Andrea Minuz, IL 12/2014, 2 dicembre 2014
C’ERA DUE VOLTE IL CINEMA AMERICA
«Ho dovuto chiudere, Totò. Qui non veniva più nessuno. La crisi, la televisione, le videocassette… Ormai il cinematografo è solo un sogno». Alla seconda ora e venti di Nuovo cinema Paradiso, davanti alla sala in rovina, l’insegna arrugginita, i calcinacci e le tazze del cesso all’ingresso, un Enzo Cannavale incanutito con lo zucchero filato sulle sopracciglia ci sferra il colpo di grazia: «Adesso l’ha acquistato il Comune per farci un grande parcheggio pubblico. Sabato lo demoliscono». Ma no, non può essere. Ci sarà una soluzione. Macché.
Nel crescendo straziante del finale, dopo averci morriconizzato a dovere, Tornatore si giocava il parcheggio pubblico come sineddoche della morte del cinema. Ci commosse lasciandoci intravedere una marea di Fiat Uno e Regata lì dove un tempo si andava in estasi per le cosce di Silvana Mangano a mollo nella risaia. Oggi non se la caverebbe così.
Oggi dovrebbe metterci l’indignazione, il conflitto. Tanto per cominciare, il parcheggio sarebbe privato; ancora meglio sale bingo, appartamenti di lusso, centri commerciali, multiplex assetati di denaro, per non parlare dei famigerati supermercati. Nel finale di Nuovo cinema Paradiso II, Leo Gullotta e Cannavale con la kefiah guidano l’occupazione, Pupella Maggio distribuisce i cannoli con la ricotta biologica agli occupanti e Totò, regista ricco e famoso, restituisce l’Oscar, si fa crescere la barba, torna a Giancaldo e va a presentare la rassegna su Pasolini, ingresso a sottoscrizione.
Quando uscì al cinema, prima della sfilza di premi presi un po’ ovunque, Nuovo cinema Paradiso faticò a trovare i suoi spettatori. In realtà, arrivava con un tempismo perfetto. Nel 1989 eravamo alla fine del decennio che aveva decimato le sale italiane. Ormai chiudevano anche quelle che negli anni Settanta si erano riprese coi film a luci rosse. Maledette videocassette. Le stesse che nel frattempo finivano in allegato con L’Unità come capolavori del cinema distribuiti a prezzi modici, risollevando (per un po’) le casse del giornale.
Nel 1994, l’artefice del compromesso storico tra grande cinema e videocassette infila il film di Tornatore nel suo Dizionario sentimentale dei film (aka Certi piccoli amori). «Nuovo cinema Paradiso – scrive Veltroni – strazia gli animi di chi sente il peso affascinante della vita che gli è corsa dietro, di chi vorrebbe voltarsi, ritrovare, anche solo un momento, le cose, le persone, i colori, gli odori. E, per farlo, usa il cinema. Come mezzo, ma anche come luogo dei sogni, ed esaltando la sua fisicità; una pellicola che brucia, una sala che si distrugge». Le sale sparivano, e coi dinosauri di Jurassic Park iniziava a sparire pure la pellicola. Bisognava fare qualcosa. Usare il cinema per una «corsa all’indietro» rendeva bene l’idea di quello che ci aspettava.
Dismessi i panni del critico sentimentale, indossati quelli di vicepresidente del consiglio del governo Prodi, nel 1998 Veltroni includeva le «sale d’essai» nel suo pacchetto di provvedimenti per lo spettacolo. Un fiume in piena di soldi pubblici che L’Unità presentava come il «decalogo per un grande cinema». I finanziamenti per le «sale di qualità» passavano da tre a sei miliardi. Ma il «decalogo per un grande cinema» non ha il tempismo del film di Tornatore. Un anno dopo chiude il cinema America, una vecchia sala nel cuore di Trastevere.
