amicali o parentali con affiliati alla camorra, ma questo attiene alla loro estrazione sociale e territoriale. Un personaggio di spicco della curva A ci ha detto: «In un quartiere popolare, se vuoi essere un ragazzo rispettato o fai l’ultrà o fai il camorrista, ma non entrambe le cose contemporaneamente».
Al di là della retorica, la frase è istruttiva. La presenza di tanti pregiudicati all’interno del movimento ultrà partenopeo deriva dal fatto che gran parte della popolazione di Napoli si muove e opera all’interno di un’ampia zona grigia in cui l’illegalità, di qualunque tipo, è considerata normale, anche se non ha una matrice camorristica. È il paradosso di una città in cui, pur operando una compagine di tipo mafioso, la microcriminalità è diffusissima. Ma l’anarchia criminale dominante a Napoli, così come la pessima qualità del personale affiliato alla malavita organizzata, rientrerebbero in un altro tipo di analisi.
Il punto vero è che la camorra non opera direttamente nella curva A per la semplice ragione che lì non c’è business. Può sembrare incredibile, osservando le loro sagome truculente, ma i duri e puri della «mentalità ultrà» napoletana non permettono il merchandising «informale». Sciarpe, bandiere, spillette non vengono vendute, ma assegnate per cooptazione. Caso forse unico in Italia. Allo stesso modo, alla Società sportiva calcio Napoli non vengono chiesti sussidi di alcun genere, neanche per le trasferte. Quanto alla droga: la curva è senz’altro un luogo di consumo, ma non di spaccio, che anzi viene contrastato dai capi ultrà sugli spalti. Lo stesso passaggio dalla violenza nello stadio all’affiliazione a un clan può avvenire per un’evoluzione criminale di un determinato soggetto, ma difficilmente le due attività saranno praticate contestualmente.
Perché questo se l’ambiente è lo stesso? La risposta può aiutarci a trovarla l’apparato ermeneutico brunneriano cui abbiamo fatto riferimento: un clan camorristico e un gruppo ultrà sono due «poteri di fatto» presenti su di uno stesso territorio, ma distinti. Si conoscono, si incontrano, magari esercitano reciproche pressioni, costituendo quello meno forte un brodo di coltura per l’altro, ma restano dotati di vita autonoma, pena la perdita di soggettività per uno dei due.
È improbabile, ad esempio, che la camorra interferisca direttamente nella disposizione dei vari gruppi sulle gradinate della curva A, come pure qualche pentito ha affermato (vedi le dichiarazioni di Emiliano Zapata Misso riportate in Simone di Meo, «Rapine e vendette, i giocatori del Napoli ostaggio degli ultras», sul Sole-24 Ore del 26 febbraio 2014): non è quello un luogo dove essa ha da tutelare suoi interessi reali o in cui le è utile proseguire le proprie falde. L’adesione a un raggruppamento esclusivo, dove alimentare il senso di appartenenza e una forma di compagnonnage guerriero, cementato da simboli, tatuaggi ed esperienze vissute, come nelle gang sudamericane, senza riferimenti di natura politica (altra peculiarità partenopea): sono questi gli elementi di coesione che strutturano i gruppi della curva A.
Insomma, se Genny ’a Carogna è riuscito a governare la sua curva, ciò è stato possibile per il suo prestigio di capo ultrà e non perché ha dato voce alla «volontà della camorra». Ed è lì, nella sua curva, che inizia e finisce il suo potere.