Sergio Romano, Corriere della Sera 2/12/2014, 2 dicembre 2014
C’è
un argomento che raramente viene affrontato dagli storici: la «ruralizzazione» dell’intera società e il ritorno alla società contadina voluto da Mussolini. L’inurbamento era visto come la causa dell’abbassamento della natalità e l’origine di disordini sociali. Questo obiettivo fu tale da condizionare le scelte economiche fin dal 1928; tuttavia Mussolini fondò l’Agip nel 1927, inaugurò nuovi modelli di automobili e sostenne la meccanizzazione dell’agricoltura. La «ruralizzazione» della società era forse solo una sorta di pretesto per ammansire le masse? Altrimenti non si spiegherebbero le sue scelte innovative nel campo industriale.
Piero Campomenosi
pierocampomenosi@libero.it
Caro Campomenosi,
P er rispondere alla sua domanda le propongo un confronto fra due Paesi, l’Italia e la Russia sovietica, che avevano alcuni aspetti comuni. Entrambi avevano fatto una rivoluzione industriale tardiva, all’inizio del nuovo secolo. Entrambi avevano una economia prevalentemente agricola. Entrambi erano recentemente emersi da una conflitto in cui le masse contadine, spesso analfabete, erano state la materia prima dei rispettivi eserciti. I partiti e i governi liberali ne erano consapevoli e speravano che il problema sarebbe stato risolto gradualmente dalla educazione e dallo sviluppo economico. Ma la gradualità, per i partiti autoritari che conquistarono il potere dopo la Grande guerra, non era necessaria.
Alla fine degli anni Venti, dopo avere solidamente installato se stesso al vertice dello Stato, Stalin dichiarò guerra ai kulaki (i piccoli proprietari creati dalla riforma Stolypin nei primi anni del Novecento) e affidò a poco meno di 30.000 militanti del partito il compito d’imporre, con la forza se necessario, la creazione di fattorie collettive (i kolkoz) che divennero da quel momento la lunga mano del partito comunista nella Russia rurale e in Ucraina. Conosciamo le disastrose conseguenze umane di quella politica, ma sarebbe ingiusto negare che la collettivizzazione della terra abbia fatto del contadino russo un cittadino sovietico, indottrinato ma alfabetizzato, servitore di uno Stato padrone, ma destinatario di previdenze e servizi ignoti alle generazioni precedenti. Ogni giudizio che non tenga conto delle condizioni delle campagne russe prima di Stalin sarebbe superficiale e assurdo.
Mussolini agì diversamente. Conosceva troppo bene la valle Padana e i suoi contadini per imitare il modello sovietico. Cercò di creare un cittadino-agricoltore facendone con toni molto retorici il nobile rappresentante di una nazione rurale che conservava e custodiva nella terra le maggiori virtù della sua identità storica. Inventò la battaglia del grano per dare all’agricoltura una missione nazionale nell’interesse dell’intero Paese. Migliorò le condizioni dell’Italia rurale con le bonifiche e la costruzione di nuove città. Si servì del mondo agricolo per giustificare la sua politica di espansione coloniale, ma anche per impedire che il contadino diventasse troppo rapidamente operaio, quindi più facilmente esposto al contagio di altre ideologie.
Il torso nudo, quando partecipava alla cerimonia della mietitura, era l’uniforme che Mussolini indossava per rivendicare le sue origini contadine. Non è vero tuttavia che la politica agricola del fascismo sia stata implicitamente anti industriale. Anche durante il ventennio fascista l’Italia ebbe imprenditori che contribuirono alla modernizzazione del Paese. Ma Mussolini, probabilmente, si fidava dei contadini più di quanto si fidasse degli operai.