Marta Serafini, Corriere della Sera 2/12/2014, 2 dicembre 2014
LIKE – Un like alla morte, alla violenza e a un essere umano che ha deciso di comportarsi da animale
LIKE – Un like alla morte, alla violenza e a un essere umano che ha deciso di comportarsi da animale. Ha fatto orrore vedere quegli oltre trecento «mi piace» al post di Cosimo Pagnani che ha ucciso l’ex moglie Maria D’Antonio, e che subito dopo (o subito prima) averle inferto più e più coltellate all’addome ha deciso di gioirne (o di annunciarlo) sul suo profilo Facebook con tre parole terribili: «Sei morta, t...a». Certo, gli investigatori stanno cercando di capire se davvero è stato Pagnani a scrivere quella frase. E certo, dopo le centinaia di segnalazioni arrivate al centro di controllo di Dublino, gli amministratori del social network hanno deciso di chiudere la pagina. Ma, oltre allo sconforto di fronte a quei pollici in su, viene da chiedersi se non sia arrivato il momento che la legge dia lo stesso peso alle minacce virtuali e alle minacce reali e fisiche. Viene facile rispondere di sì. Ma è una domanda che apre un dibattito enorme. E che proprio in queste ore sta facendo discutere gli Stati Uniti. Il caso è quello di Anthony Elonis, che sul suo profilo sotto forma di testi rap violenti ha minacciato l’ex moglie Tara. Lui li ha definiti una forma di terapia per affrontare il dolore per la separazione. Lei, invece, li considera un pericolo. Su chi abbia ragione decide ora la Corte Suprema nel caso 13-983, tracciando un solco che riguarda da vicino la libertà di espressione. Già, perché qui si stabilisce se ogni parola scritta su Facebook debba acquisire o meno valenza probatoria. Una rivoluzione, insomma. Fondamentale è dunque capire quali siano gli ambiti. Perché se si tratta di salvare una vita umana questo limite è sacrosanto. Ma se questo significa spiare, controllare o censurare, allora siamo di fronte a una prevaricazione. Sulla quale è meglio vigilare, per il diritto di tutti, donne comprese.