Mara Accettura, D, la Repubblica 29/11/2014, 29 novembre 2014
APRITE QUELLE PORTE
Se i polli avessero una religione, Philip Lymbery sarebbe tra i loro santi, dice l’ambientalista antispreco Tristam Stuart. E probabilmente gli innalzerebbero un altare anche i vitelli e le scrofe. Lymbery, capo di Compassion In World Farming, la maggiore organizzazione internazionale per il benessere degli animali di allevamento, si definisce piuttosto «un appassionato pragmatico». Un attivista in giacca e cravatta amante della campagna e del birdwatching che persegue obiettivi concreti, piuttosto che un guerrigliero. Altri combattono a colpi di strategie scioccanti, lui da 25 anni sfinisce business e istituzioni con la dialettica. «Ricordo conversazioni infinite con i ministri dell’agricoltura che chiedevano: “Come fai a sapere che gli animali sentono qualcosa?”», racconta. «Ecco, ora lo dice la legge». Grazie alle campagne di questa Ong in Europa le ovaiole non sono più tenute in gabbie da batteria dove lo spazio a disposizione era meno di un foglio A4. I vitelli non crescono più in «bare premature», al buio, immobili per sei mesi e incapaci persino di camminare verso il macello. E le scrofe si sono sbarazzate delle gabbie per la gestazione, dove rimanevano confinate, senza lo spazio vitale per girarsi, per la durata della gravidanza.
All’ambientalismo “duro e puro” questi cambiamenti possono apparire appena una verniciata di verde su un sistema crudele, ma dietro i modi affabili Lymbery ha la tenacia di un bulldog. E un sogno: «Abolire il paradigma dell’allevamento intensivo che produce grandi sofferenze non solo agli animali in schiavitù, ma all’ambiente e alla nostra salute». Di questo parlerà a Milano il 4 dicembre al Forum internazionale su alimentazione e nutrizione Barilla, grazie alle storie e ai dati raccolti in Armageddon, The True Cost Of Cheap Meat, un libro e una videoinchiesta «sul vero costo della carne che costa poco», frutto di un suo viaggio di tre anni dagli Usa all’Argentina, dalla Cina al Perù, in cui denuncia gli effetti devastanti dell’allevamento intensivo, «un sistema non solo inumano ma inefficiente».
Chi fa politica dice che dobbiamo raddoppiare la produzione entro il 2050, quando raggiungeremo i 9 miliardi di persone. «In realtà produciamo già abbastanza, per 14 miliardi, ma ne sprechiamo più della metà», dice Lymbery. Il grosso dello spreco è imputabile agli allevamenti intensivi, nati assieme alle monoculture negli anni Sessanta, quando la produzione agricola era insufficiente per il boom demografico. «Basta pensare che un terzo del raccolto mondiale di cereali e il 90% della soia vanno agli animali. Se li destinassimo agli uomini potremmo sfamare altri 4 miliardi di persone. E devo aggiungere una cosa: in termini calorici le bestie restituiscono in latte, carne e uova, il 30% di quello che consumano. Non è una follia?».
La soluzione non è diventare tutti vegetariani, anche se Lymbery lo è e auspica un consumo di carne ridotto e di migliore qualità, ma usare la terra in modo più efficiente. «Il suolo coltivabile è molto scarso mentre i pascoli sono ubiqui: coprono un quarto della superficie del pianeta. Perché allora dipendere dai mangimi? Lasciamo pascolare gli animali. In questo modo contribuirebbero al paniere globale del cibo invece di impoverirlo». C’è chi obbietta che non ci sia spazio, ma per Lymbery è un falso problema. «Se tutte le galline del Regno Unito razzolassero, il territorio occupato sarebbe minuscolo: un terzo dell’isola di Wight». Crescere all’aperto si traduce in cibo di qualità migliore, più povero di grassi e ricco di Omega 3, col vantaggio di diminuire il numero di malattie e quindi l’uso indiscriminato di antibiotici. «Oggi metà della produzione mondiale di antibiotici viene somministrata alle bestie, in Usa è l’80%. Farmaci introdotti di routine nei mangimi per promuovere la crescita veloce e prevenire le malattie in ambienti sovraffollati, che vanno a finire anche nel nostro corpo, abbassando le difese immunitarie», dice. «Se questo uso indiscriminato continua potremmo presto entrare in un’era postantibiotica in cui malattie oggi curabili diventeranno letali».
