Teresa Ciabatti, IL 12/2014, 2 dicembre 2014
LA DISCUSSIONE LEGGERA
«Quando sentono la mia voce i bambini smettono di piangere», dice Barbara D’Urso di sé. Lo dice a Pomeriggio 5.
E anche: «Io faccio la parte della comare Cozzolino e mi chiedo…».
Oppure: «A me piace mandare messaggi d’amore, comunque e sempre».
Applauso. È dunque questa donna di buoni sentimenti, portavoce del popolo, rappresentante delle casalinghe («care amiche, mentre siete lì che state stirando…»), è proprio lei oggi a parlarci di cronaca nera.
Tutto ha inizio con Sarah Scazzi. Seguono Yara Gambirasio, Melania Rea, e Roberta Ragusa. Elena Ceste è il modello perfezionato. La messa a punto, dopo tanti tentativi, di spazio del commento, spazio delle interviste, tono (per esempio: si può sorridere parlando di un fatto di cronaca nera? È tollerata una battuta per allentare la tensione? Risposta: sì).
Il modello perfetto è dunque fatto di collegamenti coi giornalisti sul luogo del mistero/delitto. Collegamenti e discussione in studio. La spalla di Barbara è Giangavino Sulas, giornalista di Oggi, presentato come esperto di cronaca nera.
Così, mentre da una parte abbiamo la madre («io come madre», «io in quanto madre», «se una mattina i miei figli mi dicessero: “Ehi mamma…”», ripete Barbara), dall’altra il nonno pazzerello, il vecchietto a cui è tutto concesso.
Pensiamo al Muppet Show, pensiamo a Miss Piggy, pensiamo a Kermit (ma anche a Statler, il vecchietto che dice tutto quello che gli passa per la testa).
«Loro si sposano in Sicilia, nel paese di lui. Ma tu Barbara hai mai visto due che si sposano nel paese di lui?», scuote la testa Sulas-Kermit.
«Che vuoi dire, Giangavino?», sbatte gli occhi D’Urso-Miss Piggy.
«Di solito ci si sposa nel paese di lei».
«E quindi?»
«Niente, lasciamo perdere… visto che si parlava di un marito padrone… ma niente, niente… meglio che sto zitto».
O anche: «Don Roberto sa tutto, dalla a alla zeta – pontifica Sulas –. Parla a voce bassissima, riflette… non gli scappa una parola sbagliata, una sfinge».
D’Urso annuisce inclinando la testolina: «Ricordi quando gli ho chiesto: “Don Roberto, tu ti sei fatto un’idea di quello che è successo?”. Lui ha fatto una pausa, e poi ha detto: “No”».
«Non poteva dire altro. Don Roberto lancia messaggi trasversali».
«Sottotesti, si chiamano a teatro».
«Ecco, bravissima Barbara».
Si procede così a Pomeriggio 5: commenti in libertà, illazioni, supposizioni. Chiacchiere da talk show, apparentemente spontanee, come avviene per le altre storie (Den Harrow ha picchiato l’ex moglie? Arturo, l’autista di casa Sordi, ha davvero ingannato la Signorina? Perché la figlia di Funari odia tanto Morena, l’ultima moglie del padre?).
I paradigmi della discussione leggera vengono applicati alla cronaca nera. E qui sta la rivoluzione D’Urso: se si riesce a creare una soap a puntate su Carmen Russo ed Enzo Paolo Turchi (gravidanza di Carmen, nascita di Maria, Enzo Paolo alle prese coi pannolini), perché non farlo su materiale di altro genere?
“Soapizziamo” la cronaca nera.
Ecco allora il narratore che ci racconta la storia a puntate di delitti non risolti: protagonisti, fatti, testimonianze, false piste, colpi di scena. E poiché il nostro narratore è abile, ecco che riesce a tenere la suspence, puntata dopo puntata, anche in mancanza di svolte: entrano nuovi personaggi, come Loris Gozi nel caso di Roberta Ragusa. Un signore che, con quattro mesi di ritardo, va a testimoniare alla polizia di aver visto quella notte Antonio Logli litigare per strada con la moglie.
Lasciamo perdere che l’abbia fatto dopo quattro mesi, aveva paura. Dimentichiamoli e abbiamo un eroe che proclama a Barbara: «Io lotterò fino alla fine dei miei giorni per la signora Roberta Ragusa».
Applauso.
In studio D’Urso-Sulas commentano, si punzecchiano, sognano. Già perché spesso Giangavino premette: «Questo l’ho sognato, è un sogno che ho fatto stanotte, Barbara».
Fra un «per carità, non è colpevole», «nel caso sia stato lui», «noi di certo non lo stiamo accusando», i due guidano il pubblico. Attraverso aggettivi isolati – «strano», «anomalo», «bizzarro» – ed espressioni del volto – perplesso, allibito, sconcertato – D’Urso-Sulas orientano il giudizio delle amiche casalinghe che in questo momento stanno stirando.
«Accadrà all’alba – vaticina Sulas –. Alle sei del mattino qualcuno suonerà alla porta di Michele», intendendo il marito della Ceste.
«Hai sognato anche questo, Giangavino?», sbatte le ciglia D’Urso.
«Se ti suonano alle sei del mattino, Barbara…».
«Ma guarda – scuote la testolina boccolosa lei – se suonano a me alle sei del mattino, caro Giangavino, io non ci sono, mi trovano a Cologno, al lavoro».
I ruoli vengono ribaditi, enfatizzati: madre lavoratrice, padre padrone, vittima, carnefice.
Così viene mostrato il video della comunione della piccola Sarah.
Non Sarah Scazzi quindicenne, bensì Sarah bambina. Come se a essere uccisa non fosse stata l’adolescente bionda, ma la bambina di otto anni. La bambina vestita di bianco. La bambina con la coroncina di fiori che guardando il telefonino che la riprende (il padre? Lo zio? La cugina? Il suo assassino) sorride fiduciosa al futuro.
«Il mostro ha ucciso una bambina indifesa, questa bambina, questo angelo».
Applauso.