Non che ci fece caso qualcuno. Nel 1999, l’America era solo uno dei novecentodieci e qualcosa cinema italiani che hanno chiuso dagli anni Novanta a oggi. Fino a quando, a dodici anni dalla chiusura, non prese forma una minaccia all’altezza del tempo dei beni comuni e delle specificità del territorio.
«Vogliono farci un supermercato». Al teatro Valle tutto era iniziato così; una voce buttata lì, creando l’effetto che fa dire «squalo!» quando sei in riva al mare. Al cinema America la distruzione della cultura ha il volto di venti mini appartamenti di lusso con due piani sotterranei di garage ad opera della Progetto Uno Srl, che già dal nome non promette nulla di buono, anzi questi iniziano così e magari il progetto Due sarà una catena di centri commerciali.
Dopo quindici anni in cui ci scorrazzavano sopra i topi, ora scopriamo che dentro al cinema ci sono i preziosi mosaici realizzati da Anna Maria Cesarini Sforza e da suo marito Pietro Cascella negli anni Cinquanta, passaggio indispensabile per la dichiarazione di bene di interesse culturale. La Trastevere coi ristoranti dal finto cielo in cartongesso e i capitelli romani di plastica all’ingresso non ci sta. Il mosaico è un movente perfetto. Come nella sequenza degli scavi per la metropolitana in Roma di Fellini. Gli affreschi custoditi dal sottosuolo che svaniscono di fronte agli ingegneri; il passato travolto dalla violenza devastante della modernità, anche quella non proprio implacabile della metro romana.
Intanto all’America i ragazzi si danno da fare. Risistemano per quanto possono la struttura. Partono le rassegne, i dj-set e «le partite della maGGica col proiettore». «Tra Jarmusch e la Roma dove torna a battere il cuore di Trastevere», titola Repubblica (se sei della Lazio sei fascista o guardi i cinepanettoni). Ma sul cinema America si proiettano anche fantasmi e sbandamenti del giornale di Scalfari all’epoca della Leopolda. «Siamo all’ossimoro dell’eversione benedetta», scrive Francesco Merlo qualche tempo dopo in un articolo in cui attacca gli occupanti che gli vale una seconda fatwa, dopo il famigerato pezzo contro Francesco Totti.
L’occupazione però non entra subito a regime mediatico. Prima siamo ancora occupati col Valle. Una cosa alla volta. Quando finisce la festa, artisti, intellettuali e pezzi di cinema italiano puntano sull’America. Le somiglianze, sia chiaro, finiscono qui. Anche perché al Valle Occupato il supermercato funzionava più o meno come i Protocolli dei Savi di Sion, mentre quelli dei garage non scherzano. Eppure una somiglianza c’è. Pare che le occupazioni rendano meglio nella ZTL che nei quartieri più popolari, seguendo grossomodo la spietata logica del mercato immobiliare romano. Al cinema Maestoso, zona San Giovanni, i quattordici lavoratori della struttura che si barricano dentro e issano lo striscione «Maestoso occupato» se li filano in pochi. Non sono giovani e belli. Non fanno i film di Godard e le partite della Roma. Non c’hanno la linea di t-shirt da indossare sul red carpet. Si battono per non perdere il posto e continuare a proiettare Transformers 4 in 3D. Napolitano non gli scrive una lettera commossa. Scola e Rosi non si vedono. Sorrentino non minaccia di rinunciare alla cittadinanza onoraria di Roma. Neanche uno sceneggiatore col megafono. D’altronde, come scrive uno spettatore recensendo il Maestoso sul TripAdvisor dei cinema romani, «qui è da venirci solo se siete di zona, dentro non c’è manco il bar, giusto una bancarella coi lupini all’esterno».