Il ritorno alle fattorie ha anche un vantaggio ambientale. «È una buona maniera per riciclare i rifiuti prodotti. Oggi gli allevamenti sono costruiti accanto a vasche grandi come piscine olimpioniche dove le deiezioni vengono raccolte e poi mescolate ai fertilizzanti chimici per far crescere i cereali per i mangimi. Nei campi questo non succederebbe». La carne che costa poco la paghiamo tre volte: «La prima alla cassa, la seconda con le tasse che finanziano l’agricoltura, la terza per riparare ai disastri ambientali e sanitari».
Purtroppo il modello trainante oggi nel mondo sembra quello delle megafarms americane della Central Valley californiana, “mostri” da 20mila capi dove le mucche da latte «sono macchine disegnate per ingoiare ingredienti sputandoli in un’altra forma, un processo che va avanti tutti i giorni 24 ore su 24. E quando, dopo un paio di anni, si rompono, vengono rimpiazzate». Le conseguenze sono inquinamento dell’aria, dell’acqua, asma nei bambini.
Evitate per un pelo, grazie a proteste di massa, nel Regno Unito, le megafarm sono state esportate con successo in paesi come la Cina, dove lo scenario è agghiacciante: «Lì ho visto immagini tali che se avessi tendenze suicide a quest’ora sarei morto». Allevamenti come quello di Muyan, che produce un milione di suini all’anno, grandi come piccole città, che rubano la terra ai contadini e restituiscono lagune di liquami e malattie. Lager ad altissima tecnologia progettati per ospitare migliaia di gabbie una sull’altra, in modo che un singolo individuo possa controllare anche tremila maiali. «Pensiamo che la Cina sia lontana ma in realtà siamo noi, in particolare Germania e Olanda, a rifornirla di tecnologia ad hoc e, nel caso del Regno Unito, a venderle seme scelto con cui ingravidare le scrofe». In Italia Ciwf ha girato l’anno scorso una videoinchiesta in undici allevamenti di suini. In un altro film ha documentato la vita dei conigli, di cui siamo i primi produttori in Europa e i secondi nel mondo. Vale la pena guardarli su YouTube per farci delle domande sul loro benessere, il rispetto delle direttive europee e l’eccellenza della carne italiana. Certo, fa piacere sentire che grazie alla collaborazione con Ciwf la catena di supermercati Sainsbury’s non stocchi più uova da polli in gabbia, Barilla non le utilizzi più per la pasta (e sta lavorando sulla carne dei tortellini) e che McDonald’s, in Europa, usi solo carne che viene dai pascoli, latte biologico (per le bevande calde) e uova da allevamento a terra. Ma il resto?
Una delle battaglie correnti dell’ong inglese è quella per le etichette oneste. «Nessuno sa cosa succede dietro le porte chiuse: l’alto livello di segretezza rafforza il sistema. Etichette con immagini di fattorie gioiose e mucche felici non significano nulla così come gli slogan che inneggiano all’alta qualità, alla freschezza del prodotto o alla derivazione genuina e campagnola. È il motivo per cui stiamo spingendo sull’Unione Europea per una legislazione che imponga di dichiarare in modo chiaro al consumatore il metodo di produzione, così come già succede per le uova. Se una bistecca viene da allevamento intensivo bisogna dirlo e se la cosa imbarazza l’allevatore, allora cambi metodo!». Provate a immaginare se eccellenze italiane come il parmigiano o il prosciutto crudo dichiarassero “da allevamento intensivo”. Quanti di noi andrebbero alla cassa a cuor leggero?