All’America invece si sta dalla parte giusta delle cose. Il conflitto è netto. Speculatori di là, bene comune di qua. C’è la cittadinanza, il territorio, la difesa della cultura, lo spritz. Se cominci a occuparti del Maestoso poi finisce che devi studiarti i ritardi congeniti della digitalizzazione delle nostre sale, i soldi spesi male per le ristrutturazioni. Finisce che devi aprire il dossier «der Viperetta», l’imperatore romano dei cinema e presidente della Samp, Massimo Ferrero, col soprannome coniato addirittura da Monica Vitti, ma in chiave elogiativa dopo che lui la difese da un’aggressione, o così dicono. Finisce che devi far luce sul suo difficile rapporto coi sindacati e sui finanziamenti di Unicredit. Sulla grande operazione di «riqualificazione delle sale cinematografiche romane», ereditate per così dire dal circuito Cecchi Gori. «Voglio un cinema-champagne: uno entra, gli viene offerto l’aperitivo, guarda il film, beve, mangia qualcosa. L’ho visto a Tokyo, credo possa funzionare anche in Italia, ma serve personale preparato, che sappia parlare l’inglese», dice Ferrero quando gli chiedono delle varie sale non ancora riaperte.
Come nel più classico copione della schizofrenia italiana ci si infila in un vicolo cieco coi cassieri che ci offrono le ostriche in inglese di qua, e le rassegne sul cinema curdo a sottoscrizione di là. Sgomberato nel frattempo l’America con la rassicurazione della tutela culturale, gli occupanti vengono ospitati in un forno accanto dove danno vita al Piccolo cinema America, in comodato d’uso fino a marzo.
Come si fa a non schierarsi con questi ragazzi di vent’anni che vogliono far rivivere il cinema, che c’hanno un progetto. Vatti a leggere il progetto sul sito, mi dicono. Il «progetto a lungo termine» steso al tempo dell’occupazione è lungo dodici pagine in pdf con le figure. In meno di due righe chiunque è in grado di capire cosa vogliono i proprietari della struttura. Ai venti mini appartamenti e due piani di garage interrato di cui sopra si è aggiunta una libreria. La libreria potrebbe confonderci, ma è il solito trucco per aggirare il 50 per cento di vincolo d’uso culturale. Sarebbe comunque «una di quelle grandi catene che non hanno un indirizzo culturale ma commerciale», precisa subita il manifesto. Cioè i libri non solo vogliono venderli, ma pure gudagnarci. Poi c’è quello che vogliono gli occupanti. Ma qui è più lunga. Ci si imbatte in «impulsi delle soggettività che lo attraversano», «discontinuità urbana», «attivazione e condivisione di esperienze», «produzione di comune», «produzione di teoria critica», «consapevolezza dei molteplici rapporti tra saperi, poteri e soggetti», «non vogliamo essere clienti, ma registi», «sottrarsi alla valorizzazione neoliberista dei saperi», «sottrarsi ai ritmi della metropoli». A Trastevere. Che avrà pure tanti problemi, ma di sicuro non quello del ritmo della metropoli. Come tutti, sono certo che abbiano ragione loro però non ho capito come.
Il progetto è intrappolato in questo italiano assembleare mutuato dalle traduzioni di Deleuze & Guattari usati come Battisti e Mogol, in un mondo distopico degli anni Settanta minacciato dal golpe dei bingo. Tra strali lanciati contro i multisala, come i preti e il Pci che se la prendevano coi juke-box, la televisione a colori e l’autostrada del Sole, molti anni prima che diventasse materiale epico per Rai Fiction.
«Non vogliamo entrare nel mercato cinematografico esistente, sogniamo una sala ad offerta libera con profitti vincolati alla realizzazione di arene ed attività gratuite per il territorio, una programmazione fatta di retrospettive, con unicità ed irriproducibilità dell’evento». Irriproducibilità dell’evento. Praticamente, cento passi indietro rispetto alle intuizioni sul cinema del saggio L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica di Walter Benjamin, che è del 1936. Sia chiaro, non è mica colpa loro. Tutto ciò che li circonda è vecchio, intossicato. Tutto li spinge a guardasi indietro. Educati al terrore del nuovo, al culto delle cose morte, alla latteria che è meglio di Starbucks, alla tombola con nonna che è meglio del bingo, al disprezzo del profitto, a un ossequio della cultura con l’indice ammonitore della santa inquisizione, alla dittatura del contenuto. Vogliono il futuro, ma se li metti nella Silicon Valley dopo due giorni salgono sul tetto di Google con lo striscione per una Silicon Valley antifascista.
Quando si sta dalla parte giusta delle cose, c’è il vantaggio di non doversi mai sottoporre a verifica. Nessuno indica in quel tipo di linguaggio uno dei primi nemici del «futuro». Come diceva qualcuno, «da innocente vorrei un avvocato analitico, ma se fossi colpevole mi prenderei di sicuro un post-strutturalista francese». In nome di parole d’ordine oscure, brandendo la supercazzola delle «soggettività orizzontali», si arriva a posizioni grottesche, come quella contro i multisala. Non è facile argomentare in termini razionali contro la moltiplicazione dell’offerta (che mi permette di scegliere nella stesso cinema tra La trattativa di Sabina Guzzanti e Pongo cane milionario) o l’adeguamento della proiezione agli standard tecnologici, o il fatto di potermi comprare i nachos al formaggio, oltre ai lupini della bancarella. Allora ci vuole il «pensiero critico». Quello che da quarant’anni produce gli oggetti culturali e i modelli di consumo più uniformi e standardizzati, gli automatismi più stanchi e prevedibili. Il resto lo fa l’assenza di una educazione economica, ancora vista come nemica delle humanities e dell’«amore per la cultura». Mentre alzano i forconi contro i multisala, uno dei loro intellettuali di riferimento potrebbe ricordargli com’era diventato il cinema Moderno di piazza Esedra, chiuso nel 1994 per le condizioni igieniche disastrose in cui versava, tra avanzi di siringhe e sperma sulle poltrone coi buchi. Se non era per la Warner, che lo ha rilanciato come multisala del circuito Space Cinema, avremmo perso per sempre il primo cinema stabile aperto a Roma, nel 1907, con tanto di affreschi e stucchi d’epoca che il restauro ha conservato.
Ma i vantaggi di una visione «resistenziale» della cultura ci sono eccome. L’abbraccio tra soggettività e specificità del territorio permette a volte di mettere in piedi un’attività senza pagare utenze del gas, dell’acqua, della luce. Senza mettere a norma gli impianti elettrici e la cucina. Senza pagare le tasse e la Siae. Che con due, tre euro minimo a sottoscrizione e trecento persone a evento più la birra fanno tre, 4mila euro al mese. Soldi orizzontali, condivisi, partecipati. Sottratti alla valorizzazione neoliberista e infilati nelle casseforti gestite dai vertici dell’occupazione. Alla fine è questo che gli insegniamo. Che con la cultura si mangia, specie se non ci paghi tasse e bollette. Mentre il negozio accanto, che solo per aprire ha superato un purgatorio di uffici, permessi e controlli che ti tolgono la voglia di vivere ma poi ti premiano col quarantasette per cento di tasse sull’utile, si becca la multa perché la cappa fumaria non è in asse con la finestra del bagno. Ma come diceva l’assessore alla Cultura Flavia Barca, «le occupazioni vanno aiutate a non smarrire la strada». I commercianti possono anche chiudere.
Nonostante lo strazio del finale di Nuovo cinema Paradiso, la famiglia di Salvatore Cascio non si fece prendere dall’emozione. Nel 1995, Il Corriere della Sera andò a intervistarli e il giornalista non si capacitava della scoperta. «Può sembrare strano che con tutti i soldi guadagnati da Totò con il film, ai Cascio non sia venuto in mente di aprire una sala di proiezioni nel loro paese, ma si siano comprati due supermercati, uno a Chiusa Sclafani, l’altro a Palazzo Adriano dove sono stati girati gli esterni del film». «Strano?», gli rispondeva la madre del piccolo Totò, «Perché strano? Ormai al cinema non va più nessuno. Eccolo là il nostro cinema, in quel supermercato».